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lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

sabato 31 ottobre 2009

NUOVA NOTA SU REMO PAGNANELLI

Tanto le lettere, vivissime e struggenti, a Daniela Marcheschi, quanto la tesi di laurea di Remo rispecchiano, in eguale misura, e pur se in modi e contesti diversi, uno stesso travaglio intellettuale, uno stesso, per così dire, dramma della mente e della coscienza, una stessa "tragedia della cultura": rendono, insomma, la testimonianza di un uomo e di un intellettuale che cercò, con estremo ed ostinato rigore, la propria identità, il proprio ruolo, la propria interiore, intracoscienziale avrebbe detto Sartre, ricomposizione etica e identitaria, e in un mondo dominato dall'inganno, dai ruoli, dalle maschere pagò (lui che non poteva, come vilmente facciamo in tanti, accettare di impersonare la parte, oggi inevitabilmente farsesca, dell'"insegnante", dell' "educatore") con la morte questa sua ricerca di autenticità - un'autenticità, un'identità con se stesso che forse trovò anche e proprio nella sua fine, nella sua scelta eroica che non era, nel suo caso, segno di viltà e di fuga, ma di coraggio e coerenza - testimonianza nel senso proprio di martirio - “Nunc duo concordes / anima moriemur in una”, dice il Narciso di Ovidio.

Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.

Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.

Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.

Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.

"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.

C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.

lunedì 8 giugno 2009

"In quel punto entra il vento: l’inattualità di Remo Pagnanelli", di Elisabetta Brizio

Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!

Paul Valéry


Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli

Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.

Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.

Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.

Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:

tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.

Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.

Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.

Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):

finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento

Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.

“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.

Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.

Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.

Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.

Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.

Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.

Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.

Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.

Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.

Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.

Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.

Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.

Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.

Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.

Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.

La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.

Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.

Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.

L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.

Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.

Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”

Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.

Elisabetta Brizio

maggio 2009


Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).

Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.



Opere di e su Remo Pagnanelli:


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martedì 31 marzo 2009

LA VOCE IMPOSSIBILE. MINIMO OMAGGIO A REMO PAGNANELLI

Iniziamo, con questo pregevole e partecipe profilo di Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano prematuramente e tragicamente scomparso (profilo redatto da Guido Garufi, che con lui condivise anni di appassionata militanza culturale), quello che vorrebbe essere un discorso circa l'identità culturale marchigiano-romagnola, le cui radici affondano nell'humus della cosiddetta "scuola classica" sette-ottocentesca, e che ebbe in certo Leopardi la sua eredità e il suo esito più alti e duraturi. Un classicismo, o meglio una classicità, che pure, al pari della pur modernissima coscienza poetico-critica di Pagnanelli, esploravano le cave e risonanti profondità della terra, dell'origine, del primordio, dell'Heimat, del Grund fondato sull'Ab-Grund, dell'epifenomeno che lascia intuire, se non vedere facie ad faciem, l'oscurità del gorgo e dell'intreccio di vita e morte, genesi ed annientamento, che vi sono sottesi, ed inesplicabilmente, enigmaticamente lo sorreggono.

Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.

In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).

Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.

Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».

Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.

Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").

Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.

M. V.





Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia



Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.

Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.

L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.

Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).

Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.

Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.

Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.

Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".

Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.

Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".

La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".



Guido Garufi


Nota biografica

Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.