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sabato 9 dicembre 2017
Moto e resistenza delle cose
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».
Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.
venerdì 15 febbraio 2013
CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA
Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto ‒ «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così
si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni,
fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il
discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente,
nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza
misteriosa, quasi ipnotica»,
come ha dichiarato in un'intervista ‒
ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino,
vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale
attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione
espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il
laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e
creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio
privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due
poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e
intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques
jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des
finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, /
Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai
numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo
assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso,
limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza
di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che
sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della
bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un
seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, /
Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo
sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal
mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale,
ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità
del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto,
circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è
Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale
separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con
parole remote
e Bosco
del tempo,
titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici
delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura,
hyle
physis arché ‒
bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio,
«verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale
traduttore di Eliot: un fondamento, un
a priori
essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola
riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale,
di matrici e di echi ‒
un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel
mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti,
nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in
qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa
e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come
scrive l'autore in Contro
il romanticismo,
uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è
cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere,
e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie
si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse,
anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza
culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la
persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le
metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione
essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché
naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della
parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in
caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della
devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo,
indiscriminate e cieche ‒
insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni
classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La
ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno
della Natura
e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e
inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il
ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un
fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle
colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie
delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno,
diviene imago aeternitatis.
Tempo
come archilocheo rhysmós,
come Arché,
Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒
come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di
Letteratura
come vita
contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito,
dell'umano accadere ‒ o come la storicità
che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non
è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve
letterarie,
affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del
quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De
coniuratione Catilinae.
Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze
estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che
investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le
superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua
soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico,
fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due
versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si
intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del
foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti
minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo
dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui
sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che
fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione».
Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è
evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa,
incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a
sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione,
esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri
del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus»
è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità
indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare»
è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso
esistenziale degli eventi.
Più
pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum
Iugurthinum,
tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti
spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono
pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e
tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con
parole remote.
«Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte,
luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente
contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e
il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla
«memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia,
che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto,
eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro
autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde
pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio
il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae,
I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai
rumores
della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e
tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion,
sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore
genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero
ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi
forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure
scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il
tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte
queste premesse, messi a fuoco questi
novantiqui,
classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di
Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa,
sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta
la sua luce.
Versi
fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto,
fra la luce e l'ombra, nella visione
come nel suono
(«Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro,
pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una
parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco
delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle
rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi»
a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve
nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella
sua ara
chiara,
/ in un rogo
devoto»:
dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di
chiaritate l'âre») al cupo
suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e,
piano, si estingue.
La parola conduce
dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri
che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa
primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili.
«Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto»
(Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che
risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più
remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della
memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche
ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il
passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa
fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco
della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione
estetica in Walter Pater.
Come
nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e
composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la
parola aspira a sprofondare
e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con
la Natura che è Forma e Principio.
Matteo Veronesi
lunedì 29 agosto 2011
Il miele del silenzio: di alcune prospettive della poesia contemporanea
Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana, a cura di Giancarlo Pontiggia, Interlinea, Novara 2009, pp. 198, euro 24.
Sapientemente
introdotto e curato da Giancarlo Pontiggia, Il
miele del silenzio.
Antologia
della giovane poesia italiana
(Interlinea, Novara 2009) è una preziosa antologia della giovane
poesia italiana contemporanea, sebbene non definitiva, senza pretesa
di assolutezza, di dittatura estetica, di valore canonico, esclusivo
o egemonico.
Per
quanto sia stato sottolineato, anche di recente, il carattere
estremamente arduo, quasi proibitivo di ogni antologia (sorta, di per
sé, di complexio
oppositorum,
di materiale prossimità e coesistenza, in uno stesso spazio, di voci
e tendenze in varia misura diverse e distinte, di un impossibile
amalgama di paradigmi), specie qualora cerchi di canonizzare, di
sistematizzare, in qualche modo di museificare una realtà multiforme
e proteiforme come quella del presente, le antologie restano
documenti e testimonianze rilevanti –
si pensi alla celebre Parola
innamorata,
curata dallo stesso Pontiggia, che segnò un ritorno al mito e al
lirismo dopo le devastazioni, i roghi forse per certi aspetti
purificatori, dell’avanguardia.
Tanto
negli introduttivi «Appunti
di lavoro»,
quanto nelle presentazioni dei singoli autori, Pontiggia è animato
da un intendimento preciso e pone risolutamente dei criteri per una
demarcazione, non certo sulla linea crociana, che identifichi la
poesia distinguendola da una pura emissione di parole graficamente
distinguentisi dalla prosa, postula indirettamente un
ridimensionamento dell’attuale e quanto mai proliferante e
affollato scenario poetico, talora, si aggiunga, dispersivo, o
rumoroso, tendenziale, ostinatamente fuori degli schemi,
ungarettistico (nel senso indicato da Umberto Eco parecchi anni or
sono). Poesia, dice Pontiggia, è riattualizzare i maestri del
passato e non vanificarne la memoria.
In
altri termini, Pontiggia valorizza quelle categorie estetiche –
tendenti di per sé a tradursi, in senso lato, in categorie etiche –
che ispirano la scelta di una veste formale come operazione in certo
modo inevitabilmente archeologica, eppure mutante e dialogante con il
presente: quali la prevalenza del senso e l’osservanza delle
strutture tradizionali, preservate e difese da quell’ormai obsoleto
spirito di distruzione e di rottura che passa sotto l’eufemistica
definizione di sperimentalismo; la riabilitazione del valore poesia
come attività non accessoria, ma sostanziale, che si commisuri con
lo spessore, le geometrie e le euritmie della tradizione mentre ne
opera la dinamizzazione nell’atto stesso del versificare,
contribuendo, a
posteriori,
a renderla – Remo Pagnanelli avrebbe detto – «memorabile»,
senza per questo configurarsi come remotissima eco del passato o
rendersi una inerte riproduzione delle forme. E insieme ponendo se
stessa, in quanto poesia nuova, poesia d’oggi, entro il solco di
archetipi riconoscibili, nei quali tanto il nuovo quanto l’antico,
e anzi l’antico attraverso il nuovo, e viceversa, si rispecchiano,
si riconoscono, si inverano, secondo quel moto uno e duplice,
progressivo-regressivo,
di avanzamento e ritorno (la métrique
absolue
di Mallarmé) che scandisce il singolo testo poetico, nella sua
tessitura versale, non meno che lo stesso divenire storico, e
metastorico, del fare poetico.
Sono
affermati, in questa antologia, la leggibilità sul sovvertimento dei
canoni, il rifiuto dell’essoterismo inteso come esibizione e
spettacolarizzazione, dell’accostamento gratuito e forzatamente
trasgressivo, dell’infrazione come regola, spessissimo adottata
quasi di necessità (troppo spesso si ha infatti l’impressione che
si ignori il fondamento delle regole prosodiche, che non si abbia
nelle orecchie quello che il secondo Ungaretti, quello composto e
classico di Sentimento
del tempo,
chiamava «il canto italiano»), una classicità non classicistica –
per nominare ancora uno dei motivi basilari che hanno ispirato la
riflessione di Pagnanelli, nonché la sua verseggiatura –
e il suo valore di influenza che paiono ancora essere il solo luogo
di consistenza possibile, di comune appartenenza poetica, di incontro
tra un passato sempre vivo e un presente che assiduamente, diceva
Dante, s’infutura.
Coerentemente
con queste istanze, sfilano in Il
miele del
silenzio i
diciotto valenti autori antologizzati (classe 1970 in avanti), dagli
stili e dagli etimi diseguali, dalle diversissime attitudini a
soggettivarsi, il cui lavoro, per così dire, di ortodossia in
progress,
benché non sia certo l’unico possibile e legittimo, è senza
dubbio degno di estrema attenzione. E soprattutto pienamente appaga
le nostre aspettative di novità, novità che, dice Pontiggia, è
tale solo nella misura in cui è in relazione all’esistenza e
all’affioramento, metatestualmente assimilato, di una grandezza
passata.
Ecco,
allora, l’oro, le terse e scintillanti contemplazioni, tese
all’eterno, di Maurizio Marota, l’onnipresente miracolo della
vita in ogni luogo e in ogni tempo; lo stile più teso, frammentato,
plurilinguistico, di Roberta Bertozzi, che si misura con gli orrori
della storia, con il peso del passato; il lirismo prezioso,
essenziale e profondo, di ascendenza luziana, eppure prossimo alla
naturalità e alla maternità, semplici e miracolose, del creato, di
Daniele Piccini; l’acceso e palpitante canzoniere amoroso, fresco e
spontaneo senza leziosità, forte di una naturalezza raggiunta con
lungo travaglio meditativo e creativo, di Isabella Leardini; l’epos,
lieve e potente come una bracciata, delle nuotatrici olimpioniche
della Germania Est, anelanti a una «purezza» esistenziale anteriore
a ogni istituzione e a ogni divisione, cantato da Vincenzo Frungillo;
l’assidua riflessione metapoetica, quasi magrelliana, tesa fino al
bianco, al silenzio, al non-detto,
alla stasi dell’aurora creaturale, di Francesco Filia; il lirismo
naturalistico ed elegiaco, tutto pervaso dal costante e ciclico
ritorno al bosco dell’infanzia, alla Hyle,
alla materia-selva
feconda e originaria, di Adriano Napoli; la scrittura composta,
fluente, riflessiva e insieme esperienziale, memore della grande
tradizione novecentesca, da Montale a Sereni a Luzi, di Andrea
Temporelli, alias
Marco Merlin; il «senso per sottrazione», fino a una essenzialità
assoluta, quasi geometrica (che fa pensare allo chosisme
di un Ponge o alla scrittura spigolosa e scarnificata del primo
Magrelli), di Mariarita Stefanini; l’estrosa, immaginifica e
surreale narratività di Federico Italiano; il lirismo dolente e
sofferto, all’interno delle lesioni che segnano la storia, di
Alessandro Rivali, ideale homo
viator
nell’«Europa delle cattedrali e della luce»; la «doglia del
creato» glorificata, in versi dalla musicalità assoluta, senza
tempo, incantata, quasi discesa da un altro mondo e da un’altra
lingua, originaria e metatemporale, di Matteo Munaretto; le città
fantasma, preziose, parnassiane e quasi surreali eppure limpidissime,
di Guglielmo Aprile; il dettato espressionistico, sismico, tuttavia
ontologicamente, quasi misticamente, fondato, di Davide Brullo; la
cristallina e nivea autoriflessione di Pietro Montorfani, studioso
cosmopolita, tra Svizzera e Stati Uniti; il lirismo sacrale e
biblico, la dialettica di materia e purezza, di greve fango da un
lato, e dall’altro di altezza, vuoto, rarefazione, silenzio, di
Giuliano Rinaldini; il «ritmo della specie», il tempo mobile, vivo,
dolente, eppure fermo, eterno, come ancorato agli archetipi di un
destino più alto, che si declina e distilla per simboli oscuri, di
Franca Mancinelli.
L’aver
assunto, come titolo del volume, un verso tratto da Il
cordone d’argento
di Matteo Veronesi (poeta del resto qui antologizzato) è
significativo del senso generale che orienta le scelte di Pontiggia.
Il silenzio non può più essere oggetto di poesia se inteso quale
sintomo, ma in pari tempo come tentativo di superamento, del silenzio
che pare avvolgere e soffocare la voce dell’io lirico, o come
bianco della pagina che rappresenti, quasi simbolicamente o
emblematicamente, l’omissione, l’aposiopesi, la reticenza, a loro
modo altamente significative come segnali tangibili del rifiuto di
ogni retorica sentimentale, di ogni troppo effusa emotività, o come
specchi ossidati di una protonovecentesca “vergogna d’esser
poeti”. Il silenzio, piuttosto, nomina l’abisso di una modernità
ormai postuma e non più penetrabile al suono, cittadina ormai del
regno delle ombre, laddove la pretesa di legittimità del paradigma
razionale nel frattempo si è gradualmente consumata. Il silenzio,
allora, è chiamato a misurare la regalità sfumata del tempo,
istante-goccia-infinito, ineffabilità e origine del suono,
dolceamara, dunque, palingenesi della parola poetica che si staglia
come estrema e paradossale speranza sulla prospettiva ultima
dell’annientamento. Come in Mallarmé (in Crise
de vers),
un «monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una
cripta, la divinità così di una maestosa idea inconsapevole».
Anche se
ormai il monumentum
non è più tanto ricordo o testimonianza, quanto sepolcro vuoto,
insanabile traccia di una lesione e di una assenza.
Elisabetta Brizio
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