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mercoledì 28 maggio 2014

Giselda Pontesillli, "Adriano Olivetti, Editore"



Ripercorrendo il progetto editoriale attuato da Adriano Olivetti tra il '46 e il '60 con le sue edizioni di "Comunità", non si può non avvertire tra i libri da lui pubblicati un singolare collegamento, un'inconfondibile, anche se dapprima indefinibile, unità di intenti, pur se gli autori proposti, i temi affrontati, le rispettive discipline di appartenenza sono molti e diversi.
E' come se in questi libri parli variamente una sola voce; come se siano stati scelti per qualcosa che tutti, a loro modo, hanno e che li rende, in fondo, analoghi, unanimi.
Sappiamo da autorevoli testimonianze ( Zorzi, Ferrarotti ) che Olivetti sceglieva personalmente i libri da pubblicare e del resto lui stesso in un'intervista al quotidiano "La Stampa (maggio '59) dichiara: "La scelta dei titoli è esclusivamente mia".
Ma in base a quali criteri, li sceglieva?

Sia dalla Dichiarazione politica del Movimento Comunità (genn. 1953), sia dai vari scritti e discorsi di Olivetti (oggi in ristampa nelle riapparse edizioni di "Comunità"), sia in primo luogo dal suo inedito, straordinario modo di fare l'imprenditore, emerge chiaramente, a mio avviso, che egli esattamente nel senso illuminato, proprio in quegli stessi anni, dall'allora sconosciuto Jan Patočka non aveva un'ideologia ma una vita nell'Idea, o, sempre citando Patočka, non era un intellettuale, ma un uomo spirituale ( cfr. "L' idéologie et la vie dans l'idée" e "L'homme spirituel et l'intellectuel" in Jan Patočka, Liberté et sacrifice -Ecrits politiques- J. Millon, Grenoble 1990, p.41-50 e p.243-257).
Credo che questa fondamentale differenza sia presente, sia pure implicitamente, a tutti gli studiosi e testimoni dell'opera di Olivetti, i quali, dovendo sottolinearne, a un certo punto dei loro discorsi, la posizione meta-politica, morale, religiosa, culturale, fondata su valori spirituali, mostrano di avvertire, anche se non lo focalizzano speculativamente, che i suoi criteri di fondo erano ontologici, non ideologici.
In un suo scritto, al riguardo esemplare, Olivetti richiama tutti, "gli uomini, le ideologie, gli Stati" a liberarsi, cioè a sottomettersi nuovamente a ciò che -lui dice- "rimane eterno nel tempo e immutabile nello spazio: amore, verità, giustizia, bellezza": le Idee, le "autentiche e creatrici forze spirituali" -lui le chiama.

"Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzione alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo.
Parlando di forze spirituali, cerco di essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essenziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore".
(da "Le forze spirituali" p.39-40, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

In questi pensieri non c'è, a ben vedere, alcuna ideologia, perché Idee e "forze spirituali" non vengono definite, rappresentate, ridotte in contenuti positivi, bensì solo nominate e intuite nella loro indefinibile -eppure evidente- assoluta realtà, nella loro differenza ontologica da tutto ciò che è oggetto, o concetto.
Proprio per questo esse coincidono, per Olivetti, con la libertà: perché non sono imposizioni, categorie, precetti; ma puri appelli della trascendenza e quindi "motori immobili" della nostra liberazione, ricerca di libertà, pluralità.
Ma come si può concretamente rispondere a questo loro appello?
Tra gli altri studiosi di Olivetti, Beniamino de' Liguori (nuovo direttore delle edizioni di "Comunità") ha il merito di aver valorizzato in lui, la prioritaria dimensione dell'agire, risolutiva per comprenderne al meglio il pratico e niente affatto utopistico messaggio (cfr. Beniamino de' Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Quaderni della Fondazione Olivetti n.57, Roma 2008 ).
In Olivetti, "agire" significa innanzitutto, secondo me, confortare con il fare, col proprio impegno di uomo e imprenditore, la verità, la credibilità di ciò che pensa e dice, coerentemente con l'insegnamento paterno che gli è sempre presente:

"La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole".
(da "Prime esperienze in fabbrica" p.30, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

Ma poi, "l'agire" è per lui, come per Hannah Arendt, diverso sia dal lavorare che dal produrre opere: l'agire, che la modernità ha di fatto totalitariamente abolito, è la forma più alta e libera dell'attività umana, quella che rende pienamente umano l'uomo, quella in cui il lavoro, necessario per garantire la vita biologica, è gratificato e giustificato.
Chi lavora (l'operaio, che Olivetti aveva in fabbrica, come qualsiasi altro uomo) non deve, non può farlo solo per la riproduzione materiale dell'esistenza, per la vita biologica, ma anche per realizzare la propria vita umana più specifica, per poter agire.
L'agire è il prendere (o il seguire) un'iniziativa libera, rivolta alla Verità, al Bene, è mettere in movimento qualcosa di degno, di nuovo, di non prevedibile, di non meccanico, è pronunciare (o ascoltare) grandi parole, è decidere o anche solo riflettere con gli altri non strumentalmente, bensì disinteressatamente, è vivere nell'Idea -direbbe Patočka, "dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo".
L'agire è fondamentale non solo per dare senso al lavoro, ma anche per far comparire artefatti, opere: architettura, arte, poesia non ci sarebbero, non ci sono, senza coloro che, gli uni con gli altri, ricordano, tramandano, commissionano, incoraggiano la nascita.
L'agire -dice Hannah Arendt- è "la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali": esso è dunque possibile soltanto con gli altri.
Soltanto in comunità -dice Olivetti; quella comunità che coincida spazialmente con una grandezza e una misura umane, ossia tali da non estraniare, non isolare gli uomini, bensì da permettere tra loro incontri confortanti, consueti, personali; quella comunità, cioè, a sua volta totalitariamente abolita, come ben spiega Nisbet in "La comunità e lo Stato" (Edizioni di Comunità, Milano 1957), dalla moderna società, dallo Stato.

"La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell'industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio -che pur sempre sarà sacrificio- è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi" (da "L'industria nell'ordine delle Comunità" p.45, in A. Olivetti, Le fabbriche di bene, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2014).
[ Vorrei osservare in questo brano la centralità dell'inciso "-che pur sempre sarà sacrificio-" che conferisce al tutto un significato, un orizzonte non storicistico, né materialistico, bensì, direi, axiologico, autofinalistico ].

Possiamo dunque dire, in definitiva, che la terza via, di cui, riguardo a Olivetti, talvolta si parla non era una terza ideologia, alternativa a marxismo e capitalismo (che sarebbe come dire una terza "idolatria" -direbbe Olivetti con Simone Weil), bensì, propriamente, il richiamo, non parlato ma innanzitutto attuato col proprio agire e vivere, all' agire, come superamento concreto di ogni ideologia.
E' questo fondamento, questo rinnovato e rivoluzionario sentire ontologico, che guida l'Editore Olivetti nella scelta di chi pubblicare: chi, cioè, proprio in vario modo riconoscendolo, avvertendolo -in qualità di economista, filosofo, architetto, scienziato, sociologo, urbanista, sindacalista, religioso, poeta, si mostri libero, creativo, altamente competente e sapiente nella propria disciplina, determinato nell'opporsi alla desertificazione umana dei nostri tempi.
Con la sua casa editrice, Olivetti diceva di voler

"recare alla comprensione del tempo e del mondo in cui viviamo la voce [cioè la voce collegata, concorde] delle coscienze e delle menti ["coscienze" prima, e poi, in unità, "menti"]
più alte di ogni paese in un dialogo senza frontiere che al di là delle contingenze e delle polemiche [cioè al di là delle ideologie, dei partiti, delle divisioni] parlasse agli uomini delle loro mete, della loro vocazione e responsabilità.
(da Documento senza titolo, ASO, fondo Adriano Olivetti, sez. Ed. di Comunità, 22.620/2).


Il Catalogo, che su questi criteri Olivetti compone, è un'opera necessaria, mirabile, in cui tutti gli elementi (tutti i libri) collaborano, con la loro particolarità, alla ricerca dell'unità, sollevandoci, indicandoci un orizzonte, una meta.
Con questa sua libera, creativa opera editoriale, egli ci mostra compiutamente chi sia, chi debba essere l'Editore, in che consista il suo compito, il suo metodo, la sua insostituibile figura.
-"Editore": autore originale al pari del filosofo, dell'architetto, del poeta;
Autore degli autori: colui che li comprende, li collega, li rivela simili, o, proprio in quanto diversi, necessari gli uni agli altri, complementari; colui, dunque, che forma civiltà, cultura, comunità.
Così, in Olivetti, la composizione, la fondata architettura editoriale, illumina, include, valorizza reciprocamente, allude a connessioni, interazioni, soluzioni ulteriori.
Unità nella pluralità, unità nella libertà: Nisbet e Simone Weil, Schubart e Marlin, Berdiaev, De Rougemont, Forster, Dawson, Mumford, Gutkind, Gropius, Le Corbusier, Huizinga, Schumpeter, Kelsen, Lippmann, Soloviev, Assunto.
-Ancora oggi, ci sono, ci devono essere persone che possano comprendersi, collegarsi: agire.
Ma, come dice Olivetti,
"questo dare, questo conferire a un gruppo di uomini l'energia vitale capace di uno sforzo creativo al di sopra dello sforzo comune, appartiene al Mistero, è istanza segreta che la Provvidenza soltanto può, quando vuole, concedere" (da A.Olivetti, Democrazia senza partiti p.69, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).


                                                                       Giselda Pontesilli

lunedì 21 novembre 2011

Giselda Pontesilli, "Con me e con gli amici"

Ho il piacere di presentare questo poème critique, questa sorta di prosìmetron intriso di afflato lirico e memoriale e coscienza critica, culturale e programmatica, opera di Giselda Pontesilli: un testo che parafrasa, nel titolo, Jahier, scrittore fra i più cari all'autrice, e animato da una volontà di condivisione, di compartecipazione umane, oltre e prima che intellettuali, affini proprio a quelle dei cosiddetti moralisti vociani, cui Jahier è stato accostato: e si potrebbe citare, qui, il brevissimo scambio epistolare che con Jahier intrattenne, proprio nell'immediata vigilia della morte al fronte, Renato Serra, che da Jahier veniva vanamente esortato ad attenuare il remoto, un poco trasognato ed algido, culto della pura Bellezza, per confrontarsi, sulle orme di Claudel, con l'evidenza e l'abbraccio esperienziali dell'umanità e della verità – della verità inverata, incarnata nell'umano, in una parola sentitamente umana, calda di vita e di testimonianza. Questa stessa unanime, condivisa passione, che pervadeva il clima della rivista “Braci”, in ciò simile alla “Voce”, è richiamata e rievocata dall'autrice, che ne auspica – con quell'utopia che è il lievito della realtà - una rinascita nell'attuale, grigio e mistificato e falsato, panorama. Le sottili anomalie linguistiche, i tenui e delicati straniamenti semantici e sintattici (“quella casetta in basso, / quell’ in alto casale, / vogliamo, vi prego, convolare? / Ci vogliamo, vi prego, rivivire?”) che infine increspano ed impennano il testo poetico (per il resto intonato ad una cantabile discorsività, ad una naturalezza e ad una levità che hanno la tersa limpidezza dell'alba e del miracolo) rispondono proprio a questo anelito, a questa volontà quasi dantesca di palingenesi. E, come in Ruskin, la bellezza dell'arte del passato è speranza per una futura riscoperta della bellezza, della dignità e della sacralità del comune lavoro. Ed è significativo, infine, che il testo si chiuda con una citazione (assai cara anche a Beppe Salvia, poeta di Braci) da Sleep and poetry di Keats: un passaggio sommesso, sussurrante, in cui peraltro si auspica, senza clamori, e anzi ai limiti stessi del silenzio, del non-detto, che la voce sapiente, la voce-sapienza, e sapienza della, e nella, voce, insite nella poesia-natura e nella natura-poesia (la sapienza mediata e riflessa del linguaggio umano riconciliata con quella inconscia, ma eterna, racchiusa nelle armonie e nei ritmi della natura), tornino a regnare, a regolare, a scandire i tempi e i modi e le civili, umane misure dell'umana convivenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI


Con me e con gli amici”


Con Mauro e suo padre, l’architetto,

ho visto

-vedo-

il Duomo di Orvieto.


Ci andammo in gita in tre, lui e il padre

chissà come invitarono me

tutto un giorno.


Partimmo presto, da piazza del Popolo

per tornarvi al tramonto.


Ma poi anche Mauro con me

vide

mio padre, in alto, sul tetto

d’una casetta, che faceva lui stesso

in un lotto di terra – mille metri –

a Valle Martella.


L’architetto Biuzzi con il figlio

stava col Duomo davanti quel giorno

- ricordo il loro sfavillare -

e dopo pranzo andammo

su una vasta collina col casale

che lui

voleva acquistare.


Ma certo anche Mauro con me

stette un giorno in quel lotto, nell’orto

con mio padre davanti sul tetto,

al lavoro, perfetto.


-E avevamo

un altro amico,

Giorgio.


Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’ in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



***



Con me e con gli amici” di G. P. ci parla, come già dice il nome,

di lei e dei suoi amici;

ma solo perché è un appello,

l’appello più urgente, e concreto, a questi concretissimi amici;

- appello diretto:

vi prego” di “con-volare”, “rivivire”,

cioè pensare-insieme-agire-uniti.

Ma chi sono, gli amici? e perché (e per dove)

volare, cioè pensare-agire?

Sì, proprio a loro, eminentemente a loro

compete questo sperato effettuale agire, perché sono stati unanimi

un giorno” nel vedere “tutto”,

unanimi non nichilisti.

Un suo scritto di allora, dice:

Siamo amici; grazie a un riconoscimento reciproco avvenuto, che, per la sua forza difficilmente verrà revocato”.

Ecco, si erano riconosciuti:

ciascuno - in un suo proprio modo,

vivificatore, non nichilista.

Quel riconoscimento non è revocato:

oggi: dopo “questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti”;

separati e scomunicati, come tutti,

ma sempre doverosamente non nichilisti;

perché hanno pensato e agito, seppur soli,

come si può da soli;

come si può:

cioè, allegoricamente.

Infatti:

Mauro Biuzzi –Artista:

non hai subìto l’ insignificanza impazzita, l’epifenomeno -senz’arte, né pensiero, né parte –postmodernista; così, hai agito, hai fondato allegoricamente il “partito dell’amore”, dicendo:


Con il nostro antipartito, ci opponiamo al partito dell’alienazione e della simulazione: questo superpartito unico è il vero fantasma che si aggira per l’Italia e per l’Europa e lo si riconosce perché compone il suo linguaggio fantasma con frammenti impazziti di linguaggi ideologici”;

vogliamo “sostituire il linguaggio alienato dei partiti e delle ideologie lasciando emergere la lingua amorosa delle attuali società civili”.


Infatti:

Giorgio Pagano –Artista:

hai còlto subito il crollo dell’ideologia, la crisi del sapere, la fine del marxismo,

e che vi si reagiva

non con migliorato comprendere, non con rinnovata azione creativa e razionale”,

bensì con la rinuncia, l’ “istituzionalizzazione della soggettività”, l’eclettismo, il citazionismo, la superficialità:

così, nel tuo inosservato, isolato saggio Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea, hai disaminato Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-nuovi, e hai concluso con una “dichiarazione”,


un “manifesto” scritto con Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, G. P., e letto da Gino a Roma,

l’8 Settembre del 1984 al Festival Internazionale dei Poeti;


una dichiarazione, un “allegorico” agire insieme:


() A noi sembra che l’attuale saccheggio di geometrie storicistiche ed eclettiche filologie sia viziato a tal punto da consentire una fittizia rinascita artistica nello stesso momento in cui la spiritualità che essa dovrebbe testimoniare tocca il suo fondo.

A volte ci si rivolge al passato sperando che esso, nel suo intoccabile splendore, ci accolga e difenda. Ma è più spesso la disillusione delle forme vuote a rimanerci in mano.

E’ dunque necessario per noi prenderci cura della fragile natura del presente, e fondare in esso una tradizione futura, dentro e oltre il riflesso del passato.

E del presente la necessità prima ci sembra essere l’unificazione europea.

Europa come regione dello spirito, come il ritrovato luogo di un lavoro vero, che riguarda tutti.

L’unità “internazionale” del mondo, attraverso l’imperialismo di alcuni popoli sugli altri, è fittizia, è disillusione.

La via da praticare è invece quella dell’unione reale, là dove spirito e corpo coincidono: l’unione europea assume, in tutti i suoi aspetti, la ricerca di un’unione reale.

Si tratta di sostituire un luogo e un lavoro vero alla pratica dell’illusione.

La nascita della cultura europea trova nella definizione di una lingua comune il suo primo fondamentale passo.

()”.


Giorgio, tu come Mauro, pensavi alla lingua:

la lingua amorosa della società civile” –dice Mauro:

una lingua comune della cultura europea” –tu dici.


E i poeti di “Braci”? Anche loro pensavano alla lingua,

ma non si iscrissero al partito dell’amore, Mauro,

né, Giorgio, alla tua associazione esperantista:

- restarono soli poeti, a tutti i costi poeti, così, dopo “Braci”,

fecero un Convegno a Roma sulla poesia: “La parola ritrovata”

(dove Gino parlò de “La gloria della lingua”, Claudio di “Lingua e linguaggio”);

poi, un anno e mezzo dopo, riuscirono a ripubblicare l’Arte poetica di Orazio, con i loro interventi

-e, l’intervento di Gino, era “Orazio (Dialogo)”, quello di Claudio “Arte e natura”, quello di Giuliano Donati, “Crotto Urago. Una nota di poetica”, quello di G.P. “Il custode

incorruttibile”.


E così poi anche loro del resto

furono separati, isolati, privati.


Ma è forse avvenuto qualcos’altro – anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare?


Il 24 Aprile 2007 compare “NUOVE BRACI –giornale di educazione”:

sotto il titolo, la data, poi, c’è scritto: “Editoriale, di Claudio Damiani”, poi

c’è l’immagine azzurrina di Braci 1, poi questo testo:


Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti

di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perché, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione. L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc.), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio. ()

Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante (). Ci sono altri, e stanno nella mia generazione, in quelli nati negli anni ’50 e ’60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. ()

(http://nuovebraci.blogspot.com/2007/04/editoriale-di-claudio-damiani.html)



Il 29 luglio 2011 compare -anche,

La competenza dei poeti” di G. P.


Niente di nuovo, in fondo, se non un anello in più, una connessione “logica” “stringente”:

  1. la lingua, usata per le informazioni, le “comunicazioni di massa”, è fondamentale per la società;

  2. ma queste informazioni non informano affatto, anzi umiliano, confondono, perché, sempre più spesso, contrarie al senso della lingua e, sempre, “basate” su una visione sorda, accettata passivamente, inaccettabile, della realtà;

  3. i poeti, in quanto competenti, professionisti della lingua, sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato;

  4. dunque, loro, sono indispensabili alla società e possono agire insieme per studiare, e realizzare un modo, un metodo di informazione televisiva.


Come Petrarca, sollevando –solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.

Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell’informazione di massa, alla “società di massa” infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?”

(http://nuovaprovincia.blogspot.com/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html)


I poeti possono agire, sì, agire, e, anche,

lavorare,

come lavorano i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori,

le associazioni di categoria, le parti sociali, gli operai, i consigli comunali, i pensionati, i disoccupati, i giovani, le donne, i magistrati:


-come loro, anche loro possono portare al Governo, all’attenzione del Paese, al Parlamento, alla Scuola, alla Chiesa, all’Europa, al Capo dello Stato,

una piattaforma di base, un piano di intesa, un calendario di lavoro, un pacchetto di misure eccezionali, le loro esigenze reali


-per evitare la bancarotta, la catastrofe umana e culturale.



Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



"O may these joys be ripe before I die".