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giovedì 25 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “Sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco: Toblach e 'Toblack'”


Che Toblach fosse luogo astratto, svuotato di ogni senso fisico, “anticamera luminosa della morte”, come esemplarmente sintetizzava Sergio Solmi (a proposito di Toblack di Sergio Corazzini), e successivamente altri con lui, è solo parzialmente vero: vale a dire, è vero nella misura in cui ci riferiamo alla trasfigurazione letteraria condotta dai versi corazziniani sul sanatorio di Dobbiaco. Il quale peraltro è effettivamente esistito (Dobbiaco e San Candido, o Toblach e Innichen, se si preferisce, tradizionalmente erano due luoghi di cura della Val Pusteria). Nondimeno, il sanatorio di Toblach non coincide con quello che certa letteratura critica indica nella vicina San Candido.

Il Dott. Cesare Bartolucci gentilissimamente mi riferisce, in seguito alla sua circostanziata ricerca sulle tracce del sanatorio di Dobbiaco, che “interrogando alcuni anziani del posto, tutti concordano nell'individuare il sanatorio nell'ex scuola elementare (una costruzione a tre piani), sicuramente di aspetto "ospedaliero" o di caserma. Tale edificio si trova in via Conte Kunigl, di fronte all'ufficio postale, via che peraltro si continua con la Gustav Mahler. La costruzione in via Conte Kunigl viene soprannominata "LAZAR", il lazzaretto, dagli anziani. Attualmente ospita per conto della Provincia autonoma un centro diurno per portatori di handicap.

Credo che questa sia la versione più credibile circa l’esatta ubicazione del sanatorio di Dobbiaco. Dalla piazza della chiesa il lazzaretto dista pochissimo. In successione troviamo: la piazza, il Comune con Banca Cassa Rurale, il supermercato Sapelza e l’ex scuola elementare
Lazzaretto”.

Se tale preziosa precisazione non molto potrebbe aggiungere alla decodifica dei versi corazziniani, essa adombra tuttavia l’ipotesi fondamentale che Corazzini potesse figurarsi un luogo reale anziché congetturale quando si accingeva a trasfigurarlo attraverso la creazione poetica. Rileggiamo i quattro sonetti, legati in progressione dai numeri romani, dei quali il primo contravviene alla tradizionale struttura sonettistica, essendo i versi incorporati in una sola strofe anziché scanditi dall’avvicendarsi delle quartine e delle terzine, come accade nelle altre tre parti, sorta di feed-back nell’esplicitare la forma della prima, che non a caso si presenta graficamente contratta. Da sfondo sfocato del senza tempo nell’atonalismo delle mezze tinte e della acromatica malinconia crepuscolare (non solo le “vie”, ma anche le “giovinezze” paiono liquefarsi in “un grande sole malinconico”) nella descrizione dell’ambiente esteriore (laddove i simboli della campana, della fontana e della porta chiusa sono tra le più ricorrenti allegorizzazioni corazziniane), più avanti il codice tende a precisarsi quel tanto che serve a delineare il nesso tra l’evanescente spazialità e le “defunte primavere”, “le preghiere vane” e le “speranze perdute” dello spirito obsolescente. Allora Toblach diviene Toblack, “ospedal tetro”, luogo circoscritto e insanabile della vacuità dei desideri, nel quale si consumano tante adolescenziali meditationes mortis:


I


…E giovinezze erranti per le vie
piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.
II

Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,
gl’ ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue terribili campane
è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange, Morte che cammina.

III

Ospedal tetro, buona penitenza
per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,

anche se dal tuo cielo piova, senza
tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché verrà la bara,
quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.

A uno a uno Morte li prepara,
e tutti vanno verso il tetro abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce via!

IV

Anima, quale mano pietosa
accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quïeto; nelle bare
stanno i giovini morti senza sole,
arde in corona la pietà dei ceri.

Anima, vano è questo lacrimare,
vani i sospiri, vane la parole,
su quanto ancora in te viveva ieri.


I sonetti di Toblack (“Rugantino”, 27.X.1904, poi confluiti in L’amaro calice, pubblicato nel 1904 con la data del 1905) si aprono in uno sfondo di indeterminatezza estrema (“…E giovinezze erranti per le vie”) conseguita non soltanto metonimicamente (“giovinezze” propende per l’astrattezza) quanto per la quasi ingiustificata congiunzione coordinativa copulativa inusualmente preceduta dai puntini di sospensione posti all’inizio, soluzione espressiva che pare sottendere la prosecuzione di un discorso già altrove cominciato, e che stabilisce una indistinta e tuttavia ossessiva continuità in questo lento (il peculiare uso della virgola ne sottolinea la scansione), disilluso e irreversibile - e dalla cadenza quasi ritualizzata - andare verso l’estinzione.

Gli elementi del catalogo crepuscolare - deprivati di ogni presunzione di oggettività e statutariamente riferibili a una sfera solo soggettivistica, sub specie interioris hominis - sono introdotti in un contesto, la città-sanatorio, che si propone di accentuare il senso di astrazione dalla vita e finiscono per smarrire ogni relazione con il proprio referente. “Portoni semichiusi, davanzali / deserti, qualche piccola fontana / che piange un pianto eternamente uguale”: tali entità refertuali sono poste in rapporto di coordinazione attraverso una sintassi nominale che inscena l’allusione a un seguitare lento e cadenzato, analogon verbale e prosodico del corteo dell’ultimo viaggio. Pur funzionando come sempre da paradigmatici specchi dell’io, con sensibile deviazione dalla logica della designazione, tali presenze-parvenze oggettuali passano attraverso una condensazione connotativa proprio mentre perdono di consistenza materiale, sfumano e si destrutturano in un ulteriore straniamento come per dare la percezione della propria estraneità al mondo fisico (e la versione definitiva di Toblack documenta lo sforzo corazziniano in tale direzione). Nella prima parte assistiamo a una solo apparente figurazione di un esterno, le cui componenti fungono da delineazioni dell’evento in una rarefazione che mette in crisi l’idea stessa di realtà come rappresentazione: l’oggetto corazziniano è la forma elettiva dell’inconsistenza della rappresentazione, con la conseguente dispersione della nozione stessa di realtà. Siamo di fronte a una indeterminatezza funzionale al crescente procedere astrattivo in coniugazione con l’evanescenza, motivo ispiratore e connotatore del testo. E contemporaneamente il paesaggio di Toblach si fa ipostatico e al contempo universale.

Nel secondo sonetto la descrizione diviene più marcatamente interiore, vale a dire il luogo appena tracciato nei suoi lineamenti essenziali diventa lo spazio in cui svanisce - nella medesima forma elencatoria per rapide evocazioni per prolessi - l’idea dell’infigurabilità di una prospettiva a venire. Vengono reiterate le figure metaforiche “campana” e “fontana”: stigma di condanna, diversamente che in altri luoghi corazziniani, la prima (peraltro unico dato sonoro eccedente sul silenzio che grava sull’intero componimento, un’assenza di sonorità, nondimeno, caricata di altri significati), espressione suprema di una progressiva consunzione, di una temporalità versata che coincide con l’agonia, la seconda. Ma l’epifonema (molto prossimo alla tautologia, nel costante corazziniano assimilarsi di vita e morte) “Vita che piange, Morte che cammina” vanifica ogni nostra divagazione ermeneutica. Con il referente “ospedale” si verifica, nel terzo sonetto, un mutamento, se non di tono, di densità verbale, in vista di un indebolimento dell’astrattezza attraverso l’immissione nell’universo morale dell’apprentissage della distruzione organica. Un costante (“senza tregua”) “desiderio di convalescenza” pervade e possiede i giovani “di sé Morte pensosi”: ma da “dietro i vetri lacrimosi”, bagnati, dunque, non solo di pioggia. Con l’introduzione della dimensione dell’ospedale diviene più esatta la qualità della nominazione: viene pronunciato il nome della malattia, letteralmente, la tubercolosi, si delinea una reale pulsione di convalescenza, neutralizzata dal sopravvenire della bara dalla terminale “ultima corsia”. Ma “quietamente”, “sempre, così”, nella rassegnata sottomissione a una meccanicistica ineluttabilità, iterativa e ossessiva. Il sonetto di chiusura costituisce una invocazione - di qualità eminentemente autoreferenziale - all’anima di un giovane trapassato che emblematizza la sorte collettiva nell’alonata luce dei ceri: l’iterazione dell’attribuzione anaforica “vano” nell’ultima terzina vale come sottolineatura della inermità e della vanità di ogni resistenza, finanche spirituale, disposizione che fa di Toblack un cantico della rassegnazione.

Toblach è luogo di deriva e documento di sopportabilità, dimensione incerta di trapasso, paesaggio liminare dello spirito disilluso di una assorta (“pensosi” sono i “fratelli” del poeta) umanità residuale che, non dimentica della vita (“disperata etisia degli Ideali”), indugia - quasi a reclamare l’ultima verità - alle soglie: dalle quali misura l’elegia dell’esistenza, in crescente identificazione con la sparizione. E i versi di Toblack costituiscono la trasposizione metaforica (ius vitae ac necis, quindi il destino stesso) di un ambito che da luogo di cura declina in spazio (irreligioso, malgrado i fugaci riferimenti al “crocefisso” e alla “Certosa”, che non possiamo evitare di raffigurarci nella chiesa parrocchiale di Dobbiaco, con attiguo cimitero: altrimenti, perché accade realmente di commuoversi in quei luoghi?) di appressamento alla morte, metaforizzazione, dunque, dell’inattingibilità della vita o dell’ascrivibilità alla dissoluzione.


Elisabetta Brizio

martedì 2 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “L’'hortus sepultus' di Sergio Corazzini”




Sonetto della neve (uscito su “Rivista di Roma”, 25. III, 1905 con il titolo La neve, poi confluito in Le aureole, del 1905), è costruito su opposizioni che lungo i versi si redimono dissolvendosi, implicandosi e incorporandosi: l’orto è “triste” e “nudo”, il cielo è “morto”, la neve è “bianchissima e leggera”. Dapprima “maternamente” consolatoria, a conclusione del testo essa diviene oppressiva alla maniera del baudelairiano “vessillo nero”. L’alba è insidiosa, ma con “gesto lieve”, “sorrisa venne di sua luce chiara”, ma al contempo implacabile nel disvelare l’abbandono dell’orto - in cui, come altrove, è allusa la più peculiare forma di esistenza crepuscolare - nella sua condizione reclusoria, esemplificato in ossimoro nel verso conclusivo, sepolto nella “tetra dolcezza” della neve. Nondimeno, in Corazzini si verifica un indebolimento dello spleen baudelairiano in termini di estenuazione, di incremento della tonalità elegiaca rispetto alla baudelairiana dimensione dell’angoscia.

La vocazione poetica corazziniana è eminentemente elegiaca: anche nelle forme chiuse la sua “malinconia mortale” si dispiega in una incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirico-sensoriale, ridotte alla stregua di evocazioni - seppure talora evocazioni esatte nella loro precisione nomenclatoria, cui tuttavia è sotteso uno sforzo descrittivo incerto e tendenzialmente trasfigurante. Sono quasi del tutto assenti nel Corazzini più “maturo” qualsiasi idea di consistenza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua, e qualsivoglia variazione emotiva che ecceda dalla usata salmodiante inflessione stilistica, elegiaca e rinunciataria: in una parola, da una aura anticipativa di morte in un diffuso albore apportatore di verità. Tali referti d’immateriale sono resi nell’inevidenza delle immagini e attraverso risonanze che non raccontano il tempo, sguardi assorti di sostanza d’Erwartung sull’arcanità, in un ritmo (in Sonetto della neve legato ancora alle regole della versificazione tradizionale) lento e senza dissonanze né interferenze discordanti, in un continuum (malgrado le maggiori spezzature che figurano nei primi due versi) dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato e inespressivo (un transfert qui in piena corrispondenza con il referente “neve”), un bianco opaco e atonale risaltare del silenzio, tale da consacrare anche questi versi al trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore, delle ore e del tempo. La poesia crepuscolare non va alla ricerca di un tempo che resista all’oblio, ma si smarrisce in una consapevole meditazione sull’attesa, in una perplessità fissata in aeternum:


Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.


Una volta marginalizzata la presenza umana (della quale qui sopravvive solo un “muto cuore assorto”) l’orto e il catalogo analogico acquisiscono il valore di personificazioni: il cielo è dotato di anima e ha caratteristiche materne, l’alba esordisce attraverso una vaga gestualità. Nel sonetto la desolazione del “cielo morto” - altra variazione analogica dello spleen crepuscolare - si disfa con il cadere della neve, del cielo anima “bianchissima e leggera”, nell’orto cupo e desolato, fino a rimare con “morto” (seppure riferito a “cielo”). La leggerezza della neve, nella sua cadenza ipnotica, consola l’anima quasi fosse un fiorire di primavere. Ma l’alba disvela la qualità illusiva del corazziniano riferimento alla rinascita contenuto nel verso precedente, e l’orto staziona nel degrado del suo imprigionamento usato, con la variante vanamente suasiva della visione della “tetra dolcezza della neve”. La metafora della primavera, qui inusualmente - e comunque labilmente (non a caso rima con “sera”) - assunta a immagine consolatoria, ricorre diffusamente nella poesia di Corazzini, fino a costituire uno dei suoi più crudeli correlati oggettivi: essa è privazione della vita e insufficiente rifiorire dell’anima in Spleen, ennesima oggettivazione del motivo della morte nella eufemizzazione di bare fiorite in Il cimitero, simbolo dell’irrevocabilità del tempo in Toblack e in Il fanciullo, della disillusione in Ballata a morte, dell’obsolescente nostalgia nella probabilissima ipallage “Oh! primavere / di giardini lontani!”, in Dopo, testo che segna il corazziniano commiato dalle forme chiuse. E dalla vita, stando alle due ultime strofe, che delineano una quasi gozzaniana e michelstädteriana veglia crisalidea su quello stato limbico di incompiutezza che separa il “non essere più” dal “non essere ancora”:

Chiudi tutte le porte.
Noi veglieremo fino
all’alba originale,

fino a che un’immortale
stella segni il cammino,
novizii, oltre la Morte!


Ipallage, si diceva: in Dopo l’attributo “lontani” sintatticamente si riferisce a “giardini”, ma idealmente a “primavere”: in altri termini attraverso lo scambio Corazzini codifica tutto il senso di una nostalgia retrospettiva. Ma l’interrogativo vale per la maggior parte delle figure semantiche o retoriche (e finanche fonologiche), lo spostamento logico-grammaticale della determinazione che attiene al termine pressoché adiacente potrebbe anche oltrepassare il puro intendimento semantico e alludere a una spiritualità oscillante o non supportata da coscienza, a una dissociazione percettiva o cognitiva, nonché a una oggettività non adeguatamente concettualizzabile né iterabile, che adotta caratteristiche che non le ineriscono alle quali al contempo cerca di sottrarsi, ovvero a una verità incorporata che accomuna entrambi i termini (come nel paronomastico - e in tal caso fonologico - accostamento nominale Gilberte-Albertine, laddove le proprietà dei nomi paiono alchemicamente trapassare le une nelle altre, con le imprevedibili e “necessarie” conseguenze nella estetica proustiana, che ben sa il valore delle analogie, delle associazioni, degli echi remoti che risuonano al di sotto della soglia della coscienza).

In Per organo di Barberia, diversamente, la primavera è eminente emblema della poesia stessa, vale a dire una oblazione altrettanto vana (“Primavera di foglie / in una via diserta!”) come il suono dell’organetto, che inascoltato si disperde senza speranza di ricezione, cadendo nella sazia indifferenza del fondamentalmente edonistico contesto dannunziano (nondimeno, relativo più al dannunzianesimo che allo stesso D’Annunzio, del quale conosciamo più le cadute che le elevazioni). Oltrepassato il luogo comune della crepuscolare replica in chiave negativista e trasgressiva, e talora provocatoria, al presunto poeta-vate, resta per esclusione il referente “vita” (“la Vita si ritolse tutte le sue promesse”, dice Guido Gozzano) che il soggetto dell’esperienza percepisce come declino, mancanza, fuga, da reificare inoltrandosi nella metafisica dell’oggetto e delle analogie spirituali, attraverso le quali il pensiero si fa sensibile senza al contempo smarrire l’equilibrio tra ispirazione e testo. Illudersi di eludere la finitezza: è ciò che induce Corazzini a indulgere all’antropomorfismo (o viceversa a uno sfruttamento solo interiore del pretesto paesaggistico) e a riversarsi nelle metamorfosi della natura, i cui elementi, come il poeta stesso si finge, si rimettono all’avvicendarsi di estinzione e di ingannevoli prefigurazioni di riscatto. E in Per organo di Barberia la parola “vanità” (“vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!”) potrebbe anche rinviare alla poesia come privilegio solitario non a tutti accordato, o più presumibilmente a una condanna altrove non sperimentata. Prossimità di privilegio e di condanna, di elevazione e di perdizione: un motivo già superbamente leopardiano nel Passero solitario, e baudelairiano in L’albatros.

In Corazzini, fin dalle sue primissime prove in lingua, prevalgono un sentimento di consunzione e l’immagine di un temperamento sfaldato ed esausto che concorrono a delineare l’abolizione della differenza tra arte e vita in vista dell’inveramento del simbiotico nesso tra poesia ed esistenza; in tal senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria esistenza residuale come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando altri crepuscolari assumevano la morte, l’avvertimento dell’inconsistenza, nonché la tendenza a una antifrastica autosvalutazione, come metafore scritturali di una quasi snobistica effrazione nei confronti della cultura ufficiale. Ma tanto in Gozzano che in Corazzini l’uscita dalla storia e la trascrizione letteraria della vita, la loro stessa enfasi dimissionaria, si riveleranno sterili e ingannevoli quanto il loro originale:

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte
sorrido e guardo vivere me stesso.

(Guido Gozzano, I colloqui).


È con Le aureole che l’ispirazione di Corazzini inizia a progredire, paradossalmente, ritraendosi: il suo vocabolario poetico si assottiglia e si fissa intorno a scarsissimi motivi, declinando entro una ristretta sfera di temi, di accenti e di variazioni verbali, contemporaneamente all’imminente opzione versoliberista, ogni avanzo di slanci affettivi (aperti nondimeno a una maggiore possibilità di simbolizzazione) per una disincarnata trasvalutazione delle cose che ancora fanno parte del mondo. In questo procedere verbale e sentimentale palesemente à rebours, al lamento e al singulto sopravviene la contemplazione assorta. Predisporsi alla contemplazione del nihil aeternum (adombrato nella rima di carattere quasi performativo “chiara-bara”: forse solo alla morte pertiene la conoscenza), straniero a ogni forma artificiosa del sentire e del fare versi regredire verso un tempo anteriore e in disparte nominarlo. Contravvenire alla vita, dunque, ma solo per necessità, al di qua - o forse oltre - ogni falsificazione. Consumato il dannunziano “sogno di Sperelli” (un sogno di carattere unicamente estetico, il cui fallimento è rivelato dallo stesso antieroe dannunziano che, come egli dice, si era gettato nella vita, come in una avventura insensata, “alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni”) alla poesia crepuscolare non attiene che amare l’agonia sillabando la vita, ma per viam negationis.


Elisabetta Brizio

martedì 12 gennaio 2010

Elisabetta Brizio, "La grigia 'povertà cogitabonda' nella poesia di Marino Moretti"

La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la sua voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.


Camillo Sbarbaro


Chinar la testa che vale?
Che vale fissare il sole
e unir parole e parole
se la vita è sempre uguale?

Marino Moretti



Oppressi dalla dannunziana mitologia del poeta-vate i crepuscolari ostentano una povertà stilistica e di contenuti, attenuano i grandi motivi decadenti e decantano la propria incapacità di sostituirli; in tutti c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur con un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è antilirica confessione della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. E il presupposto comunicativo della negazione crepuscolare è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: un disconoscimento - di secondo grado dunque - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

Della poesia i crepuscolari inverano la morte e una condizione aurorale, aspetti compresenti nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo che Giuseppe Antonio Borgese inaugurava su “La Stampa” nel 1910:

A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. (…). Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.

Marino Moretti - nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì un lunghissimo, emblematico silenzio poetico protrattosi fino a Diario senza le date, uscito solo nel 1965 - accondiscende all’atmosfera crepuscolare attraverso un impoverimento tanto delle emozioni che della valenza d’eco sia del catalogo oggettuale che dei luoghi del crepuscolarismo. In lui l’obiezione al naturalismo e allo storicismo avviene in una dimensione strenuamente ironica, nell’intrattenersi con una realtà poetabile solo per diminuzione. Non siamo nell’orizzonte della riduzione mallarmeana (pur se umanamente, tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e dunque richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale) verso la purezza, né di quella corazziniana verso l’essenzialità e l’astrazione linguistica delle ultime raccolte, nelle quali il soggetto lirico-empirico delinea l’esito di un divenire che tragicamente accede al punto d’arrivo. Con evidente intenzione mistificante - ma fino a che punto? - Moretti esibisce, come uniche emozioni, un cupo grigiore e la noia della vita. Ma sovrappone a tali referti la propria inclinazione riduzionistica vistosamente diminuendoli, e filtrandoli attraverso uno schermo che li riduce fino a rivelare della realtà la sua qualità “lillipuziana”:

Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi: la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita
è come l’arte, un gioco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, Poesie di tutti i giorni).

Il celebre morettiano “nulla da dire” potrebbe assimilarsi all’indebolimento del verlainiano “Plus rien à dire!”. Il "nulla da dire" di Verlaine (nel celebre sonetto Je suis l'Empire à la fin de la décadence) è comunque inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana (la decadenza tardo-ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui è tramata e intessuta, nella ruota dell'eterno ritorno, dei corsi-ricorsi, la storia, e in particolare di quella tardo-imperiale, che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater).

L'afasia di Moretti può invece apparire più individuale, intimistica, provinciale, marginale, perciò talora anche fastidiosa, oltreché povera di significati letterari e culturali, proprio perché scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli.

Nondimeno, che anche il non-dire possa essere paradossalmente fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna, che sta, ad esempio, alla base dell'alea musicale così come del teatro dell'assurdo - mentre il théatre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l'ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l'indugio, nella letteratura e nella musica.

Il nulla da dire invade anche i morettiani luoghi della retrospezione e si intreccia con il rammemorare, con la regressione, come in Il ricordo più lontano, posto a chiusura di Poesie scritte col lapis. E tale tendenza al regressus accomuna il poeta agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per reificarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente (scriveva parecchi anni or sono Luigi Baldacci che leggendo Moretti si avverte la sensazione che egli sia intervenuto nel momento in cui la poesia crepuscolare si era pressoché esaurita), come nella dichiarazione apertamente programmatica - e ormai non più neppure antidannunziana - della sua poesia-prosa, emblematizzata nella metafora del frutteto:

Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia

(…)

Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore
che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?

(Il giardino dei frutti).

E viene spontaneo qui l’accostamento alla più nota e fors’anche più sottile esternazione di Gozzano, contenuta in L’altro:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile di uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Rispetto al più scaltrito Gozzano, il cui prosaismo, com’ebbe a dire Montale, viene sapientemente e imprevedibilmente coniugato con “l’aulico”, con la componente della tradizione, con l’esibizione di una letterarietà travestita da dimessità che ne legittimerebbe la classicizzazione, Moretti, si diceva, sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale.

Un crepuscolarismo, quello di Moretti, eideticamente devitalizzato, deprivato di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuto di stazionare su una ontologica e poetica nihilitas nella quale l’inaridimento viene apparentemente vissuto senza ombra di pathos. Con questo, la morettiana prosa-poesia non è tuttavia esente dal coefficiente aulico: come in Gozzano, la componente letteraria viene solo accortamente dissimulata, e con loro, come poi con Montale, la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, tra “sublime inferiore e sublime superiore”, come notava Edoardo Sangiuneti, diventa eminentemente una questione tra sublime e non sublime.
La poesia di Moretti si presenta con metrica e forme chiuse, e con l’ostinazione della rima; resistente al verso libero, la sintassi morettiana mostra comunque forti spezzature (ad esempio in A Cesena), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Lo accomuna a Gozzano un’ironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio poetico, nel tentativo di decifrare il livello profondo dell’espressione. Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, ma rispetto al poeta torinese, che costantemente si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita finanche di proporsi, restando al di qua di qualsiasi affermazione:

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente!
che cosa, io non so veramente
perch’io non ho nulla da dire

(Io non ho nulla da dire, Poesie di tutti i giorni).

Che senso ha dire in poesia “io non ho nulla da dire”? È una forma di negazione della poesia in quanto tale? Verbalizzare un nulla da dire alluderebbe a un segno più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è una maniera estrema per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivarrebbe a non dire menzogne, ad astenersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due eccessi, o poli, dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, per dirla alla Gozzano, alla “rinuncia volontaria”, che talora nondimeno si esprime in forme e toni maggiormente assorti e riflessivi:

Felicità, cosa che sa d’amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce ma non uccide;

felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?

E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t’ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, infelicità?

(Cosa e parola, Il giardino dei frutti)


A Moretti, rispetto al liricissimo Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano perlomeno delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a entrare in sintonia - seppure per sottolinearne lo scarto - con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con il mistero. Così come gli è estraneo il corazziniano indulgere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty - vibrazioni e volute di puro suono, ma implicate anche negli innumerevoli simboli tratti dal mondo della natura, di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana.

Quella vicinanza, in altri termini, alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo dell’esperienza e della parola. Laddove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica espierenziale ricercatamente minimale.

Un’esperienza eminentemente grigia (“non c’è che un colore: / il grigio”, Che vale?), colore debordante nei versi di Moretti, che sottentra al bianco corazziniano, tonalità del silenzio e della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal grigiore dello spleen crepuscolare:

Voglio cantare tutte l’ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, a una gota,
mentre rivedo, piccola, un’effige

(Che malinconia!, Poesie scritte col lapis);

Non c’è né duolo, né gioia
non ci son luci, né ombre:
il grigio, il grigio che incombe
sui cuori e un tarlo, la noia!

(Che vale?, Poesie scritte col lapis)

Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare è Armonia in grigio et in silentio del più “barocco”, impressionista e coloristico Govoni), è colore che collima con la noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della “tetraggine” (“malinconia / del tuo color che non è più colore”, Ode al lapis). Un “grigio borgo” dove piove e “s’avvicina / l’ombra grigiastra” è Cesena, grigie sono le ore, “grigia è l’immensità in La domenica di Bruggia, grigio il diurno morettiano vagabondare (“lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessuno mi saluta / fuorché un cane a quando a quando”, La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire come indistinzione del segno riluttante a significare. Il girovagare, si diceva, il nulla da fare, già sottolineato da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo che non assumono il carattere crepuscolare del notturno come esperienza estetica (stando ai ricordi dei crepuscolari del cenacolo romano) o come insofferenza al vedere quanto lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo inconcludente vagabondare, nel quale il poeta sembra pago

d’una felicità fatta di cose
randagie, di brevi atti di passanti,
di ritornelli facili, di pose
vecchie d’innamorati interessanti

(A Firenze con Palazzeschi).

La poetica dell’oggetto, del proverbiale oggetto crepuscolare, antefatto letterario del montaliano correlativo oggettivo, subisce con Moretti una sensibile deviazione. Se in Corazzini l’oggetto era il compimento di una visione o la simbolizzazione di un’ossessione emotiva, ovvero l’incarnazione materiale dell’anima, in una parola, “un altro me”, deperibile e soggetto a consunzione, segno d’elezione dell’estrinsecarsi dello spirito, in una relazione paritaria con il soggetto lirico (una variazione del mondo reale dal punto di vista del soggetto), in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e sancisce tale distanza conservando una dimensione più realistica e meno astrattiva, e patisce la trasfusione di una mancanza di sentimento. In Moretti gli oggetti non paiono in alcun modo emotivamente o esistenzialmente connotati se non in modo implicito, silente, che eventualmente sarà decifrato dal lettore. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda (“Oro doro odoro dodoro”).

L’indifferenza permea e impregna, avvolge e imbeve anche lo stile di Moretti, che si qualifica come stile al grado zero, insieme alla fredda luce degli oggetti e degli ambienti, che riflettono in modo solo implicito, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero autentico stato d’animo.

Ma non alla maniera del superegotico Gozzano, riempiti di ironico rimpianto, talora sbeffeggiati, ma saturi comunque di un contenuto soggettivo, di un’aura di passato ormai cristallizzato, la sola consistenza che Gozzano riesca a padroneggiare, a fruire, oltreché l’unica a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’edificazione di una sorta di “altare del passato”: e il carattere di passato che pervade i versi gozzaniani sopperisce a una tutt’altro che metaforica vacanza di presente.

Gli oggetti di Moretti rivendicano la propria autonomia, e malgrado talora dessero l’impressione di adombrare una evasione, una qualche risonanza, hanno una dimensione univoca e inequivocabile, sono concreti e letterali, per usare la definizione che Roland Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani. Il morettiano oggetto fattuale dunque fa la cosa senza svelarne alcunché. Moretti non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né li assume, gozzanianamente, come obsoleti nella loro assoluta fissità, e neppure sono obsolescenti come le corazziniane cose “che sanno”, in una poesia dove poeta e oggetto condividono lo stesso destino in una comunione indivisa. E in Corazzini a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e della prospettiva cosale.

Inoltre, il repertorio oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal consueto catalogo crepuscolare e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni (“tutte conosci le città dei miei / sogni e paesi che non vedrò mai”), e che tanto doveva affascinare Marcel Proust, il quale diceva quanto il suo essere spirituale riuscisse - fantasticando sull’orario ferroviario - a travalicare le “barriere del visibile”, attingendo nel suo stato di reclusione a “voluttà profonde” nella “fascinosa evocazione di quei paesi di luce e di vita”.

Insieme all’orario ferroviario, l’ascensore, il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, tuttavia deprivati della loro componente usufruibile. Come accade in Ascensore (in Poesie di tutti i giorni, poi non confluita nell’edizione mondadoriana del ’49), “questa celletta piccola e imbottita / che va su che va su”, e in Telefono (anch’essa espunta dall’edizione del ’49):

Sei tu! sei tu! la voce mi giunge
da una profondità d’anima oscura:
ho paura di te, di quest’ordigno,
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirto maligno.

In Moretti non assistiamo al transfert del soggetto nell’oggetto, né a quello che sarà il montaliano passaggio dal fisico al metafisico (come superlativamente nella metafora del muro). Nondimeno, anche in Moretti si verifica uno sconfinamento nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, “la dolce anima” di La domenica di Bruggia (testo che riecheggia il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), l’”animula da nulla” di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis.

Oggetto eccentrico, il lapis (per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando a Il “lapis” di Marino Moretti di Silvio Ramat), metafora dell’indecisione e dello svaporare nell’invisibile, rispetto agli altri oggetti morettiani nei quali, si diceva, si percepisce una consistenza quasi esclusivamente letterale. Il lapis emblematizza la crepuscolare poesia in tono minore, è prossimità con la consunzione e quindi con il silenzio e il dileguare, è inattitudine a edificare alcunché di duraturo nel tempo. Quale legittimazione del nulla da dire, il lapis tratteggia una poesia preparatoria, è prefigurazione al dire, un dire embrionale in gozzaniana “perplessità”, di sostanza di attesa. Il lapis prefigura lo scolorare dell’attesa, l’evento salvifico del verbo che nondimeno è predestinato a svanire, ma non per questo a fallire:

Poi che se vane furon le parole
che ombrasti appena su le nuove carte
e non ebbero i fremiti dell’arte
perché non germinarono nel sole,

dolce mi fosti e dolce mi sarai
compagno tu nella solinga vita:
vedi, la vecchia penna è arrugginita
e non v’è inchiostro più nei calamai.

(Ode al lapis, Poesie scritte col lapis).

Condizione liminare - quello che resta dell’intenzionalità artistica -, mozione verso l’espressione e indecisione perpetua, il lapis lambisce la parola ancora da dire. Perché, scrive Moretti,

E’ triste. Credetelo, in fondo
è triste. Non essere niente!
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo!

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona!
Veder quella brava persona
imporsi un gran còmpito ingoto!


(Io non ho nulla da dire).


Dice Claudio Di Scalzo, in una delle sue iperboliche “scritture supplementari” (come La maschera funebre di Sergio Corazzini) in margine ad autori amati:

scrivere è il sonno turbato da cento scricchiolii / scrivere è una corsa lungo mura in cattiva salute / scrivere è un volo controvento convinti d’esserne sospinti / scrivere è l’ispirazione sotto vuoto spinto / scrivere è la punta della matita trattata male / scrivere è la trapunta per il velo di una sposa senza attributi / scrivere è la tortura di una penna che ti solletica il cuore / scrivere è un vestito fuorimoda rovesciato / scrivere è il passo lieve sul terreno d’altri / scrivere è rivolta con la lingua capovolta / scrivere è l’avvenire di una mosca che non ha deposto uova / scrivere è uno scivolone sui cornicioni umidi del testo / scrivere è salire una scala malferma che porta alla soffitta di tutti / scrivere é tutta la mia cattiveria (da Rigagnolo senza sorgente per l’orto di Moretti, 1978).

Scrivere dunque, anche stilando con il lapis, per demitizzare la storia e per vaticinare una presenza seppure intrisa di una “povertà cogitabonda” (L’albergo della tazza d’oro) consapevole dell’inattingibilità a una oltranza, scampata comunque sia all’inerzia che a ogni volontà di costruzione: eluso ogni compromesso sentimentale, nonché poetico, resta la libertà “irresponsabile” dell’assenza di scarto tra la vita e la poesia. Le “cognite cose”, dal canto loro, continueranno ad appartenere al mondo:

Essere sempre come un’ombra,
come un’indistinta forma di passante
fra le cognite cose, fra la gente:
essere un’ombra che, fra tante, ha un nome.

(Angolo d’hortulus, Poesie scritte col lapis).

mercoledì 5 agosto 2009

ELISABETTA BRIZIO, "LA 'CONDIZIONE LILIALE' DEL MAETERLINCK DI 'SERRES CHAUDES'"

Ad Alvaro Valentini


Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

Maurice Maeterlinck



Letterarietà décadente, volendo adattare alla poesia una riflessione di Nietzsche sulla musica wagneriana, è eccedenza della parola rispetto alla frase, frase che a sua volta diventa straripante oscurando il senso della pagina, la quale esiste autonomamente facendo astrazione dall’insieme. È la celebre descrizione dello style de décadence che Nietzsche enunciava nel Caso Wagner (e sarebbe interessante notare che, sebbene dapprima Nietzsche vedesse proprio in Wagner un possibile antidoto alla décadence e al nichilismo, l’”opera d’arte totale”, che fonde Wort, Ton e Drama - i tre elementi che Wagner voleva sinesteticamente fondere nel dramma lirico - è molto prossima alle poetiche delle analogie e delle corrispondenze - e non è certo casuale l’interesse di Baudelaire e di Mallarmé per Wagner) e mutuava da Paul Bourget, uno stile che con la sua frammentazione rispecchiava “l’anarchia atomistica, la disgregazione del volere”. Il pensiero di Nietzsche era entropico, anticipava con la preveggenza del genio, colossale e ribelle, del dio sofferente, del poeta deriso, l’entropia, l’indeterminazione, il principio di Heisenberg, che postula l’inesistenza della conoscenza oggettiva, giacché si potrebbe osservare la materia solo alterandola. Ma certo l’idea della morte, del disfacimento morale e intellettuale come disgregazione di atomi gli derivava dalla frequentazione del pensiero greco, degli atomisti, ma anche degli stoici, per lo spettro di una ekpyrosis, di una universale conflagrazione che metteva capo, a sua volta, a una nuova rinascita, in un ciclo incessante, in un eterno ritorno che guarda oltre la siepe dell’infinito.
La décadence è disgregazione, tramonto, inabissamento, eppure, dato l’influsso che ha esercitato su tante correnti successive, dati i tanti fermenti, i tanti autori capitali che a essa si sono rifatti (l’avvicendarsi degli stili, delle correnti soggiace a una logica di eterno ritorno, di perpetuo rinnovamento, pressappoco nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, morivano per poi rinascere, per poi tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Giuseppe Antonio Borgese, inaugurando con la metafora del crepuscolo la definizione stessa di poesia crepuscolare, non sarebbe seguita la notte) finirà per introdurre una maniera aurorale di esprimere l’universo sommerso degli inesprimibili stati dell’essere.
Lo stile del decadentismo è l’esito di una mozione a oggettivare l’invisibile, indotta anche dalla scoperta dell’inconscio quale inesplorato universo dello spirito. Traendo l’inconscio dalla sua destinazione freudiana di traducibilità in linguaggio e in descrizione cosciente veniva restituita al contenuto latente la valenza di enigma e di territorio insondabile, da cui traggono origine sia la sfera della consapevolezza che i contenuti e le rivendicazioni dell’Es. Nuovi saranno allora gli strumenti conoscitivi per una nominazione dell’inconoscibile, nuovo il procedere linguistico per evocazioni. Allo scopo di esplicitare l’arcano cosmico e quotidiano si verifica un dirottamento del linguaggio da ogni configurazione logico-razionale in direzione della modalità analogica e degli aspetti fonico-cromatici della lingua; la percezione della contiguità tra le differenti sfere sensoriali sorge e si avvale dell’analogia quale espressione delle tonalità del mistero, del simbolo, di metafore sinestetiche, di rimandi sonori e delle armonie imitative. Questo perché la nuova poesia è intuizione di uno jenseits der Dinge, di un eidos celato, sotteso alla superficie che è tragicamente avvertita come increspatura. Enunciare equivale a descrivere l’increspatura, conoscere è rivelazione dell’incognito che si manifesta in forme ctonie e oscure, la cui intrasparenza permarrebbe - e Proust soltanto basterebbe a confermarlo - qualora fossero interpretati per via razionale. In Proust l’effabilià del ricordo ha a che fare con l’attitudine assimilatrice dell’analogismo. In fondo la Recherche, come scrisse Walter Benjamin, è la ridescrizione del “mondo nello stato dell’analogia”, laddove le baudelairiane correspondances vengono associate alla vita vissuta.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore”, diceva Proust sulla scorta di Baudelaire. La componente metafisica che illumina ogni parvenza trascorre in un fiat e come tale è inafferrabile. Essa non è il luogo dell’irrazionale, ma è il transito stesso, che, secondo Baudelaire, va enfatizzato e al contempo preservato attraverso l’ebbrezza. E l’ebbrezza costituisce, per così dire, il metodo baudelairiano per intercettare le intermittences e le impressione fuggevoli nella loro centralità sfuggente ed evasiva - o altrimenti detta marginalità significante - e fissarle con la forza evocatoria e medianica del pathos della parola: l’anima décadente apre un varco verso una verbalizzazione dell’insondabile. Diversamente che nell’analogia, dove salta ogni legame logico o di affinità con l’ordine originario delle cose, con il simbolo un oggetto viene assunto per significare un suo aspetto dominante (ad esempio, in Maeterlinck, l’acqua simboleggia la purificazione, il giglio la purezza, il ghiaccio l’indifferenza e la morte). Verificata l’insufficienza dell’uso convenzionale della lingua, non rimane che risolversi per la sua inusabilità: la parola pregnante e omnicomprensiva che infrange le norme della verosimiglianza diviene lo strumento conoscitivo che dissolve la dicotomia tra l’essere e il dire; le ombre e gli inafferrabili segni dell’ignoto vengono ontologizzati e ricondotti al noto attraverso vertiginose analogie in una sintassi illogica dell’inverificabile, in perpetua violazione dei codici linguistici tradizionali e delle gerarchie sintattiche, talora al limite della intelligibilità anche per l’incessante transcodificare da parte dello scriba della décadence. Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, come dicevano gli antichi alchimisti. L’alchimia della parola e la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea (a partire da questa sua matrice simbolista) si spiegano in questi termini.
Nelle Serres Chaudes (1889) Maurice Maeterlinck tenta di risillabare il mistero che sostanzia e avvolge le cose mediante una lingua affollata di simboli, inequivoco segno di una disposizione sentimentale essa stessa incantata e intraducibile, che oscilla in una pendolarità tra paura e desiderio di affidarsi al divino. Per via di illuminazioni (le quali, se assumono come connotatore un elemento particolare, diversamente che in Pascoli non vi si intrattengono oltremodo), Maeterlinck invoca la fine dell’angoscia del mistero, mentre Pascoli, poeta dell’arcano e dell’ineffabile, indugia sul particolare o lo pone in una sfera di superiore astrazione. Prevale in Pascoli il senso di meraviglia che si traduce in simboli maggiormente riconoscibili, emblemi che senza complicarsi ulteriormente attraversano tutta la sua produzione poetica.
La maeterlinckiana tensione a una condizione liliale, edenica, rarefatta e quasi incorporea, “rapita fuor de’ sensi”, redenta dai loro turbamenti e dalle loro contaminazioni esercitò sul D’Annunzio del Poema Paradisiaco e su Sergio Corazzini una seduzione particolare, seppure con esiti del tutto differenti. La serre chaude, equivalente con riserve (è assente in Pascoli il senso di asfissia che pervade tratti delle Serres) al claustrofilico nido pascoliano, passò nei crepuscolari “giardini abbandonati” (ma il discorso della discendenza crepuscolare dai simbolisti di lingua francese sarebbe quanto mai complesso), nell’hortus conclusus del Paradisiaco, che ripropone il tema dell’esigenza di purificazione successiva all’appagamento sensuale. Nondimeno, la dannunziana aspirazione a una generica bontà e a una regressione verso l’innocenza infantile, verso la madre, la disposizione all’ascolto della sofferenza altrui (tutti atteggiamenti protocrepuscolari) paiono offuscate da una poetica della raffinatezza parnassiana, oltre che vagamente ellenistica, dal culto esasperato della locuzione rara, dove la ritmicità della parola forma un suggestivo analogon con il verso libero che si espande in partiture più ampie. Il senso di stanchezza in cui si dilegua la soddisfazione sensuale (come accadrà anche nella produzione narrativa, nel Piacere in particolare), lo stato d’animo convalescenziale che sa i limiti dei sensi riconfluiscono in D’Annunzio in una sorta di edonistico e narcissico autocompiacimento estetico, che, al di là delle scelte espressive, si intrattiene voluttuosamente in questa sorta di stanchezza malinconica e di volontà d’oblio. Non c’è antitesi dunque tra la vita e la morte nel Paradisiaco, ma solo una equivoca fluttuazione dell’una nell’altra. È lo stesso motivo che separa D’Annunzio dall’anima crepuscolare e, ovviamente, da Maeterlinck, nel quale, perlomeno nelle Serres, è del tutto assente anche la dannunziana tensione a dissolversi nell’incessante fluire della vita della natura e a partecipare intimamente dell’eterno tornare della vita cosmica.
Secondo Milo De Angelis (stando all'introduzione all’edizione italiana del 1989) il Maeterlinck di Serres Chaudes sarebbe prossimo al Verlaine di Sagesse, quel Verlaine illuminato dalla passione cattolica trasmessa a Maeterlinck dalla sua traduzione - e dalla conseguente assimilazione - di Ornamento delle nozze spirituali di Jan van Ruysbroeck. Ma la conversione e il rigetto del suo vivre dans le dérèglement non impedirono a Verlaine, in alcuni testi, la ricaduta nell’intensità della sua vita precedente errante nella corruzione. Analogamente, in Maeterlinck pare dubbia la sincerità del suo pentimento: l’itinerario della sua anima - in costante oscillazione tra l’ascesa e il disastro - nel libro sfuma, attraverso immagini e illuminazioni improvvise e stridenti che interrompono un interludio di apatico e riflessivo silenzio, verso un vago sentimento di colpe non bene identificate, che talora pare configurarsi come autocompiacimento della colpa stessa. Cosicché il progetto spirituale delle Serres - un percorso verso un futuro di possibilità peraltro solo adombrato - si conclude con l’equivoca e tutta décadente intenzione-attesa di una cancellazione della colpa dopo lunghe “orazioni addormentate”, aspettando i “ceri stanchi nell’aurora”. Ma la sensazione in questo libro è di assistere - piuttosto che a un anelito verso desideri duraturi - a una graduale restrizione della vita e dello stile propri dell’identità residuale di un poeta del sepolcro, piuttosto che del sagrato.
Lontano è il tempo e il sapere del tempo nelle Serres, l’atmosfera è archetipicamente surreale come spesso in Maeterlinck (si pensi solo alla Stimmung di Pelléas et Mélisande). Tempo e luogo sono remoti e irriconoscibili. Fantasie esotiche, oscure rêveries, ambienti fantastici, contesti di provenienza, ombre, illuminazioni, silenzi e transustanziazioni mistiche si intersecano a un indefinito rituale del sacro, all’immagine ricorrente del giglio, alle iperoggettivazioni nei multivochi simboli della clausura come estraneità, esclusione dal mondo sensibile, protezione e opportunità di accedere a un altrove mistico, alla noia del recluso, che fin dal testo di apertura assume una configurazione di prolungamento in termini di estenuazione dello spleen baudelairiano, privato tuttavia del suo carattere eminentemente tragico. La condizione maeterlinckiana, non meno egotica rispetto a Baudelaire, è priva di tonalità tragiche e somiglia piuttosto a una forma di passività paga di permanere in “inazioni bianche”, all’inesplicabile perplessità di un’anima “malata di assenze” e di “attese morte”, e lo spleen si definisce come ossessiva decantazione dell’indifferenza e dell’apatia di fronte all’inconsistenza e alla insensatezza di tutte le cose, come magistralmente in Noia:

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,
I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;
Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,
I pavoni che passano nel mio sonno,
I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,
Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,
Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,
Attendere svogliati il tempo senza sole.

E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, enigmatico oltremodo, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana - come pure sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto.
Dell’universo della parola Maeterlinck sceglie voci senza tempo e senza storia che si riducono a invocazioni e a compulsive esclamazioni. C’è una omologia tra sogno e poesia, intesa come svelamento del dileguare della vita nel mistero in cui tutte le cose sono avvolte e svaporano. Malgrado il verbo declinato quasi costantemente al presente ci restituisca l’impressione di un’evidenza - di una parola giunta al possesso della luce -, esso non oltrepassa l’annunciazione di un compimento che nei fatti stenta a verificarsi: il presente viene dunque assunto come stigma della stasi.
Il linguaggio poetico è primordiale, non c’è rimozione né identificazione. La stessa iterazione quasi ossessiva di parole chiave, scandite in un ritmo costante e salmodiante, non fa che confermare la loro valenza archetipale. Ma le recondite figurazioni istituite per via analogica finiscono per complicarsi e implicarsi e la maeterlinckiana “vegetazione di simboli” talora trasmuta e cambia di senso (a titolo di esempio: esempio la campana di vetro - quella stessa, forse, sotto cui Montale confesserà di aver trascorso la sua paralizzata e angosciata giovinezza -, simbolo di imprigionamento e di clausura e al contempo di desiderio di separatezza e di difesa), anche in virtù dei frequentissimi accostamenti sinestetici (talora la noia è “blu”, il singhiozzo è “glauco”). Cambiano di segno, ma senza contraddizione alcuna, perché tutti gli aspetti del nostro io non si possono presentare contemporaneamente, in una simultaneità in grado di compendiarli. Vivere - e per il poeta decadente scrivere - equivale ad avvertire e trasferire sulla pagina le metamorfiche forme della vita, dal momento che, come diceva Proust, quello delle intermittences è il solo carattere di permanenza, di persistenza, e, paradossalmente, di equilibrio che ineriscono all’uomo.
Attingendo all’universo materiale delle parole e delle cose del mondo il poeta esprime realtà immateriali e di pensiero e incoerenti allegorie, performa, in altri termini, l’implausibile credibile. Il simbolo maeterlinckiano resta comunque al di qua del deragliamento dei sensi e secondo De Angelis rifluisce nella cantilena del recitativo. Né trattiene i segni di quell’”infernale” e di quell’“inappellabile” caratteristici di Rimbaud, quel carattere “fisicamente, dantescamente, corporeo”. È il simbolo che da noi sarà il crepuscolarissimo referente malinconico della noia, della preghiera-invocazione, del desiderio, del peccato, dell’aspirazione vaga ad affidarsi a una altrettanto vaga spiritualità, la quale non per questo rinuncia ad accordarsi con il mistero della vita, a esprimere adeguatamente correspondances e sfuggenti risonanze tra le cose.
Nel libro finisce per prevalere l’uso del verso libero (meno frequenti sono i metri regolari): allora l’allegorizzazione diviene dispiegata, il testo più sconnesso, disfatto, il simbolo svela realtà inattese e insospettabili correlazioni che vanno oltre i canonici abbinamenti simbologici. Viceversa, nella prima parte frequentissimi sono gli accostamenti sinestetici che diminuiscono gradualmente nel corso del testo.
Secondo De Angelis Maeterlinck insegue una “verità nascosta” che non coincide con la verità della fede. Un’aura di mistero alona l’oggetto, e il poeta non può far altro che constatare la sua inafferrabilità istituendo altre possibilità linguistiche. Vediamo, attraverso i testi, il mutare di alcuni dei segni-simboli - il loro svolgersi tentacolare - di questa complessa condizione.
Innanzitutto la titolazione: la serra è calda, secondo De Angelis, perché “bruciata dalla fede”. Nondimeno, la serra allude anche e soprattutto a una reclusione intrisa di pentimento, condizione annunciata come predominante sin dal testo di apertura (Serre chaude, per l’appunto) che è disseminato di espressioni che rimandano a una situazione claustrale (“porte chiuse”, “cupola”, “una musica di ottoni alle finestre degli incurabili”, “cortile dell’ospizio”, “sotto quelle campane”). In Serra di noia (“dove si vedono chiuse, / tra le vetrate profonde e verdi, / coperte di luna e di cristallo”), in Tentazioni (le “glauche tentazioni” del poeta “hanno tristemente coperto” con il loro “crescere sacrilego” l’aspirazione a una vita senza colpa, all’approdo a un Dio che disperda “i sogni della terra” e che rischiari la “serra malvagia”). Nei versi di Campane di vetro l’invocazione è rivolta a non sollevare le campane, e ad aver “pietà dell’atmosfera rinchiusa”, quasi fosse una protezione, un desiderio di ibernazione che tuttavia alla fine rivela tutto il suo carattere enigmatico nell’immagine dell’eremita nella cella e del fondo della grotta. In Fogliame del cuore “sotto la campana di cristallo azzurro” trova una tregua la sofferenza malinconica del poeta, e il giglio intona una “bianca, mistica preghiera”. In Anima calda l’ombra, le ciglia che “hanno chiuso le porte / su speranze ormai troncate” e le irraggiungibili “campane verdi della speranza” ci riportano a una condizione di timore e di impotenza. Lo stesso accade nel testo successivo, Anima, dove Maeterlinck introduce il colloquio con l’”anima sorella” (che sarà poi preponderante in Corazzini), nel quale ritornano le immagini della serra, degli ammalati, della sepoltura, della prigione, della torre, delle finestre d’ospedale, del convento. L’esortazione reiterata affinché “le finestre restino chiuse” emblematizza - nei versi di Ospedale - l’idea di protezione come “una serra sulla neve”, e uno “zampillo in mezzo alla stanza” induce a schiudere “appena la porta”, mentre il gigli stessi sono minacciati. In Desideri invernali la soglia dei sogni (e, gozzaniamente, delle ”rose che non colsi”, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato) è chiusa, e l’”anima stanca” del poeta pare estenuarsi nel rimpianto dell’innocenza lontanissima e perduta. In Ronda di noia i “gigli si aprono in strade / senza stelle e senza sole”, segnature di una ancora lontana redenzione. In Scafandro l’acqua diviene il luogo eletto a emblema del palpitare della vita, in opposizione al “palombaro nella sua campana per sempre” (si pensi, qui, all’immagine ungarettiana del poeta che scende nelle profondità delle acque per poi risalirne alla luce con i suoi canti, ma anche al palombaro, peraltro ben più giocoso, scanzonato, grottesco, di una celebre “parolibera” di Corrado Govoni). Riflessi è il testo dove la metafora dell’acqua sembrerebbe custodire l’arcano delle cose che dal di fuori appare solo come increspatura. E indicare una via di salvezza e di rigenerazione dalle imperfezioni della vita. :riflessi sarà, non per nulla, il primo, inquietante romanzo di Palazzeschi, tutto intriso di ambigue atmosfere simboliste, e pervaso da una simbologia floreale legata all’idea del disfacimento e della morte.
Il giglio, simbolo per definizione dell’aspirazione alla purezza spirituale, è insidiato da “uccelli notturni” nel testo di apertura, ritorna nell’immagine dei “gigli ingialliti del domani”, dei “gigli nel fondo di acque lontane”, segno di una innocenza non più perseguibile: il giglio è “fragile” nel suo “rigido pallore”, incapace di contrastare le tentazioni del corpo. Lungo le quartine di Anima calda Maeterlinck anticipa - dopo una serie di ipallagi - un tratto tipico della religiosità decadente, pavida e inerte, intrisa di noia e di solitudine: compare qui la parola “paura”, che tornerà meglio contestualizzata in Orazione (“la mia anima ha paura come una donna”). E in entrambi i casi il giglio costituisce l’oggettivazione di questa aspirazione alla purezza: “seminate gigli lungo le febbri”. Il giglio compare insieme all’immagine salvifica dell’acqua nei concitati versi di Ospedale, mentre in Ronda di noia è simbolo di apertura e di possibilità, nell’indifferenza del mondano senso comune: esiste, dirà poi Corazzini in Per organo di Barberia, l’adombramento di una rinascita “che nessuno raccoglie”, una “Primavera di foglie / in una via diserta”.
Questa sordità alla rinascita viene riconfermata in Acquario; la malattia della volontà è un perpetuo indugiare nella condizione di un desiderio di impossibile purificazione: allora i gigli diventano “di ghiaccio” e “sparsi per sempre / e morti sbocciando”, alla stregua di “fiori assenti”. Analogamente, in Riflessi, si delinea uno dei temi principali dell’opera, che sarà poi eminentemente corazziniano, quello dell’inconsistenza:

Sotto i riflessi profondi delle cose
Gigli, palme e rose,
Piangono ancora sotto le acque.

E ai fiori non avanza che sfogliarsi “a uno a uno”, “nell’acqua del sogno e della luna”. Irraggiungibili, dunque, redenzione e purificazione, nell’immagine intrecciata del giglio e dell’elemento liquido. Sono i “gigli appassiti” di Visioni, laddove l’insistenza sul verbo “passare” evoca lontananze perdute, mentre termini come “stanche”, “pesanti”, “sonno”, “lente”, “svogliate”, “immobile” si ricollegano alla noia di un’anima indolente e accidiosa. In Orazione (due sono i testi così intitolati nelle Serres) l’ennesima invocazione al Signore che sa la miseria del poeta e dei suoi “fiori maligni” (in esplicita opposizione ai gigli), la religiosità è vissuta espressamente come orfanità di un’”anima spossata” e come inaridimento nell’immagine del ghiaccio e nell’ossimorica “tristezza della mia gioia”.
La nota tristezza, nel rallentamento della scansione elencatoria e nel frequentissimo ricorso all’anafora, assume nella visionarietà di Sguardi diverse configurazioni: dal senso di soffocamento di “un pomeriggio d’estate in un museo di cere”, a uno stato d’animo da convalescente, enfatizza una immobilità, quasi da atmosfera cronostatica, un presente immobilizzato per un’analisi del tempo, che pare interdire ogni alternativa e ogni ulteriorità (sguardi “che soffrono di non poter essere altrove”, “sguardi muti”, “sguardi quasi soffocati”), fino alla resa dei “gigli delle guerre”. E ancora, in Attesa, incontriamo “gigli che non sbocciano”, una sospensione (“suonano sempre le stesse ore”) che in Pomeriggio si protrae nella paralisi “dei sogni immobili” e nel desiderio “dell’acqua sull’erba”. Ma l’anima, in Anima di serra, è “rinchiusa nel vetro” mentre la vita vera si schiude “sott’acqua” e i gigli si stagliano “contro i vetri chiusi”, in attesa che la luna “schiuda in silenzio le porte”. I gigli “si muovono sott’acqua / sfiorando gli eterni bagliori” si dice in Intenzioni, rivelazioni che avvengono sotto gli “occhi chiusi” del soggetto lirico, la cui anima “apre al volo dei cigni”, con chiara allusione a una auspicata elevazione morale. Il vetro diventa il diaframma tra il desiderio e la vocazione per “altre speranze”, in Vetro ardente:

Guardo antiche ore,
sotto il vetro ardente dei rimpianti;
E dal fondo blu dei loro segreti
I fiori emergono migliori.

Con la scomposta visionarietà di Contatti Maeterlinck compie una sorta di consuntivo (scandito dal ricorrere dell’invocazione “abbiate pietà!”) della propria esistenza, e affida alle mani il compito di descrivere gli ormai noti e autoindulgenti simboli di reclusione (“un convento senza giardino”, la serra, le - poi corazziniane - porte chiuse, la dimensione sotterranea, la prigione, la grotta) e di aspirazione alla vita (“a spargere un po’ d’acqua sulla soglia”), laddove l’immagine dell’acqua (già introdotta nel testo sotto la veste di “zampilli” e di “fontane”) finalmente “fresca e chiara”, a conclusione del testo, sembrerebbe aprire una possibilità di redenzione e di ritorno a uno stato di innocenza (“attendo che bagnino i miei sguardi, / l’erba morta dei miei sguardi, / dove tanti agnelli sono sparsi”).
Possibilità che si delinea come indugio perpetuo (“attendo sul viso la loro freschezza, / come un tesoro in fondo all’acqua”, “attendo che bagnino i miei sguardi”), variamente simbolizzato in Anima di notte, testo conclusivo del libro, dove il reiterarsi ossessivamente anaforico ed enfatico del termine “attendo” (peraltro debordante lungo tutto il libro) sancisce il senso di una redenzione come eterna vana ricerca e aspettazione – oltre che dell’idea patologica del tempo immobile, bloccato, e dello spazio chiuso, che anela a una impossibile apertura, a una preclusa, e soffocata sul nascere, dilatazione.
Già in Orazione Maeterlinck aveva delineato questo senso di esitazione nelle “ore spente”, nella “pallida indolenza” e nella seduzione per l’astensione dei “gigli ingialliti del domani”:

Abbiate pietà della mia assenza
Alla soglia delle intenzioni!
L’anima è pallida di impotenza
E di inazioni bianche.

Chiusura, clausura, rigetto, aseità, distanza dal mondo, mancanza di rapporto tra il Sé e le cose, secondo la definizione canonica dell’angoscia, della melanconia, del taedium vitae: il tutto però visto non solo come “cella triste” - direbbe Corazzini - della tortura esistenziale, ma anche come difesa, come ripiegamento interiore, protezione dell’io. Come spazio, infine, della creazione poetica e della stessa testualità. Il male e il rimedio coincidono, si incrementano l’un l’altro e si fondono in verbo poetico, perché la poesia si incarica di completare la vita, di darne la propria versione con altre forme:

Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

giovedì 16 luglio 2009

"Il presente del silenzio: l’'ora crepuscolare' in 'Elegia' di Sergio Corazzini", di Elisabetta Brizio

Pubblico volentieri queste note di Elisabetta Brizio – rigorose e insieme sensibili, di un rigore quasi accademico, quasi semiotico e strutturalistico, eppure animate e illuminate da una viva partecipazione umana ed esistenziale – che esplorano un'altra dimensione (stavolta prettamente testuale, più e oltre che tematica, contestuale, ambientale) della “provincia” crepuscolare: quella del silenzio, dell'ammutolimento, della reificazione verbale e fonica (corrispettivo testuale e semantico del mistero, del tramonto, dell'ombra, della morte, motivi-emblemi che saranno al centro di un altro grande ed enigmatico testo del Corazzini estremo, La morte di Tantalo) che in Corazzini (come già in Mallarmé e nel D'Annunzio più assorto ed inquieto, e come poi, più sistematicamente e più arditamente, nei futuristi e nel primo Ungaretti) si traducono, visivamente ed espressivamente, nei blancs, negli iati, nelle sotterranee e latenti discontinuità, nelle pause/lacerazioni, del dettato poetico.
“Provincia del linguaggio”, in certo modo, il silenzio: limite ombroso ed immoto avvicinandosi al quale le parole, i suoni, le voci si diradano, si fanno via via più rari, e insieme più puri – allo stesso modo che il nulla, il vuoto, l'abbandono, l'oblio, l'opacità crepuscolare sono “provincia dell'essere”. E in ciò, forse, precisamente in questo rapporto, in questo dilatato e dolente intervallo/ferita, fra la voce e il silenzio come fra l'essere e il nulla, sta, oltre che l'attualità perenne del crepuscolarismo, anche l'essenza del genere elegiaco modernamente (e variamente) rivisitato, dal D'Annunzio delle Elegie romane («Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime; / non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci. // Nascere dal silenzio paiono tutte le cose / come le salienti nubi dal mare. (...) // Soli i lauri con lieve tremito incessante / dan tra la selva indizio de la nascosta vita») al Rilke delle Duinesi («ma ascolta il soffio del messaggio eterno / che dal silenzio si forma, e che ti giunge / dai morti prematuri. / (...) E abbandonare anche il proprio il nome / come un giocattolo spezzato»). Ma già l'elegia latina (si veda Properzio, IV, 7: «Cynthia namque meo visa est incumbere fulcro, / murmur ad extremae nuper humata viae. / (...) Inter complexus excidit umbra meos»), esplorava quello spazio “tendente a zero”, sottile ed infinito, minimo ma insieme colmo di risonanze sconfinate, che divide la parola dal silenzio, la vita dal nulla.
«E sarà dolce non seguirne il senso». Le vecchie canzoni, le parole logorate, stinte, affiochite dalla lontananza fino al limite dell'evanescenza e del dileguo, emblematizzano la condizione nuda e indifesa, essenziale ed insensata, della vita ormai protesa alle soglie del nulla e del vuoto. La soglia, il limen della morte (il leopardiano «supremo scolorar del sembiante», il momento estremo in cui “non si sente nulla”, o, precisamente, “si sente il nulla”, delle mummie di Federico Ruysh) rende l'uomo presente e vigile alla propria nullità, alla propria quasi essenzializzata e ontologizzata
nihilitas; allo stesso modo che, sul piano della stilizzazione metatestuale, il bianco, il vuoto, il silenzio che avvolgono e velano la parola la riconducono al cuore luminoso della sua fragilità, al tesoro splendente della sua mortalità che è preludio di rinascita. (M. V.)



essence is the word for the finger
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
Jack Kerouac


In perfetta convergenza tra misure prosodiche e dettato interiore, nell’articolazione strofica di Elegia (Frammento), pubblicata in una plaquette a parte senza indicazione della data nell’intervallo intercorso tra l’uscita del Piccolo libro inutile e del Libro per la sera della domenica (entrambi del 1906), Corazzini svolge il motivo della malinconia crepuscolare attraverso un emblematico - e funzionale - rallentamento del discorso poetico enfatizzato dal frequentissimo uso della virgola, ma senza per questo stravolgere quella continuità sentimentale che lungo i versi è percepibile nell’iterazione assidua e ossessivamente marcata di alcuni gruppi semantici.

Stabilito come eminente connotatore del testo, il campo onomasiologico relativo al pianto - leit-motiv incontrastato e debordante dell’opera - assegna una definitiva uniformità di ispirazione tanto a una tonalità emotiva fatta di rassegnazione regressiva che al nucleo tematico fondamentale: il quale gravita intorno al tema, già pascoliano (ma privato delle pascoliane implicazioni) del compianto per l’infanzia ignara, spazio dei sogni e delle illusioni della vita. La coerenza tematica di Elegia emerge nella quarta strofe, attraverso l’equivalenza semantica di “triste” e “dolce”, i due aggettivi di derivazione jammesiana che nelle rimanenti strofe, nonché negli altri testi corazziniani, si mantengono nei limiti della loro pur impercettibile differenza di significato, laddove il “forse” - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi - non ha valore restrittivo, ma di estensione e di dilatazione dell’attesa vana:

sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.

Nella seconda strofe alla nozione di un passato pieno di dolcezza (“Ti sarebbe / dolce un imaginare di lontani / giorni che la tristezza esiliò / con le favole”) fa riscontro un presente di malinconica tristezza (“quelle povere favole soavi / senza amarezze e pure, adesso, tanto / tristi che, quasi, piangi per averle / in cuore, tutte”). E a un presente di tristezza, individuabile ancora all’inizio della terza strofe (dove l’autore sembra quasi catalogare alcuni degli oggetti del repertorio crepuscolare):

Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso?

dovrebbe succedere, inusualmente in Corazzini, un futuro che, come il rifugiarsi nel passato, si riserverebbe di offrire al poeta la tristezza di una felicità evanescente e improbabile:

Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore?

Analogamente, più avanti:

Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno

Definita (al verso 52) l’equivalenza semantica dell’abusatissima coppia corazziniana “triste” e “dolce” il poeta può procedere all’identificazione tra passato e futuro, pervasi di congetturali dolcezze, in un presente che appare piuttosto gravato da una disillusa estenuazione. Né la felicità trascorsa, intrisa di immagini e cose periture, e come tale falsamente rassicurante, né quella ipotizzata per il futuro, sono dunque idealizzate dal poeta come resolubili ad alternativa allo stato attuale. È piuttosto in questo che tali presunte felicità convergono in rapporto di equivalenza, fino a dare la definizione della loro inesistenza reale come dolcezze avvenute o solo astrattamente idealizzate, e del loro essere un presente dilatato che si prolunga in quella configurazione del tempo quale si mostra alla coscienza quasi infantilmente regressiva del poeta, senza una precisa scansione temporale. Apparenze nel tempo presente (seppure, statisticamente, il tempo presente venga contraddetto nel testo dalle innumerevolissime e preponderanti forme verbali che - a partire dalla zona conclusiva della terza strofe - sono quasi costantemente coniugate al futuro, mentre si nota la grande scarsità di verbi al passato, ridotto a pura evocazione di possibilità), il poeta e la sua “cara anima” sorella (nonché figura femminile assorta, silenziosa e languente come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau), ma apparenze certe pur nell’astensione e nell’implosione, sostanze verbali d’invocazione e di attesa. Il dualismo tra passato (evocato in termini di un ritorno del represso) e futuro (che è pura allegoria e finzione) si risolve in un rassegnato qui ed ora inalterabile, in perpetua dilazione, che media e incorpora il tempo trascorso insieme a quello a venire. Il poeta sa che è vano cercare un varco che trasmuti in dolcezza la tristezza per la fine delle cose. La regressione verso il passato diventa allora il segno di una volontà di perseverare nel presente della vita, avvertita come proroga nel segno della stasi e della passività, nella perplessità - per dirla con Gozzano e Corazzini - dell’”ora crepuscolare”. Azzardando una interpretazione figurale, il poeta, nella sua storicità, è figura del presente, laddove passato e futuro ne costituiscono l’adempimento.

La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa nell’insistenza sull’idea del pianto, sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirica-sensoriale. Sono quasi del tutto assenti in Elegia qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e lacrimosa. L’impossibile rifugio nelle favole infantili - e in un futuro alla stregua di favola - è reso lievemente, nell’inevidenza delle immagini e delle evocazioni, in un ritmo lento senza dissonanze e interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato, un bianco opaco silenzio, tale da suggellare in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore e del tempo:


Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

In endecasillabi sciolti (l’endecasillabo pascoliano, in particolare quello dei Conviviali, più che un’intrusione letteraria pare profondamente assimilato da Corazzini), la scomparsa della rima e l’incessante ricorso all’enjambement che è prolungamento per definizione, nonché l’inconclusione finale allusa dai puntini di sospensione, esemplificano un desiderio di abbandono senza fine, di infinitare il senso di dimissione, di dismissione e di rinuncia. La stessa particolarissima versione grafica di Elegia (riprodotta in versi esageratamente spaziati, quasi a dare una maggiore risonanza a ciascuno di essi in una versificazione, nondimeno, che mantiene un andamento narrativo nel momento stesso in cui allude all’impossibilità del divenire delle due anime), la sproporzione che invade i bianchi margini in alto e in basso, distanze minime rispetto ai larghi spazi vuoti che corrono tra un verso e l’altro, potrebbero concorrere a una visione d’insieme della fissità del tempo, quando al contrario gli intervalli grafici tra i versi di solito orientano diversamente il cosiddetto tempo della lettura; la poesia di Corazzini, che ha già assistito alla dissoluzione delle rigorose forme tradizionali, ritorna qui con un endecasillabo che si sottrae a ogni rimarchevole spezzatura e che esclude enjambement prolungati o “clamorosi”, con un andamento da invocazione sempre uguale, senza progressione ritmica ascendente o discendente. Nondimeno, tale poesia enfatizza lo spazio bianco mentre paradossalmente lo depriva del suo valore di pausa.

Pur pubblicata separatamente, Elegia è un testo non eccentrico rispetto agli altri libri di versi di Corazzini: stessa è la vena crepuscolare, stessa è l’apparente aproblematicità dei contenuti, così come l’autoreferenzialità di un “tu” tutt’altro che relazionale, che è al contempo colloquio con l’anima ed eminente mascheramento di un monologare senza interlocutori, al di qua del limitare del sogno. Stesso è l’ambito fenomenologico essenzialmente solipsistico e di chiusura al mondo esterno: l’ennesimo non luogo dell’anima nell’inviolabile aura in cui si svolge il colloquio del poeta con sé stesso. Ricorrono inoltre l’idea di reclusione, di omissione e privazione, di sospensione del tempo, l’estraneità a una temporalità dispiegata, uno stile antilirico al grado zero, in un codice dimesso e quotidiano, quella totale assenza di scarto tanto stigmatizzata da Gianfranco Contini, e che costò a Corazzini l’esclusione dalla continiana Letteratura dell’Italia unita. L’écart dal livello medio della lingua, il cosiddetto salto stilistico, si verifica assai di rado in Corazzini, soprattutto perché il suo discorso si compie al di fuori di una configurazione tragica, e non cerca alcuna giustificazione storica ma avviene in una tonalità minore, quella, avrebbe detto Guido Gozzano, dell’”esilio” e della “rinuncia volontaria”. La vocazione a una identità, l’aspirazione al possesso della propria esperienza e memoria, paiono frustrate fin dall’inizio in versi in cui Corazzini significa la mancanza di legame con il proprio passato: una volta nominato, il passato svapora nell’assenza di senso e di possesso.

C’è un senso fondamentale dal quale discendono informazioni e motivi: una fenomenologia limbica (e l’atmosfera quasi conventuale che fa da sfondo sottolinea questo straniamento del e dal tempo) descrive due vite congetturali che non riescono a pervenire a compimento, che pare vogliano resistere alla vita e indugiare in perpetuo sbigottimento in uno stato intermedio, in una enfatizzazione dell’hic et nunc: qui l’autore mostra solo disillusione senza resistenza, codifica con l’inaridimento della poesia l’elegia dell’impossibile realizzazione dell’umano. Il soggetto lirico staziona ai confini del tempo nel tentativo di dilazionare il presente per aggirare questa ad infinitum sperimentata assenza di una prospettiva futura verso la quale ogni slancio propulsivo è votato al fallimento. Il poeta vive un secondo tempo: porta in sé ciò che è scomparso alla stessa maniera in cui prefigura le tracce di quello che sarà. E il presente è il secondo tempo quale segno dell’incertezza della vita che adombra la sua sparizione, è estensione e risaltare del silenzio mediante la diminuzione (“un poco”, “piano”, “piccola”, “povero”, “chiara”, “parole bianche”), l’evanescenza anche per mezzo di locuzioni privative (“ombra”, “senza amarezze”, “siano per morire”, “quasi bianchi”, “senza dirti nulla”, “senza sapere”, “non seguirne il senso”, “quasi più”, “senza sapore”, “senza senso quasi”), la lontananza (“addio”, “favola antica”, “lontani giorni”, “vecchi abiti”, “obliati”, “vecchie canzoni”, “verrà la pace”, “avrà tempo”).

Attraverso questa convergenza dei vari tempi dell’esperienza Corazzini non scarta del tutto l’idea di una trasmutazione letteraria - di una metaforizzazione - del proprio allontanamento dalla vita e ci restituisce il suo penultimo travestimento, prima delle soluzioni ironiche o pseudo-ironiche di Dialogo di marionette e di Bando e del sontuoso simbolismo introdotto in La morte di Tantalo, il quale peraltro finirà per sancire l’eternità della vita come eterno nulla non diversamente che in Elegia, che sotto certi aspetti ne costituisce il preludio. Ma senza la forza del pronunciamento dei corazziniani versi estremi, quasi l’ostensione di un privilegio sovrano e solitario. In Elegia la voce del poeta è sommessa, udibile appena e anche le parole hanno perso la loro forza allusiva, perché la poesia crepuscolare è silenzio poetico, è una semantica della sparizione, codificazione del vuoto e della vacanza. Non resta allora che l’assumibilità del silenzio - nella e oltre la scrittura -, paradigma, fato e destinazione del poeta contemporaneo. Quasi paradossalmente, in Elegia Corazzini sembrerebbe dire, con il Kerouac di Mexico City Blues:

mentre leggi questo
è lo stesso del vuoto
dello spazio
proprio ora
e lo stesso del silenzio che odi
dentro il vuoto
che è là
dovunque


Elisabetta Brizio

Luglio 2009

giovedì 15 gennaio 2009

Mon âme est une infante en robe de parade. Fondamenti del crepuscolarismo in Sergio Corazzini

Laforgue diceva in una sua poesia di sentire la morte, di avvertire una irriducibile lontananza dal mondo, di avere "la provincia nel cuore". E Maeterlinck, nel Trésor des Humbles, evocava, citando Carlyle, i dispersi cittadini dell'immenso Impero del Silenzio, "épars çà et là, chacun dans sa province, pensant en silence, travaillant en silence". Questo infinito abbandono, questa sconfinata, indefinita provincia dell'essere - questo dilatato e franto margine, queste parole quasi predestinate, che sembra di avere mille volte già detto e già scritto, come se scendessero dalle nubi di un mondo altro e remoto - da certo simbolismo minore, francese e belga, trapassano, rivistati e rinnovati, nella poesia crepuscolare. Una poesia che con Corazzini (cui è dedicato questo lucido e documentato saggio di Elisabetta Brizio, nelle cui pagine sembrano echeggiare, di riflesso, la fedele sensibilità e l'estroso rigore del maestro Alvaro Valentini) approderà infine (nella Morte di Tantalo) ad un senso quasi nietzscheano di eterno ritorno dell'uguale - alla percezione di una morte sempre rinnovata e reiterata, oltre i confini del tempo e dell'umano. La vera essenza della poesia di Corazzini, osserva l'autrice, risiede forse nel suo "incessante nominare e scrivere il sensus finis", nel suo tracciare fatalmente ed instancabilmente il cerchio, sempre aperto e sempre chiuso, di una sorta di "scrivere-per-la-morte" - condizione esistenziale e insieme stilistica, esperienziale non meno che espressiva - che caratterizzerà molta della maggiore modernità letteraria e filosofica novecentesca. (M. V.)


Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
Johannes Brahms1

“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.

Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.

Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:

Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”

(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).

Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.

La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:

Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);

dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.

Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),

e Palazzeschi:

Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia

(Chi sono?, in Poemi),

e Moretti:

Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),

e Gozzano, esemplarmente:

Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!

(La Signorina Felicita, in I colloqui).

Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.

La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.

Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.

La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).

Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.

Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.

Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.

Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:

Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare

(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),

Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…

(Dopo, in Piccolo libro inutile),

Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze

(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);

l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:

non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare

(Il fanciullo, in Le aureole),

in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia

(Alla serenità, in Le aureole);

il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:

Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare

(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),

Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta

(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),

il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:

Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);

il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:

Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio

(Desolazione del povero poeta sentimentale);

l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:

Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli

(Amore e morte, in Poesie sparse),

dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti

(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),

l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie

(Sonetto d’autunno);

le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:

Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza

(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),

L’abbandono del nostro sole!

(Il ritorno, in Poesie sparse);

la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:

quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana

(Il ritorno);

il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro

(La morte di Tantalo),

stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…

(La villa antica, in Poesie sparse),

qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale

(Toblack).

La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.

Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.

L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:

Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.

A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:

Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene

(Sonetto, in Le aureole).

In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:

E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.

Elisabetta Brizio

Macerata, ottobre 2008



NOTE

1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.