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venerdì 6 marzo 2015

Pietro Pancamo, "Gli intercalari del silenzio"

Offro ai lettori, da una raccolta inedita di Pietro Pancamo, questo prezioso esempio di poesia silenziaria che, del silenzio, esplora le varie dimensioni: tanto il lirismo quanto l'amarezza, sia la crepuscolare perplessità sentimentale che il pianto e il grido trattenuti a fatica, così il raccoglimento interiore come il sorriso, o la risata, beffardi e disgreganti.

L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.

Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.

Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.

Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.

Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.

(M. V.)

 

Filosofia

Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio

che smette, ogni tanto,

di pronunciare il vuoto.

Allora qualche indizio di materia

deforma l’aria,

descrivendo le pause del nulla

prima che il silenzio

si richiuda.

(Le mani s’infrangono

contro un gesto incompiuto)


Verande d’azzurro

I

Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza

prima di entrare nella moschea delle bocche.

II

I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine

indossano pastrani di luce.

III

Un gregge di bagliori

alle pendici dei versi

nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…

Canicola di gioia, tanfo d’allegria

negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità

negli acuti del sole

e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…

IV

Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…

Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno

intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi

festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.

Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…

V

Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.

Dal lievito nullo di rocce azzime,

paesini salgono

pioli di luce.



Poeti

Noi che visitiamo carmi di sole

brindiamo con versi e parole.

Scriviamo sorrisi

e sentimenti in codice;

insonni di vita

andiamo sposi

ai nostri occhi.



Se la tua voce

 

Se la tua voce desidera cullarsi

nel mio cuore,

troverò i sorrisi

con la mano di un giocoliere

e i miei minuti saranno il volto di acrobazie

che, da una mano all’altra,

volano fra una mano e l’altra.

Il destinorizzonte

Stracci di sonno coprono,

masticano il corpo della notte

diafano di tenerezza;

lo avvinghiano

sinuoso di buio

– flessuoso di membra stellate –

e lo attraversano d’amore.

Poi, fosforescente,

lo sguardo della nebbia,

scosso di stanchezza,

si espande lento nel cuore

come un gas di desideri

volatilizzati.

Mentre il mio destino,

guantato dalla notte,

scende nei sobborghi dell’anima:

strade oscure di pensiero

e siepi d’amore

s’intersecano nel mio nome.

Il destinorizzonte

s’attorciglia

a questa landa di tempo.

«Chi» – si domanda –

«striscerà nella roccia del canto

la gioia, turgida

come i seni di un fiore incantato?».



Parole dal silenzio


Ricorda il mistero

che fioriva in un sospiro,

dove la morte ha tessuto il nido

come una spiaggia

di parole taciute;

come un barbaglio di sogni trasparenti,

orchestra di anime perdute.


La fuga mancata

La voce trasuda parole d’accento piagato

ma è tiepido il grido del tuo respiro,

le piaghe troppo soffocanti

perché tu abbia il fiato d’urlare.

Morire da te

è una fuga troppo leggera

per avere il sollievo.

Così

un pantano di figure

nel cuore

e il giorno s’increspa

a raccogliere il tuo soffio.


Nausea


Morbido silenzio, soffice

come una preghiera del sonno.

Il buio che adora fruscii e parole:

il buio, affannato dal mio respiro,

può solo accarezzare la

nausea di questa vita.

Nel giorno,

sputo della notte,

fiori freddi

come steli di pioggia.

Un’orma di luce

imbavaglia lo spazio.

martedì 20 aprile 2010

POESIE DI GIACOMO LERONNI


Di Giacomo Leronni, del quale ho recensito altrove la preziosa e lungamente meditata raccolta Polvere del bene, ho ora l'onore di pubblicare altri testi, che confermano l'indole essenziale della sua Musa e ne suggeriscono, forse, un ulteriore sviluppo (che non necessariamente segna, nella perpetua simultaneità, nella “contemporaneità di tutti tempi” direbbe Luzi, che è propria della vicenda poetica, una fase cronologicamente successiva, ma, piuttosto, una ulteriore, interna articolazione ipostatica, che avviene, avrebbe detto un filosofo, per autoctisi di una medesima identità creatrice).

Scavata nel silenzio, quasi dolorosamente aureolata, e insieme assediata, come in Ungaretti o in Celan, dal bianco del silenzio, del non detto e forse indicibile (del “Mistico” di Wittgenstein), è la parola del poeta: parola che sorge da profondità minerali, quasi da radici inorganiche o preorganiche, eppure oscuramente, immensamente vitali, come quelle che cela la terra ardua, grama, tormentosa, del suo Sud – e, insieme, strenuamente consce di se stesse.

Poesia notturna e, insieme, albale, aurorale: poesia della fine e dell'inizio, dell'Omega e dell'alfa, ciclicità dell'essere e dell'esistere risolta e distesa, però, nel discorso ciclico, progressivo-regressivo, nel respiro duplice e bidirezionale, del versus.

La “notte amica” di Ungaretti (ma prima ancora quella mistica e maestosa di Novalis) è, nella sua oscurità, fonte di luce: quella che pare pietra cieca è specchio, invece, colmo di stelle; se dapprima la notte è dimora dell'autentico, e il giorno mascherata di menzogna, nella polivalenza del dire poetico oscurità e luce, silenzio e voce si fondono invece in un nesso inscindibile e duplice. Il presente notturno della creazione poetica è un “presente eterno”, agostiniano e petrarchesco punctum temporis “a cui tutti li tempi son presenti”. E nelle rovine del tempio interiore possono celarsi l'acqua di vita e la nuova fioritura, ignorate, eternamente, preziosamente vive, anche se forse soltanto per se stesse (il tempio interiore di Dell'eterno in minuzie sembra alludere al Dio, senecano ed agostiniano, che abita in interiore homine; ma non è, qui, fatto oggetto di alcun culto: il Dieu caché, il Deus absconditus di Pascal invade con la sua presenza-assenza anche il sacrario dell'interiotià, e viene così ad essere manifestazione del subconscio, dell'abisso interiore, intentato e non lambito, a ben vedere, se non dalla parola poetica stessa). (M. V.).


LEZIONI DALL'OSCURITÀ


Dispongo le tempere
del giorno
poi le ripongo

il meccanismo
s’inceppa
ma io insisto
faccio forza
prevalgo

sorge l’alba

senza che alcuno
sappia
spingendo, tendendo
i muscoli
altre ore di falsità
sono pronte.

***

C’è un pozzo
una giberna per il silenzio

labbra come mensole
il tappeto delle rese:

un ricordo procura
la luce necessaria
un giuramento disorienta

spingo oltre il giudizio
a mezzo
del corridoio di tenebra

eludo l’agguato
della soddisfazione
l’approdo, il tatto:

questa la casa
il ricovero.


***

Opera incidendo
accade

essere frusto
che si aggruma
sasso
che sollecita la marea

a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe

lo descrivi
ma non è così
occulto
e colmo di stelle

potrebbe essere un seme
una spilla

è schivo
non comprende
perché caparbiamente
vuoi dargli un nome.


***


La notte
mi piega a sé
mi affida
la sua albagia:

è tardi
per mentirle
per ripagarla
con monete d’identità.

Sfolgora il pregiudizio
smania il corpo
presagendo la prova:

indosso
cellule esiliate

mi circonda
il buio presente di chi scrive
presente eterno.


***


Non sono più io
ma il male
che m’interroga

l’assurdo che impatta
grumi terrestri

il picchio del male
che indaga se stesso.

Non sono io
sono un dito di morte

lava che squadra
l’abisso

rifugio improvvido
in cui archiviano preghiere
le mie malnate
foglie verdi.


***


Dentro tace il presente
si apposta
si fa vena

scorgo un taglio
è loquace

fuori chiamano
nitidamente
sboccia ripetuto
un nome

ancora dentro
l’ora è già smalto
cellule si stirano

sono dietro l’angolo
mi vedo
oltre il gomito
caudato delle stelle

invischiato
invocato
per portare buio.


***

Risalgo l’alba

la luce che sgorga
da un nucleo minuscolo

il fiore dell’insidia.

Ad ogni approdo
inatteso sostegno

una cipria di vittime
il cui fervore dispensa
dalla visione.

Procedo
per la febbre
che s’impenna

senza l’obbligo del grido

fino all’ottusa vena
che concepisce.


***

Il ricordo è il mattino

che s’innalza
da ogni parte

è una fionda
una sberla
per le ansie

scuce il presente
lo spezzetta

si aggiudica il mare.

Il ricordo:
un’aurora salda

un guizzo di parole
tessute con cura

abbaglianti
e già sconfitte.


***


Case adulte
lance di necessità

guglie, tronchi
di pietra:

la vetrata del cielo
ricomposta

porfidi insondati
capaci di canto.

La pena è elusa
il ricordo s’incasella:

torna la città
al martirio sonoro

la sera reca l’ambra

le strade vibrano
dolci come nomi.


***

Ecco la sera

è questo il suo nome

un acero il seno
derma viscoso

ecco parla
ed io registro
arrivo da voi
piccole mosche
che trattenete il fiato

arrivo licheni
più gagliarda
dal precedente abbraccio

non posso fermarmi
scivolo
per chine taglienti
resisto gioconda

per accompagnare
tutto questo legno
di ore
ad ardere.


***

Niente può separare
la luce dal chiodo

la cattura è definitiva

la mente ne ripercorre
l’eco
e s’intorbida.

Sfrigola il fiore
della pena, lucida
le sue barricate:

niente può separare
l’ombra dalla meta
la folgore dall’orgoglio

e c’è chi con i passi
converte il buio

un bambino di prato
un adulto
che scalcia la gravità

niente può arrestare
il cuneo che avanza
una nudità dopo l’altra.


***

Quanto cercare
dopo il primo colpo

ci sono altre strade
il pruno le impara

i sassi apprendono
un codice sapiente

invece si insiste
si cerca il privilegio
inguainato nel buio

si bussa
a porte di geranio
si urtano frasi
di terra pavida

ci sono altre fronde
le percorre la luce

dritto davanti a noi
o appena indietro

un coro di spasmi
da cui semplicemente
attingere.



***

SINE DIE


Mente
che si scompone
in altra mente

resina
incisa dalla luce

o piega
di creatura assorta
nella notte indulgente

mente
china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero

e formularne il nome

l’essere
in spirito e assenza

e intorno fanfaluche
esitazioni

esecuzioni.


***



DELL’ETERNO, IN MINUZIE

1.

Frasi d’ambra
giorni affogati in altri giorni
d’eccellenza o incuria

erba esiliata sul colle
oltraggiato fino al midollo
poi rappreso
per l’incontro in vista

pietre che rigano la fedeltà
gonfie di tutto il sentire
gli approdi, la futilità
dell’eterno in minuzie

parole affastellate, trascorse
il tempo di girarsi
di accostare il vuoto che fruscia

lampo su lampo
scossa dopo scossa

eccolo annotato, siglato
il luogo non-luogo
il senso imperscrutabile

di tutta questa luce che non sazia.

2.

Replicare passi sconsacrati
scarni i tratti, le tracce
arenate
del cuore che sgombra

più vivo per questo
l’ansimare della storia
più acuta l’intrusione
dei sensi

fra vite sepolte, riemerse
dove le pietre si flettono
e l’incanto recalcitrando
si spegne.

È in questa voce che attendo
i tuoi occhi, i margini d’osso
i muschi
fra l’occulto e l’esploso

nella città inerme
che mi abbraccia

nei ruderi
di templi interiori
che nessun culto ha mai sfiorato.

mercoledì 24 marzo 2010

LA POESIA DI GIACOMO LERONNI FRA DIVENIRE E "SECURUM AEVOM"

L'Iter Brundisinum di Orazio si apre con la visione, lontana ed impassibile, di aridi «candentia saxa», per poi chiudersi - dopo gli accidenti variegati, ora grotteschi ora lascivi, di un viaggio tortuoso e malagevole - con il richiamo al «securum aevom», al tempo immobile, trascendente, indifferente all'umano, in cui dimora il divino.

La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.

«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).

Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.

«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».

Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.

Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.

«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.

Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».

Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.

«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».

Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.

Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.

Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.

Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.



Matteo Veronesi

martedì 29 settembre 2009

Anni di vento - Liriche di Enrico Besso - Il vento veste il verso di musica - di Patrizia Garofalo

La poesia di Enrico Besso è tutta attraversata da accesi e dolenti simboli sacrificali, di una corposità imponente, contratta, michelangiolesca (proprio michelangiolesca è l'icona del Christus patiens con cui il poeta oggettiva la propria esperienza del dolore). Ma anche la voce del dolore, così come il dolore stesso, è infine avvolta, e apparentemente vanificata, dal silenzio, che solca anche le pieghe dei sudari, e fa tralignare le piaghe e il martirio verso l'ultimo fantasmatico non senso. E allora non restano, ad esile, ma vitale ed essenziale, consolazione, che un delicato e finissimo decorativismo floreale, quasi liberty (fatto di fiori che sono parola e suono e insieme realtà, impressione sensoriale e nel contempo sostanza verbale e fonica), e il ricordo trepidante e malinconico, ora accesamente sensuale, ora assorto e chiaroscurale, dei momenti di armonia, di amore, di pienezza - che si fanno a loro volta parola, immagine e poesia, e poi ancora, forse, circolamente, silenzio e perdita. (M. V.)


Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.

La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.

“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.

Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.

Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.

E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.

Recensione di Patrizia Garofalo