domenica 7 luglio 2019
A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni
Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende
(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)
(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)
e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente
(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)
Matteo Veronesi
mercoledì 21 settembre 2016
Elisabetta Brizio, "'Compos sui. Poesie nello stile del 1940' di Massimo Sannelli"
Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.
È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.
lunedì 6 giugno 2016
Giuseppe Feola, "Schegge (II)"
Nel momento stesso in cui si avvicina alla natura (in cui anzi si fa essa stessa natura, in cui la parola si fa visione ed evento, nell'immediatezza delle forme verbali, della sintassi nominale, dei "bianchi" che isolano i sostantivi come cristalizzazioni delle sostanze appercepite, o come "idee" in senso fenomenologico), la poesia ribadisce ed accampa la propria assoluta autonomia, il proprio aurorale valore di "cosa fra le cose", di "cosa aggiunta al mondo", Leben e insieme mehr-als-Leben.
I bianchi, poi, nel momento stesso in cui paiono destrutturare il tessuto metrico del testo ritagliano ed isolano, invece, spesso, emistichi e cola, regolari. La metrica è negata nell'apparenza per essere ribadita nella sostanza profonda, nelle autentiche e radicate ragioni della ritmicità sotto o al di là del ritmo, come in un complesso gioco di entropia e neghentropia. (M. V.)
1
L’inverno – un vello
di nuvole
ricovera il giorno nel sonno:
è culla
del fulmine
a notte.
2
Nelle case: le lampade.
Studenti,
esistenze in attesa,
intente al
futuro.
3
Nelle pozzanghere:
la schiuma
dei giorni
‒ fumo di oggi
che esala al domani.
4
Venti taccole sui rami dell’albe-
ro stecchito: gentile cicaleccio
nero, che oscilla
di voli, nell’azzurro
inverno.
5
Alberi ancora secchi
tra campanili e case:
le loro braccia insistono al silenzio;
sulle dita, dialogo
d’uccelli:
voci primaverili della luce.
6
L’ala della libellula
canta la luce:
voracità dei
giorni, che cresce di ritmo di Sole e
sfiorisce.
7
Volo di gabbïani,
da ovest:
vista,
nel cielo
lontano,
dell’invisibile mare vicino.
8
Solitudine: un cerchio
affollato di voci;
un balcone da cui
non si affaccia nessuno.
9
.
Azzurro fosforo
di questo tramonto: si cambierà in
ceruleo e nero.
Nuvole. Bianche
ali di gabbiani che se ne vanno.
10
Crescono i cardi col lume del Sole
negli occhi:
cerulei guarda-
no la prole dell’uomo,
che passa.
11
La città vecchia immobile
nel pomeriggio del sabato estivo:
lenzuola stese nel cielo;
risveglio
beato, sotto l’azzurro del Tutto.
12
Da undici anni
combatto
col senso da dare alla vita;
spenta
la sigaretta: tra i denti, la cenere
mangio; la birra,
finita.
13
Il fremito delle foglie, sfiancate
dalla calura.
Instancabile suona,
lì in alto, la
corda della cicala.
14
Voli di corvi
e gabbïani, sul tetto di fronte;
la mezzaluna nel cielo diurno:
raduno
di azzurre, mobili vite, sul petto, nel-
l’occhio del Sole.
15
Il rombo immane
di foglie nel vento:
ode unanime al tempo
di diecimila vite
votate al-
la morte.
16
Il dono della notte a chi è solo.
La danza delle stelle:
la lontananza, il volo.
mercoledì 16 luglio 2014
Una nuova raccolta poetica di Gabriele Marchetti
«COME FOGLIE DA UN CIELO INESISTENTE». PICCOLA NOTA SEMIPOLEMICA PER UN NOVANTIQUO LIRISMO
Ci si dovrà interrogare, prima o poi, sulle motivazioni che hanno condotto, negli ultimi anni, alla diffusione (nella letteratura, nella comunicazione, forse anche nella vita) del cosiddetto minimalismo, vera e propria "mutazione antropologica" che contrassegna questa nostra ‒ per echeggiare una citazione abusata ‒ modernità liquida: di uno sguardo, cioè, curvo verso la terra, ripiegato sull'immediato, sul limitato, o addirittura sul banale, cieco ai vasti respiri della sensibilità e del pensiero.
In tutte le sue varie maschere (dalla deformazione sperimentalistica al piano realismo, dall'ingenua poesia del quotidiano e dei sentimenti elementari al più crudo realismo “cannibale” scimmiottato da modelli americani, fino alla “poesia asemantica” che cancella ogni nesso logico e ogni prospettiva di comunicazione, senza nemmeno cercare nuove strutture e nuove possibilità espressive) il minimalismo sembra avere invaso, fino a dominarlo, il campo della poesia: vuoi per le esigenze dei festival e dei reading, il cui pubblico, stordito dalle consuetudini spettacolari e mediatiche, non è particolarmente incline alla concentrazione e allo sforzo interpretativo, e considera e apprezza più l'esteriorità che il messaggio, più l'apparenza che l'essenza; vuoi per le necessità, le aspirazioni o le illusioni dell'editoria, che forse spera di riguadagnare pubblico e vendite alla poesia proponendo versi di immediato impatto e facile fruizione, che strappano un sorriso o un breve pensiero ad un pubblico sempre meno attento; vuoi per la sempre più frequente mancanza di una specifica e profonda cultura letteraria anche in chi controlla, guida e giudica il mondo dell'editoria e i meccanismi dei premi, delle antologie, delle riviste (troppo spesso non solo il lettore comune, ma anche il presunto specialista bolla come retorico o manieristico ogni discorso che non sia, nel suo senso primario, di immediata comprensione, ogni lessico che esuli dalle poche centinaia di voci del vocabolario quotidiano e televisivo).
Decisamente inattuale, perché lirica, simbolica, musicale, memore di una tradizione interiorizzata, fatta propria e intimamente riplasmata, fino a divenire una seconda, rinnovata natura (uno specchio della natura, o una natura più pura essa stessa, con le radici del ritmo, le fronde delle sillabe, gli echi e i riverberi dei canti), è la poesia di Gabriele Marchetti: lontana dai clamori, dalle luci, dalle logiche di un sistema letterario che, in modo ancor più insidioso perché, forse, inconsapevole ed irriflesso, finisce spesso per far propri e ricalcare le forme i tempi i modi, quanto mai lontani dalla poesia, della comunicazione di massa.
Si potrebbe ripetere, per l'ispirazione e la motivazione fondamentali della poesia di Marchetti, ciò che D'Annunzio diceva della genesi di Alcyone: cioè di scrivere, o meglio di cantare, «imitando le aure le acque e le spiche col suono d'una semplice canna, tenui avena». Ma è, quella semplicità, quella naturalezza, proprio come nella tradizione bucolica, prima classica, poi rinascimentale, simbolista, ermetica, non specchio disarmato e nudo di ingenuità, ma al contrario frutto di uno studio, di una ricerca, di una decantazione e di un filtro esercitati tramite la consapevolezza stilistica e formale.
Una figuratività, una visività indefinibili, inafferrabili percorrono i versi del poeta: si pensa a volte ai macchiaioli (per i contorni e le figure riconoscibili e insieme sfumati, per la linea del pensiero ‒ della percezione che si fa pensiero ‒ coerente, naturale e insieme sinuosa e frastagliata), a volte all'allusività simbolica, all'evocazione ombrosa e svanente, del Van Gogh più cupo, altre volte ancora addirittura a certe immagini orientali, finissime e cesellate, aggraziate, apparentemente indifese eppure solide e scolpite come il diamante (ho in mente, ad esempio, le liriche cinesi tradotte da Onofri, o quegli haikai giapponesi che furono per Ungaretti modello segreto, remoto ‒ e rinnegato).
Ma si tratta, a ben vedere, di una visività (o visionarietà) e di una figurazione immateriali, che mostrano, o anelano a mostrare, l'invisibile, l'impalpabile eco psicologica, l'inafferrabile riverbero esistenziale delle scene, degli oggetti, dei paesaggi, degli stessi ricordi che infine, ricomposti dalla memoria, sono a loro volta immagini, figurazioni interiori, nutrite dalla mente e dal cuore: come una sorta di Rimbaud («noter l'inexprimable», «écrire des silences», «fixer des vertiges») rivissuto, rivisitato e riattraversato con la voce e lo sguardo di un poeta profondamente italiano, nutrito e plasmato dai secoli della propria tradizione (tanto che questa poesia è davvero, nel senso più autentico, classico-moderna, nella misura in cui anche le radici simboliste della nostra modernità sono già da tempo diventate, in certo modo, per l'inevitabile moto ricorsivo della storia, classiche ‒ al punto di apparire, oggi, datate a molti fautori sia del postmodernismo frammentario, sia della più ingenua poesia del quotidiano e del vissuto).
Di fatto, è come se la parola poetica di Marchetti descrivesse non la realtà, naturale o interiore, ma immaginari dipinti che la raffigurino; come se la realtà, il vissuto, l'esperienza, l'emozione (che non è meno intensa, ma semmai ancora più acuta ed autentica, come avvertita doppiamente, per il fatto di essere riflessa e moltiplicata nel prisma delle reminiscenze letterarie) fossero già percepiti attraverso la mediazione e il riverbero di un'esperienza estetica anteriore, anzi di una catena di esperienze estetiche, analogicamente interconnesse, che ha costituito e plasmato, nel corso del tempo (ma da una distanza che si estende al di là del tempo), la sensibilità, l'io, l'individualità percipiente e creatrice.
Né si tratta di una figuratività esteriore, ornamentale, barocca, di una generica analogia o di un parallelismo privo di vero contatto fra l'immagine implicita e la parola che la dice, o non può dirla, e arriva solo ad accennarla o ad evocarla; piuttosto, di un comune sostrato ineffabile che alimenta sia la parola che l'immagine, e che entrambe, dialogando scambievolmente o specchiandosi l'una nell'altra, sfiorano, suggeriscono, senza poterlo mostrare appieno.
(Poesia intesa, come la pittura per Leonardo, in una pagina citata splendidamente dal D'Annunzio delle Vergini delle rocce, quale «cosa mentale», «cosa naturale vista in un grande specchio»: «se tu conosci che lo specchio per mezzo de’ lineamenti ed ombre e lumi ti fa parere le cose spiccate, ed avendo tu fra i tuoi colori le ombre ed i lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancor essa una cosa naturale vista in un grande specchio»: visione, nel segno del pittore come in quello del poeta, realistica ma in pari tempo ideale, esperienziale ma filtrata dall'intelletto, materica eppure platonica ‒ forgiata ed intrisa, forse, di quella «materia intelligibile» di cui parlava Plotino).
Tradizione e memoria, si direbbe, come destino, in qualche modo tracciato e predeterminato dal fatto di scrivere in una lingua madre che ci preesiste, che ci è stata donata, in cui siamo caduti, in cui esistiamo ed insistiamo, ma che in certo modo rinasce e risorge, ricreata, ogni qual volta torniamo a farla risuonare, nell'anima o sulla pagina: destino, dunque, profondamente e consapevolmente accolto, vissuto e rivissuto, come in un gioioso amor fati.
«I giorni spengono, senza un ritorno - / come foglie da un cielo inesistente». Il noto, quasi in sé consunto, motivo simbolista (ma già della lirica antica) della feuille morte riceve, dall'improvvisa illuminazione metafisica (ma si tratta di una metafisica o di un'ontologia negative, di un Essere-Nulla, di un sostrato privo di determinazioni, ma da cui tutte le forme traggono origine e sussistenza), nuovo valore e nuova significazione. Il vissuto cade, per intermittenze, da un tempo anteriore ‒ allo stesso modo che da una memoria arcana gocciano, con lento e minuto stillicidio, i simboli, i segni, le sillabe, i ritmi ‒ e le tinte si raccolgono brevemente a comporre un'immagine mentale nuovamente dissolta dal bianco della pagina.
Le interne anomalie metriche, le accentazioni desuete che di tanto in tanto, come nell'Ungaretti di Sentimento del tempo, intervengono a sollecitare e ad alterare la compagine dell'endecasillabo, sono espressione di questa stessa sfasatura, di questo delicato e sottile, ma vitale, straniamento, di questo essenziale clinamen, ben più efficace e penetrante di qualsiasi rude realismo, o di qualsiasi infrazione chiassosa e provinciale.
«Aspetto l'attimo che questa vita / si smagrisce nel silenzio distante / che la fa quasi sembrare infinita». L'oscillazione metrica rimarca la sospensione temporale dell'istante che dilata il tempo, e che si fa vuota e pura lontananza, possibilità dischiusa e indefinita, visiva ed interiore. «La fonte si è gelata, / la terra suona scura / nel silenzio che molce ‒ / un bisbigliare dolce / di gemme che infiorano / o muoiono socchiuse». Il settenario non ha, qui, più nulla di quella cantabilità un poco esteriore, arcadica, ad esso associata: al contrario, la levità dell'andamento metrico riesce a cogliere in modo insostituibile il quasi-nulla, il quasi-silenzio, il suono interiore e sognato delle gemme che muoiono sul nascere, la prossimità di vita e morte nel trapassare inafferrabile dell'istante ‒ e quel «molce», parola aulica che farebbe insorgere gli odierni fautori della spontaneità e dell'autenticità e nemici della retorica e della letterarietà, è invece, in questo contesto, la spia essenziale di una dolcezza malata, di una soavità che nasce dall'annullamento: dolcezza, perciò, inquietante e remota, che viene e sale da profondità lontane (come in D'Annunzio: «passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce»).
Sembrano, i versi di Marchetti, descrivere un mondo passato, d'altro tempo ‒ o forse un mondo senza tempo, popolato di simboli sospesi, di enigmi fissati e per sempre irrisolti, come nella pittura metafisica. Eppure, ci si rende conto che, a ben vedere, nulla di ciò che il poeta descrive o crea è inimmaginabile nel mondo d'oggi, come in quello di ogni epoca: vite che finiscono, spesso prima del tempo, o meglio in accordo pacifico e ras-segnato con un ordine assoluto, fatale ‒ stagioni che si avvicendano, il lavoro dei campi con i suoi ritmi e le sue fasi ‒ i giochi eterni, oscuramente sapienti, dei bambini ‒ gli animali e le piante e i loro nomi che, finalmente riconciliati con una natura ritrovata, sono di per sé, a volte, fonte di evocazioni poetiche ‒ gli elementi naturali che tornano essi stessi, con il valore simbolico che vi è connaturato, a ridefinire e nuovamente circoscrivere lo spazio del dicibile e dell'indicibile.
«Le ragazze fanno foto nel sole: / alle spalle resta il verde del prato, / in mezzo ai tronchi il sorriso dei morti / che luccica, sbiadato». Una foto è una foto, abbia in sé la patina nostalgica ed ingiallita di un vecchio salotto, la perfezione gelida e straniante dell'«epoca dell'immagine del mondo» o lo splendore fatuo ed effimero dell'odierna smaterializzazione digitale: essa è sempre phos, luce, immagine ricordo inganno simulacro interiore («e m'è rimasa nel pensier la luce», canta il verso di Petrarca forse più amato da Ungaretti); allo stesso modo che fra l'erba e i tronchi continua a brillare non visto, e a risuonare inudibile, il sorriso dei morti (un verde, questo, fiaccato eppure persistente, insidiato ed eterno, come nel primo, più pascoliano Quasimodo: «un verde più nuovo dell'erba / che il cuore riposa»).
Come a dire che la natura è eterna, e con essa è eterna la poesia con i suoi archetipi, le sue immagini cristallizzate e fissate per sempre, i suoi emblemi immutabili e sempre vivi. E il volerle del tutto cancellare, violare o sovvertire (la natura come la poesia), inseguendo il fantasma del nuovo o l'oggettivazione illusoria di una presunta, contingente realtà, e idolatrando la contemporaneità come valore assoluto, non è che una delle tante forme (forse la più subdola, perché ammantata e mascherata di una modernità e un rinnovamento necessari) dell'alienazione dell'uomo da se stesso e dal mondo.
Questa può apparire una visione antimoderna, nostalgica, retriva, retorica, legata ad un attardato umanesimo di retroguardia. Forse lo è.
Matteo Veronesi
mercoledì 12 febbraio 2014
Silvia Secco, "Sonetti"
“Lenta l’armonia dei grilli
tenta i cieli opachi”
“Voi che di me il contrario di me fate”
domenica 2 ottobre 2011
LA POESIA FRA LIRISMO E SPERIMENTAZIONE
Riprendo qui un intervento altrove occasionato da un cortese commento di Leopoldo Attolico: un poeta di valore, capace di conciliare lo sperimentalismo stilistico, brioso, a volte quasi beffardo, con la consistenza ontologica, rivelatrice, quasi sapienziale, della poesia. Scriveva, ad esempio, nella sua raccolta d'esordio, che la poesia è «una comunione con l’ultima ruga d’ombra nascosta / di una navata: la “sua” navata la poesia / effusiva e gelida; / tormentata da un’unghia d’angelo / che non è mai cresciuta». Insomma una parola capace di illuminare e di dire, di portare alla luce dell'espressione, la piega nascosta del reale, l'intercapedine indicibile ed inafferrabile in cui si nasconde il senso delle cose, come inafferrabili, quasi immateriali sono, nella natura, i costituenti minimi della materia.
Che cos'è la poesia pura? Che cos'è la lirica? E l'antilirica? Il lirismo e l'autonomia della letteratura escludono forse a priori la narrazione, la contaminazione, il riferimento al reale, la sperimentazione sitlistica? Certa poesia riduttivamente ed ostentatamente impura, indistinta da una prosa appena scandita e ritmata, si risolve in un minimalismo asfittico, senza luce e respiro.
Ma il minimalismo, nella misura in cui è poeticamente valido, è un minimalismo lirico. Guardiamo alla lirica greca: essa abbraccia Saffo, Alcmane, ma anche Archiloco: in ogni caso, lirismo come espressione autocosciente della soggettività creatrice, sia nella forma dell'idillio naturalistico che in quella dello sfogo violento, dell'invettiva, del realismo più crudo. La poesia o è pura e lirica, o non è poesia. Si rischia, certo, di tornare, in questo modo, a quella tautologia in cui in fondo finì per risolversi il crocianesimo (poesia e non-poesia: e certo banalizzo manualisticamente, per brevità, il pensiero di Croce).
Ma, piuttosto, l'idea è quella di avvicinarsi alla religio litterarum dei Vociani: che leggevano, con uno spirito non dissimile (sempre basato sul valore assoluto della parola come ricerca, mediazione, interiorizzazione trasfigurante e metamorfosante del dato esperienziale ed esistenziale), Dante e Petrarca, l'impuro e il puro, la molteplicità inesauribile dei registri stilistici e dei piani di realtà così come la sublime monotonia, il soavissimo mormorante monologion, del soggetto dolente e poetante. Su questa base si potrà forse superare la preconcetta, spesso pretestuosa o interessata, contrapposizione fra una poesia lirica, neo-simbolista o neo-ermetica, e una, invece, realistica, straniante deformante, violenta.
Vi è, a tratti, lirismo in Sanguineti, ed è forse il Sanguineti migliore e più duraturo ("ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: / i bambini / che sognano (che parlano, sognando); / (ma i bambini, li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):": un lirismo sommesso, da berceuse, quasi pascoliano, pur permanendo la frammentazione sintattica, la versificazione basata sulle unità logiche più che sulle sillabe); e possono esserci realismo e asprezza in Luzi ("Muore ignominiosamente la repubblica. / Ignominiosamente la spiano / i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. / Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto").
La poesia è poesia: ma, oggi (tanto sul versante sperimentale che su quello neo-simbolista), non più come intuizione lirica o come sintesi a priori, bensì, al contrario, come coscienza critica che il poeta ha del linguaggio e del proprio operare.
M. V.
mercoledì 24 marzo 2010
LA POESIA DI GIACOMO LERONNI FRA DIVENIRE E "SECURUM AEVOM"
La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.
«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).
Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.
«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».
Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.
Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.
«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.
Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».
Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.
«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».
Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.
Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.
Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.
Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.
Matteo Veronesi