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mercoledì 8 giugno 2011

Ludovico Parenti, STRIPSODIA PER UN’OPERA POETICA DI NEIL NOVELLO



Se paradisi esistono mia madre ne avrà (tutto per sé) uno.

E.E.Cummings


Studioso non solo di Pier Paolo Pasolini, cui ha dedicato tra molti scritti un ponderoso volume (Il sangue del re), ma anche di Jean Genet, sul quale è di prossima pubblicazione un rilevante studio (Epopea di bassavita), di Machiavelli, Gadda etc., nonché curatore di diversi volumi sulla letteratura, le arti e il cinema, il quarantaduenne Neil Novello, origini calabresi, residente a Bologna, da tempo ormai si profila come uno dei più appartati, originali e geniali giovani studiosi che si calano nel proprio lavoro come in un mare inesplorato per riemergere con impreveduti tesori grazie a una capacità di prospezione che ha fatto dell’implacabilità linguistica e del rigore della conoscenza la sua regola.

Che fosse poi anche poeta, considerando l’appena edito Falò de’ rosarî, nella elegante collana poetica di Nino Aragno, non stupisce se si ha presente la precedente raccolta, Rosa meridiana (2004), in dialetto calabrese. A dettar legge poetica è un lutto incancellabile, la scomparsa della Madre, da Neil Novello immensamente amata, disperatamente cercata e omaggiata con un trittico dal momento che, tra Rosa meridiana e Falò de’ rosarî , si colloca Mutterland (2006), mediometraggio di poetica suggestione, memore del “cinema di poesia” pasoliniano.

Falò de’ rosarî (titolo bellissimo che sembra orecchiare la pur diversissima opera poetica di Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori) si articola in novantasei composizioni distribuite in nove sequenze che strutturano il tutto (fra le quali “Lager rosario”, “Celù”, “Parallaxis”, che a loro volta affondano e riaffiorano nell’architettura del libro), con l’eccezione di una poesia (“Stasimo in petalo verde giallo”) dalla palese ascendenza ‘sperimentale’, in evidente dissonanza, se non scarto violentemente radicale, dal rimanente corpus poetico; ed è opera, Falò de’ rosarî, che, per entrare nel Mistero, per misteri (come nel rosario) si esprime, agglutinandosi in una scrittura sapienziale misterica e allucinata: pagine e versi da toccare con devozione, sapendo quanto rischioso e arduo sia il tema affrontato/patito: la morte della Madre. Ed è, l’opera, una discesa insieme nella morte della Madre (del poeta) e nella morte delle Madri. Perché, quando muore una madre, è come se morisse ogni madre.

In Falò de’ rosarî l’immagine si fa incandescente nella sua distaccata freddezza. Sodezza, volumetria e scabrezza espressiva riflettono dolorose piaghe dell’animo. Il verso, dal lessico sovente prezioso e insueto, ha sapore di iscrizione sepolcrale, Nessuna linea a guidare, ad alludere a una sia pur approssimativa mappa di un cimitero che divenga emblema di tutti i cimiteri: dove le “urne confortate di pianto” svettino nella loro scenografia lamentevolmente petrarchesca: qui c’è una parola minerale, un’immagine insieme nota e misteriosa strappata alla cenere delle esistenze per farla rilucere nel suo timbro e nella sua forma.

Il sambuco non sa / il croco è già fiore / nostri occhi volati / in violati ossarî di madri // Col tempo tu albore, / sta a te ancora, a nessuno.” La cadenza, spesso monotona, scopre l’insistere e il persistere di un sentimento in sostanza ascensionale, benché spesso stornato, nel crepitìo del “falò” delle metafore, da un pudore che non riesce sempre a prevalere, tanto intuitivo e condivisibilmente afflitto è il groviglio dei sentimenti e dei sensi che, sia pure nella sostanziale ossificazione della tessitura poematica, del ductus oracolare ed evocativo, deflagrano in quasi lussureggianti sequenze, in paradossalmente barocchi prosciugamenti, taglienti e implacabili come certe fioriture figurali negli ‘impronunciabili’ versi di Celan.

Qui non c’è il barthesiano “piacere del testo”, ma il dolore del testo. Limpidamente oscuro (“Il sole rotola su me/ e io bevo luce,/ a testa in giù/ segreto pulviscolo.// Non da così lontano, da così”): bubbone nell’iter ossessivo del poeta – che sembra volercisi sempre più sprofondare per assaporarne l’intimo incomunicabile e straziante dolore, privatissimo e ‘sacro’ – e che spetterà al lettore far scoppiare a sua volta per verificare la vertiginosa fossa, la verticalità della morte della madre del poeta e di tutte le madri. A sua, e a loro gloria.


Ludovico Parenti


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martedì 20 aprile 2010

POESIE DI GIACOMO LERONNI


Di Giacomo Leronni, del quale ho recensito altrove la preziosa e lungamente meditata raccolta Polvere del bene, ho ora l'onore di pubblicare altri testi, che confermano l'indole essenziale della sua Musa e ne suggeriscono, forse, un ulteriore sviluppo (che non necessariamente segna, nella perpetua simultaneità, nella “contemporaneità di tutti tempi” direbbe Luzi, che è propria della vicenda poetica, una fase cronologicamente successiva, ma, piuttosto, una ulteriore, interna articolazione ipostatica, che avviene, avrebbe detto un filosofo, per autoctisi di una medesima identità creatrice).

Scavata nel silenzio, quasi dolorosamente aureolata, e insieme assediata, come in Ungaretti o in Celan, dal bianco del silenzio, del non detto e forse indicibile (del “Mistico” di Wittgenstein), è la parola del poeta: parola che sorge da profondità minerali, quasi da radici inorganiche o preorganiche, eppure oscuramente, immensamente vitali, come quelle che cela la terra ardua, grama, tormentosa, del suo Sud – e, insieme, strenuamente consce di se stesse.

Poesia notturna e, insieme, albale, aurorale: poesia della fine e dell'inizio, dell'Omega e dell'alfa, ciclicità dell'essere e dell'esistere risolta e distesa, però, nel discorso ciclico, progressivo-regressivo, nel respiro duplice e bidirezionale, del versus.

La “notte amica” di Ungaretti (ma prima ancora quella mistica e maestosa di Novalis) è, nella sua oscurità, fonte di luce: quella che pare pietra cieca è specchio, invece, colmo di stelle; se dapprima la notte è dimora dell'autentico, e il giorno mascherata di menzogna, nella polivalenza del dire poetico oscurità e luce, silenzio e voce si fondono invece in un nesso inscindibile e duplice. Il presente notturno della creazione poetica è un “presente eterno”, agostiniano e petrarchesco punctum temporis “a cui tutti li tempi son presenti”. E nelle rovine del tempio interiore possono celarsi l'acqua di vita e la nuova fioritura, ignorate, eternamente, preziosamente vive, anche se forse soltanto per se stesse (il tempio interiore di Dell'eterno in minuzie sembra alludere al Dio, senecano ed agostiniano, che abita in interiore homine; ma non è, qui, fatto oggetto di alcun culto: il Dieu caché, il Deus absconditus di Pascal invade con la sua presenza-assenza anche il sacrario dell'interiotià, e viene così ad essere manifestazione del subconscio, dell'abisso interiore, intentato e non lambito, a ben vedere, se non dalla parola poetica stessa). (M. V.).


LEZIONI DALL'OSCURITÀ


Dispongo le tempere
del giorno
poi le ripongo

il meccanismo
s’inceppa
ma io insisto
faccio forza
prevalgo

sorge l’alba

senza che alcuno
sappia
spingendo, tendendo
i muscoli
altre ore di falsità
sono pronte.

***

C’è un pozzo
una giberna per il silenzio

labbra come mensole
il tappeto delle rese:

un ricordo procura
la luce necessaria
un giuramento disorienta

spingo oltre il giudizio
a mezzo
del corridoio di tenebra

eludo l’agguato
della soddisfazione
l’approdo, il tatto:

questa la casa
il ricovero.


***

Opera incidendo
accade

essere frusto
che si aggruma
sasso
che sollecita la marea

a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe

lo descrivi
ma non è così
occulto
e colmo di stelle

potrebbe essere un seme
una spilla

è schivo
non comprende
perché caparbiamente
vuoi dargli un nome.


***


La notte
mi piega a sé
mi affida
la sua albagia:

è tardi
per mentirle
per ripagarla
con monete d’identità.

Sfolgora il pregiudizio
smania il corpo
presagendo la prova:

indosso
cellule esiliate

mi circonda
il buio presente di chi scrive
presente eterno.


***


Non sono più io
ma il male
che m’interroga

l’assurdo che impatta
grumi terrestri

il picchio del male
che indaga se stesso.

Non sono io
sono un dito di morte

lava che squadra
l’abisso

rifugio improvvido
in cui archiviano preghiere
le mie malnate
foglie verdi.


***


Dentro tace il presente
si apposta
si fa vena

scorgo un taglio
è loquace

fuori chiamano
nitidamente
sboccia ripetuto
un nome

ancora dentro
l’ora è già smalto
cellule si stirano

sono dietro l’angolo
mi vedo
oltre il gomito
caudato delle stelle

invischiato
invocato
per portare buio.


***

Risalgo l’alba

la luce che sgorga
da un nucleo minuscolo

il fiore dell’insidia.

Ad ogni approdo
inatteso sostegno

una cipria di vittime
il cui fervore dispensa
dalla visione.

Procedo
per la febbre
che s’impenna

senza l’obbligo del grido

fino all’ottusa vena
che concepisce.


***

Il ricordo è il mattino

che s’innalza
da ogni parte

è una fionda
una sberla
per le ansie

scuce il presente
lo spezzetta

si aggiudica il mare.

Il ricordo:
un’aurora salda

un guizzo di parole
tessute con cura

abbaglianti
e già sconfitte.


***


Case adulte
lance di necessità

guglie, tronchi
di pietra:

la vetrata del cielo
ricomposta

porfidi insondati
capaci di canto.

La pena è elusa
il ricordo s’incasella:

torna la città
al martirio sonoro

la sera reca l’ambra

le strade vibrano
dolci come nomi.


***

Ecco la sera

è questo il suo nome

un acero il seno
derma viscoso

ecco parla
ed io registro
arrivo da voi
piccole mosche
che trattenete il fiato

arrivo licheni
più gagliarda
dal precedente abbraccio

non posso fermarmi
scivolo
per chine taglienti
resisto gioconda

per accompagnare
tutto questo legno
di ore
ad ardere.


***

Niente può separare
la luce dal chiodo

la cattura è definitiva

la mente ne ripercorre
l’eco
e s’intorbida.

Sfrigola il fiore
della pena, lucida
le sue barricate:

niente può separare
l’ombra dalla meta
la folgore dall’orgoglio

e c’è chi con i passi
converte il buio

un bambino di prato
un adulto
che scalcia la gravità

niente può arrestare
il cuneo che avanza
una nudità dopo l’altra.


***

Quanto cercare
dopo il primo colpo

ci sono altre strade
il pruno le impara

i sassi apprendono
un codice sapiente

invece si insiste
si cerca il privilegio
inguainato nel buio

si bussa
a porte di geranio
si urtano frasi
di terra pavida

ci sono altre fronde
le percorre la luce

dritto davanti a noi
o appena indietro

un coro di spasmi
da cui semplicemente
attingere.



***

SINE DIE


Mente
che si scompone
in altra mente

resina
incisa dalla luce

o piega
di creatura assorta
nella notte indulgente

mente
china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero

e formularne il nome

l’essere
in spirito e assenza

e intorno fanfaluche
esitazioni

esecuzioni.


***



DELL’ETERNO, IN MINUZIE

1.

Frasi d’ambra
giorni affogati in altri giorni
d’eccellenza o incuria

erba esiliata sul colle
oltraggiato fino al midollo
poi rappreso
per l’incontro in vista

pietre che rigano la fedeltà
gonfie di tutto il sentire
gli approdi, la futilità
dell’eterno in minuzie

parole affastellate, trascorse
il tempo di girarsi
di accostare il vuoto che fruscia

lampo su lampo
scossa dopo scossa

eccolo annotato, siglato
il luogo non-luogo
il senso imperscrutabile

di tutta questa luce che non sazia.

2.

Replicare passi sconsacrati
scarni i tratti, le tracce
arenate
del cuore che sgombra

più vivo per questo
l’ansimare della storia
più acuta l’intrusione
dei sensi

fra vite sepolte, riemerse
dove le pietre si flettono
e l’incanto recalcitrando
si spegne.

È in questa voce che attendo
i tuoi occhi, i margini d’osso
i muschi
fra l’occulto e l’esploso

nella città inerme
che mi abbraccia

nei ruderi
di templi interiori
che nessun culto ha mai sfiorato.

lunedì 16 marzo 2009

Neil Novello, "Morte di un intellettuale fanciullo"

Riproduco, con il gentile consenso dell’autore, uno scritto già apparso su un settimanale bolognese, in cui veniva rievocata la figura di Riccardo Bonavita, giovane intellettuale, studioso di Leopardi e della Shoah, morto ancor giovane, di propria volontà.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)




È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.