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mercoledì 28 maggio 2014

Giselda Pontesillli, "Adriano Olivetti, Editore"



Ripercorrendo il progetto editoriale attuato da Adriano Olivetti tra il '46 e il '60 con le sue edizioni di "Comunità", non si può non avvertire tra i libri da lui pubblicati un singolare collegamento, un'inconfondibile, anche se dapprima indefinibile, unità di intenti, pur se gli autori proposti, i temi affrontati, le rispettive discipline di appartenenza sono molti e diversi.
E' come se in questi libri parli variamente una sola voce; come se siano stati scelti per qualcosa che tutti, a loro modo, hanno e che li rende, in fondo, analoghi, unanimi.
Sappiamo da autorevoli testimonianze ( Zorzi, Ferrarotti ) che Olivetti sceglieva personalmente i libri da pubblicare e del resto lui stesso in un'intervista al quotidiano "La Stampa (maggio '59) dichiara: "La scelta dei titoli è esclusivamente mia".
Ma in base a quali criteri, li sceglieva?

Sia dalla Dichiarazione politica del Movimento Comunità (genn. 1953), sia dai vari scritti e discorsi di Olivetti (oggi in ristampa nelle riapparse edizioni di "Comunità"), sia in primo luogo dal suo inedito, straordinario modo di fare l'imprenditore, emerge chiaramente, a mio avviso, che egli esattamente nel senso illuminato, proprio in quegli stessi anni, dall'allora sconosciuto Jan Patočka non aveva un'ideologia ma una vita nell'Idea, o, sempre citando Patočka, non era un intellettuale, ma un uomo spirituale ( cfr. "L' idéologie et la vie dans l'idée" e "L'homme spirituel et l'intellectuel" in Jan Patočka, Liberté et sacrifice -Ecrits politiques- J. Millon, Grenoble 1990, p.41-50 e p.243-257).
Credo che questa fondamentale differenza sia presente, sia pure implicitamente, a tutti gli studiosi e testimoni dell'opera di Olivetti, i quali, dovendo sottolinearne, a un certo punto dei loro discorsi, la posizione meta-politica, morale, religiosa, culturale, fondata su valori spirituali, mostrano di avvertire, anche se non lo focalizzano speculativamente, che i suoi criteri di fondo erano ontologici, non ideologici.
In un suo scritto, al riguardo esemplare, Olivetti richiama tutti, "gli uomini, le ideologie, gli Stati" a liberarsi, cioè a sottomettersi nuovamente a ciò che -lui dice- "rimane eterno nel tempo e immutabile nello spazio: amore, verità, giustizia, bellezza": le Idee, le "autentiche e creatrici forze spirituali" -lui le chiama.

"Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzione alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo.
Parlando di forze spirituali, cerco di essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essenziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore".
(da "Le forze spirituali" p.39-40, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

In questi pensieri non c'è, a ben vedere, alcuna ideologia, perché Idee e "forze spirituali" non vengono definite, rappresentate, ridotte in contenuti positivi, bensì solo nominate e intuite nella loro indefinibile -eppure evidente- assoluta realtà, nella loro differenza ontologica da tutto ciò che è oggetto, o concetto.
Proprio per questo esse coincidono, per Olivetti, con la libertà: perché non sono imposizioni, categorie, precetti; ma puri appelli della trascendenza e quindi "motori immobili" della nostra liberazione, ricerca di libertà, pluralità.
Ma come si può concretamente rispondere a questo loro appello?
Tra gli altri studiosi di Olivetti, Beniamino de' Liguori (nuovo direttore delle edizioni di "Comunità") ha il merito di aver valorizzato in lui, la prioritaria dimensione dell'agire, risolutiva per comprenderne al meglio il pratico e niente affatto utopistico messaggio (cfr. Beniamino de' Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Quaderni della Fondazione Olivetti n.57, Roma 2008 ).
In Olivetti, "agire" significa innanzitutto, secondo me, confortare con il fare, col proprio impegno di uomo e imprenditore, la verità, la credibilità di ciò che pensa e dice, coerentemente con l'insegnamento paterno che gli è sempre presente:

"La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole".
(da "Prime esperienze in fabbrica" p.30, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

Ma poi, "l'agire" è per lui, come per Hannah Arendt, diverso sia dal lavorare che dal produrre opere: l'agire, che la modernità ha di fatto totalitariamente abolito, è la forma più alta e libera dell'attività umana, quella che rende pienamente umano l'uomo, quella in cui il lavoro, necessario per garantire la vita biologica, è gratificato e giustificato.
Chi lavora (l'operaio, che Olivetti aveva in fabbrica, come qualsiasi altro uomo) non deve, non può farlo solo per la riproduzione materiale dell'esistenza, per la vita biologica, ma anche per realizzare la propria vita umana più specifica, per poter agire.
L'agire è il prendere (o il seguire) un'iniziativa libera, rivolta alla Verità, al Bene, è mettere in movimento qualcosa di degno, di nuovo, di non prevedibile, di non meccanico, è pronunciare (o ascoltare) grandi parole, è decidere o anche solo riflettere con gli altri non strumentalmente, bensì disinteressatamente, è vivere nell'Idea -direbbe Patočka, "dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo".
L'agire è fondamentale non solo per dare senso al lavoro, ma anche per far comparire artefatti, opere: architettura, arte, poesia non ci sarebbero, non ci sono, senza coloro che, gli uni con gli altri, ricordano, tramandano, commissionano, incoraggiano la nascita.
L'agire -dice Hannah Arendt- è "la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali": esso è dunque possibile soltanto con gli altri.
Soltanto in comunità -dice Olivetti; quella comunità che coincida spazialmente con una grandezza e una misura umane, ossia tali da non estraniare, non isolare gli uomini, bensì da permettere tra loro incontri confortanti, consueti, personali; quella comunità, cioè, a sua volta totalitariamente abolita, come ben spiega Nisbet in "La comunità e lo Stato" (Edizioni di Comunità, Milano 1957), dalla moderna società, dallo Stato.

"La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell'industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio -che pur sempre sarà sacrificio- è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi" (da "L'industria nell'ordine delle Comunità" p.45, in A. Olivetti, Le fabbriche di bene, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2014).
[ Vorrei osservare in questo brano la centralità dell'inciso "-che pur sempre sarà sacrificio-" che conferisce al tutto un significato, un orizzonte non storicistico, né materialistico, bensì, direi, axiologico, autofinalistico ].

Possiamo dunque dire, in definitiva, che la terza via, di cui, riguardo a Olivetti, talvolta si parla non era una terza ideologia, alternativa a marxismo e capitalismo (che sarebbe come dire una terza "idolatria" -direbbe Olivetti con Simone Weil), bensì, propriamente, il richiamo, non parlato ma innanzitutto attuato col proprio agire e vivere, all' agire, come superamento concreto di ogni ideologia.
E' questo fondamento, questo rinnovato e rivoluzionario sentire ontologico, che guida l'Editore Olivetti nella scelta di chi pubblicare: chi, cioè, proprio in vario modo riconoscendolo, avvertendolo -in qualità di economista, filosofo, architetto, scienziato, sociologo, urbanista, sindacalista, religioso, poeta, si mostri libero, creativo, altamente competente e sapiente nella propria disciplina, determinato nell'opporsi alla desertificazione umana dei nostri tempi.
Con la sua casa editrice, Olivetti diceva di voler

"recare alla comprensione del tempo e del mondo in cui viviamo la voce [cioè la voce collegata, concorde] delle coscienze e delle menti ["coscienze" prima, e poi, in unità, "menti"]
più alte di ogni paese in un dialogo senza frontiere che al di là delle contingenze e delle polemiche [cioè al di là delle ideologie, dei partiti, delle divisioni] parlasse agli uomini delle loro mete, della loro vocazione e responsabilità.
(da Documento senza titolo, ASO, fondo Adriano Olivetti, sez. Ed. di Comunità, 22.620/2).


Il Catalogo, che su questi criteri Olivetti compone, è un'opera necessaria, mirabile, in cui tutti gli elementi (tutti i libri) collaborano, con la loro particolarità, alla ricerca dell'unità, sollevandoci, indicandoci un orizzonte, una meta.
Con questa sua libera, creativa opera editoriale, egli ci mostra compiutamente chi sia, chi debba essere l'Editore, in che consista il suo compito, il suo metodo, la sua insostituibile figura.
-"Editore": autore originale al pari del filosofo, dell'architetto, del poeta;
Autore degli autori: colui che li comprende, li collega, li rivela simili, o, proprio in quanto diversi, necessari gli uni agli altri, complementari; colui, dunque, che forma civiltà, cultura, comunità.
Così, in Olivetti, la composizione, la fondata architettura editoriale, illumina, include, valorizza reciprocamente, allude a connessioni, interazioni, soluzioni ulteriori.
Unità nella pluralità, unità nella libertà: Nisbet e Simone Weil, Schubart e Marlin, Berdiaev, De Rougemont, Forster, Dawson, Mumford, Gutkind, Gropius, Le Corbusier, Huizinga, Schumpeter, Kelsen, Lippmann, Soloviev, Assunto.
-Ancora oggi, ci sono, ci devono essere persone che possano comprendersi, collegarsi: agire.
Ma, come dice Olivetti,
"questo dare, questo conferire a un gruppo di uomini l'energia vitale capace di uno sforzo creativo al di sopra dello sforzo comune, appartiene al Mistero, è istanza segreta che la Provvidenza soltanto può, quando vuole, concedere" (da A.Olivetti, Democrazia senza partiti p.69, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).


                                                                       Giselda Pontesilli

lunedì 9 gennaio 2012

Antonio Castronuovo, "A che ora si alza lo scrittore"

Articolo apparentemente leggero e svagato, ma su cui riflettere. Al genio che creava - e ancor oggi, rarissimamente, crea - "per intervalla insaniae", "noctes vigilans serenas", come dice Lucrezio, strappando al giorno, alla notte, ai ritmi ossessivi ed alienanti della vita reale gli spazi e gli istanti della conoscenza, dell'illuminazione e dell'espressione, la modernità e l'"industria culturale" hanno sostituito (almeno a partire da Balzac, ma forse già con Defoe o con Swift o con Walter Scott) la figura di un produttore di letteratura paragonabile - almeno nei casi migliori - ad un operaio di alta specializzazione o ad un impiegato aspirante alla condizione borghese. Una monotonia, una routine produttiva a cui si oppone il pensiero, fra notturno, aurorale ed albale, opaco eppure folgorante, di Valéry, chino sui "Cahiers" nel cuore della notte, quando il mondo è avvolto nell'incoscienza greve del sonno. (M V.)


Emozionato, se non turbato, il turista letterario s’appressa alle case degli scrittori: c’è fila a Recanati davanti al palazzo di Monaldo, c’è meno fila a Lecco al botteghino di villa Manzoni. Solo qualche raro curioso fa pausa sotto le abitazioni di Moravia o Vittorini, e ciò dovrebbe già far pensare. Pochissimi coloro che, uscendo dalla stazione di Torino, sanno che l’albergo davanti a cui si passa fu abitato da Pavese, che in una camera vi attuò l’estremo gesto. Se poi meditiamo sulle celebrità di una settimana (i campielli che imbroccano un solo libro) il turista letterario neppure ne ricorda il nome.

Leopardi – che pure è il più glorioso – lo aveva annotato due secoli fa nel brogliaccio zibaldone: «Molti libri oggi durano meno del tempo che è bisognato a raccoglierne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli». E la certezza di non giungere alla fama è già un segno della grama vita che mena lo scrittore, che alla popolarità mira, o per vanità o per ossessione. Sa che non avrà fama, e tuttavia si dispone a conquistarla, dandosi regole di vita.

Essendo necessaria alla scrittura una punta di acuta asprezza, diremmo che lo scrittore è uno che si fa beffe delle regole, anzi: è uno che sfida la biologia come una volta facevano i poeti maledetti, che non scrivevano senz’oppio e senza notti bianche. Nient’affatto: guardando alle regole di vita oggi assunte dagli scrittori rileviamo una tenace apoteosi dell’abitudine, proprio là dove ci attenderemmo un pizzico di passione e d’incoerenza. E lo veniamo a sapere col fiorire d’interviste a prosatori (i poeti fanno razza a parte), invitati a rispondere alla seguente domanda: In quali momenti della giornata lei scrive e come organizza il suo tempo?

Interviste davvero spassose, dato che se ne ricava una sola impressione: che tutti seguono le stesse identiche regole. Eccole: mi alzo alle 7, faccio la pipì, prendo un caffellatte, poi mi metto a scrivere per tutta la mattina, quattro o cinque ore di lavoro; dopo mangio qualcosa e il pomeriggio lo dedico alla lettura e allo jogging; la sera è tutta per la comunicazione (mail e cena fuori con amici), oppure vado a letto presto.

Bella vita, non c’è che dire.

La sola regola variabile è l’ora in cui gli scrittori si alzano, su cui appunto si gioca la loro differenza. Certo, alzarsi alle 7 è la situazione più comune; ed è anche gesto simbolico, dato che le 7 sono il momento canonico del lavoratore, che un’ora dopo deve timbrare in fabbrica il cartellino (proprio come i presidenti lavoratori, anche loro in piedi alle 7, se non prima). Alzarsi a quell’ora addita la regolarità di un lavoro che si ambisce a compiere – come si suol dire – a regola d’arte. Il bravo scrittore si alza alle 7, e chi si alza alle 7 produce in genere romanzi e saggi misurati, di nitido stile.

Ma non sempre l’ora è quella. Ci sono infatti scrittori che si alzano alle 6. Non è cosa facile; in genere vi si avvezza chi ha origini contadine. Non lo dico per sfottere: io ho quelle origini (mio nonno aveva l’asino) e me ne vanto. È un’ora che torna buona per il romanzo realista, possibilmente a risvolto sociale; ora ottima per narrare le albe del duro lavoro e delle dure rivendicazioni. Alzandosi alle 6, poi, è certo che si andrà a nanna massimo alle 23: realismo vuole che non si contesti l’orologio biologico e sette ore di sonno costituiscono, per il riposo, il minimo sindacale.

C’è anche chi si alza alle 5. Il nobel García Márquez, ad esempio, salta dal letto a quell’ora. Lo ha dichiarato in un’intervista, aggiungendo che legge fino alle 8, poi un’ora di tennis «perché altrimenti passerei la giornata seduto», poi comincia a scrivere fino alle 14,30 e dopo c’è la numerosa famiglia da accudire. Ma García Márquez è pacioso, si vede che è uno che si corica presto e dunque non fa testo. Di norma, alzarsi alle 5 testimonia di un certo spirito sedizioso. All’alba il cervello è anfetaminico e scattante, come ben sapeva Valéry che si alzava in piena notte per riempire i suoi cahiers di una massa di pensieri che traboccano di lucidità, e poi semmai tornava a coricarsi e se la dormiva alla grande.

Confesso che capita anche a me, e mai volontariamente: se la sera vado a letto troppo presto, mi ritrovo prima dell’alba con gli occhi sbarrati nell’oscurità. Devo alzarmi, vago per casa, mangio un biscotto e – invece di riempire quaderni di genialità – finisco per leggere rovinandomi la vista, e dopo mezz’ora crollo: un sonno greve m’attanaglia fino al fatale istante della sveglia che trilla. Ma torniamo a noi: dicevo che alzarsi alle 5 testimonia di uno spirito sedizioso. Vero: lo scrittore delle 5 produce opere taglienti, condite di una dose di politically uncorrect; è uno che attacca e colpisce. A quell’ora sovvengono ai giallisti le scene omicide; i finali, invece, pare sovvengano a stomaco pieno, quando l’ispirazione è grassa.

Non è finita: c’è chi si alza alle 8 e si tratta di un’alzata bastarda, né zuppa né pan bagnato: è l’ora buona per combinare qualcosa, ma è anche un po’ tardino per avere la calma necessaria. E chi si alza alle 9 o alle 10? E chi poi non si alza nemmeno alle 10? Beh, questi neppure si alzano, tanto la mattina è persa. Sono tutti coloro che, certo, possono fare gli scrittori, ma solo in maniera anticonformista, tornando ad assaggiare la notte come i maledetti dell’oppio.

Ma se questa è l’ora, che ne è del luogo? Lo studiolo in cui lo scrittore opera è quanto di più insulso e ordinario si possa dare: c’è il piano di lavoro (ingombro di libri e carte), c’è la seggiola (dotata, se non è poltroncina, di cuscino per glutei), c’è lo strumento di scrittura (il computer, che tutti dicono di detestare, ma è lì), c’è la lampada a paralume (i postmoderni hanno quella col braccio snodato), ci sono gli scaffali in sottofondo (quelli a portata di mano reggono dizionari e garzantine: di wikipedia non ci si può fidare). Coglie un senso d’umana pietà a guardare le foto degli scrittori con l’immancabile libreria alle spalle; ma diventa pena se si scorge, ben ripiegata, la coperta a quadroni per coprire le gambe d’inverno o, peggio ancora, il poggiapiedi per le caviglie gonfie.

Quali che siano le abitudini e i luoghi d’azione, la pratica della scrittura deforma il corpo. Riduce miopi e, da quando c’è il videoterminale, accelera la cataratta; produce una gobba sagomata e riduce la lordosi lombare, con l’inevitabile ernia discale; impigrisce l’intestino (e si fa necessario lo yogurth ai fermenti): ai più nervosi fa ingoiare ansiosamente l’aria – e possiamo sospettarne gli spiacevoli effetti.

La prevedibile esistenza dello scrittore e la dozzinale ovvietà del suo posto di lavoro sono avvilenti; dovrebbero essere condizioni umilianti, e invece egli sembra orgoglioso di avere alle spalle le enciclopedie comperate in edicola. È proprio vero che ci si piega a tutto.
Riconosco tuttavia che scrivere è doveroso. Come enunciò un saggio orientale (appartengo alla generazione che affidò al buddhismo le proprie emozioni; non peggio dei creduloni odierni) per conseguire il Nirvana bisogna nella vita fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Alzi la mano chi non ha fatto un figlio. Ora alzi la mano chi non ha scritto un libro. E ora alzi la mano chi non ha piantato un albero.

Troppi, siete in troppi a non aver piantato un albero. Vi manca proprio qualcosa. E allora mettete da parte la penna, mettete a riposo i genitali riproduttori e comperatevi una vanga. Per piantare un albero non ci vogliono tante regole, basta solo la forza delle braccia. E poi vangare è gradevole, e fa scordare la meschinità di chi scrive soltanto. E semmai rinuncia stoltamente a interrare un alberello.

Antonio Castronuovo