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domenica 27 dicembre 2009

Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"

Ha scritto Alessandro Assiri: "Credo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso". La scrittura letteraria assolve allora la sua funzione nell'opporsi alla deriva, alla deiezione, alla corsa vana e furiosa che espelle ed evacua ogni vissuto e ogni espressione come superflue zavorre, come materia occasionale da ardere e disperdere. Così, la sua scrittura recupera una dimensione memoriale, proustiana di richiamo, resurrezione, riappropriazione, redenzione del passato - ma, nel contempo, quella di un nietzscheano esorcismo che, attraverso la scrittura, strappa l'istante eterno dall'angoscia del suo perenne, indefinito ripetersi, nel momento stesso in cui lo eterna nella forma affidata al futuro delle interpretazioni (pregnante, in tal senso, il riferimento, proposto dalla Garofalo, ad Ulisse: un Ulisse che è forse più quello di Saba, sospinto al largo dal "doloroso amore" della vita, che quello di Ulisse, intento e fisso alla sua eroica meta).
Si leggeva in una raccolta precedente:

Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.

Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.

A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)



“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”

A.Assiri

“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”

P.P.Pasolini


“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.

Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.

Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.

Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.

“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.

Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.

E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.

Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.


Patrizia Garofalo

lunedì 30 novembre 2009

Patrizia Garofalo, "Quando la maschera cede il passo al volto. Nota sulla poesia di Claudio Moica"

Titolo: Angoli nascosti
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo

È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….


L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.

Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.

Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.

Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.

Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.

E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.

È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.

In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.

“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”

La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”

Patrizia Garofalo