Offro ai lettori, da una raccolta inedita di Pietro Pancamo, questo prezioso esempio di poesia silenziaria che, del silenzio, esplora le varie dimensioni: tanto il lirismo quanto l'amarezza, sia la crepuscolare perplessità sentimentale che il pianto e il grido trattenuti a fatica, così il raccoglimento interiore come il sorriso, o la risata, beffardi e disgreganti.
L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.
Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.
Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.
Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.
Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.
(M. V.)
Filosofia
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio
che smette, ogni tanto,
di pronunciare il vuoto.
Allora qualche indizio di materia
deforma l’aria,
descrivendo le pause del nulla
prima che il silenzio
si richiuda.
(Le mani s’infrangono
contro un gesto incompiuto)
Verande d’azzurro
I
Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza
prima di entrare nella moschea delle bocche.
II
I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine
indossano pastrani di luce.
III
Un gregge di bagliori
alle pendici dei versi
nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…
Canicola di gioia, tanfo d’allegria
negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità
negli acuti del sole
e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…
IV
Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…
Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno
intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi
festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.
Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…
V
Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.
Dal lievito nullo di rocce azzime,
paesini salgono
pioli di luce.
Poeti
Noi che visitiamo carmi di sole
brindiamo con versi e parole.
Scriviamo sorrisi
e sentimenti in codice;
insonni di vita
andiamo sposi
ai nostri occhi.
Se la tua voce
Se la tua voce desidera cullarsi
nel mio cuore,
troverò i sorrisi
con la mano di un giocoliere
e i miei minuti saranno il volto di acrobazie
che, da una mano all’altra,
volano fra una mano e l’altra.
Il destinorizzonte
Stracci di sonno coprono,
masticano il corpo della notte
diafano di tenerezza;
lo avvinghiano
sinuoso di buio
– flessuoso di membra stellate –
e lo attraversano d’amore.
Poi, fosforescente,
lo sguardo della nebbia,
scosso di stanchezza,
si espande lento nel cuore
come un gas di desideri
volatilizzati.
Mentre il mio destino,
guantato dalla notte,
scende nei sobborghi dell’anima:
strade oscure di pensiero
e siepi d’amore
s’intersecano nel mio nome.
Il destinorizzonte
s’attorciglia
a questa landa di tempo.
«Chi» – si domanda –
«striscerà nella roccia del canto
la gioia, turgida
come i seni di un fiore incantato?».
Parole dal silenzio
Ricorda il mistero
che fioriva in un sospiro,
dove la morte ha tessuto il nido
come una spiaggia
di parole taciute;
come un barbaglio di sogni trasparenti,
orchestra di anime perdute.
La fuga mancata
La voce trasuda parole d’accento piagato
ma è tiepido il grido del tuo respiro,
le piaghe troppo soffocanti
perché tu abbia il fiato d’urlare.
Morire da te
è una fuga troppo leggera
per avere il sollievo.
Così
un pantano di figure
nel cuore
e il giorno s’increspa
a raccogliere il tuo soffio.
Nausea
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un’orma di luce
imbavaglia lo spazio.
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venerdì 6 marzo 2015
martedì 20 aprile 2010
POESIE DI GIACOMO LERONNI
Di Giacomo Leronni, del quale ho recensito altrove la preziosa e lungamente meditata raccolta Polvere del bene, ho ora l'onore di pubblicare altri testi, che confermano l'indole essenziale della sua Musa e ne suggeriscono, forse, un ulteriore sviluppo (che non necessariamente segna, nella perpetua simultaneità, nella “contemporaneità di tutti tempi” direbbe Luzi, che è propria della vicenda poetica, una fase cronologicamente successiva, ma, piuttosto, una ulteriore, interna articolazione ipostatica, che avviene, avrebbe detto un filosofo, per autoctisi di una medesima identità creatrice).
Scavata nel silenzio, quasi dolorosamente aureolata, e insieme assediata, come in Ungaretti o in Celan, dal bianco del silenzio, del non detto e forse indicibile (del “Mistico” di Wittgenstein), è la parola del poeta: parola che sorge da profondità minerali, quasi da radici inorganiche o preorganiche, eppure oscuramente, immensamente vitali, come quelle che cela la terra ardua, grama, tormentosa, del suo Sud – e, insieme, strenuamente consce di se stesse.
Poesia notturna e, insieme, albale, aurorale: poesia della fine e dell'inizio, dell'Omega e dell'alfa, ciclicità dell'essere e dell'esistere risolta e distesa, però, nel discorso ciclico, progressivo-regressivo, nel respiro duplice e bidirezionale, del versus.
La “notte amica” di Ungaretti (ma prima ancora quella mistica e maestosa di Novalis) è, nella sua oscurità, fonte di luce: quella che pare pietra cieca è specchio, invece, colmo di stelle; se dapprima la notte è dimora dell'autentico, e il giorno mascherata di menzogna, nella polivalenza del dire poetico oscurità e luce, silenzio e voce si fondono invece in un nesso inscindibile e duplice. Il presente notturno della creazione poetica è un “presente eterno”, agostiniano e petrarchesco punctum temporis “a cui tutti li tempi son presenti”. E nelle rovine del tempio interiore possono celarsi l'acqua di vita e la nuova fioritura, ignorate, eternamente, preziosamente vive, anche se forse soltanto per se stesse (il tempio interiore di Dell'eterno in minuzie sembra alludere al Dio, senecano ed agostiniano, che abita in interiore homine; ma non è, qui, fatto oggetto di alcun culto: il Dieu caché, il Deus absconditus di Pascal invade con la sua presenza-assenza anche il sacrario dell'interiotià, e viene così ad essere manifestazione del subconscio, dell'abisso interiore, intentato e non lambito, a ben vedere, se non dalla parola poetica stessa). (M. V.).
LEZIONI DALL'OSCURITÀ
Dispongo le tempere
del giorno
poi le ripongo
il meccanismo
s’inceppa
ma io insisto
faccio forza
prevalgo
sorge l’alba
senza che alcuno
sappia
spingendo, tendendo
i muscoli
altre ore di falsità
sono pronte.
***
C’è un pozzo
una giberna per il silenzio
labbra come mensole
il tappeto delle rese:
un ricordo procura
la luce necessaria
un giuramento disorienta
spingo oltre il giudizio
a mezzo
del corridoio di tenebra
eludo l’agguato
della soddisfazione
l’approdo, il tatto:
questa la casa
il ricovero.
***
Opera incidendo
accade
essere frusto
che si aggruma
sasso
che sollecita la marea
a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe
lo descrivi
ma non è così
occulto
e colmo di stelle
potrebbe essere un seme
una spilla
è schivo
non comprende
perché caparbiamente
vuoi dargli un nome.
***
La notte
mi piega a sé
mi affida
la sua albagia:
è tardi
per mentirle
per ripagarla
con monete d’identità.
Sfolgora il pregiudizio
smania il corpo
presagendo la prova:
indosso
cellule esiliate
mi circonda
il buio presente di chi scrive
presente eterno.
***
Non sono più io
ma il male
che m’interroga
l’assurdo che impatta
grumi terrestri
il picchio del male
che indaga se stesso.
Non sono io
sono un dito di morte
lava che squadra
l’abisso
rifugio improvvido
in cui archiviano preghiere
le mie malnate
foglie verdi.
***
Dentro tace il presente
si apposta
si fa vena
scorgo un taglio
è loquace
fuori chiamano
nitidamente
sboccia ripetuto
un nome
ancora dentro
l’ora è già smalto
cellule si stirano
sono dietro l’angolo
mi vedo
oltre il gomito
caudato delle stelle
invischiato
invocato
per portare buio.
***
Risalgo l’alba
la luce che sgorga
da un nucleo minuscolo
il fiore dell’insidia.
Ad ogni approdo
inatteso sostegno
una cipria di vittime
il cui fervore dispensa
dalla visione.
Procedo
per la febbre
che s’impenna
senza l’obbligo del grido
fino all’ottusa vena
che concepisce.
***
Il ricordo è il mattino
che s’innalza
da ogni parte
è una fionda
una sberla
per le ansie
scuce il presente
lo spezzetta
si aggiudica il mare.
Il ricordo:
un’aurora salda
un guizzo di parole
tessute con cura
abbaglianti
e già sconfitte.
***
Case adulte
lance di necessità
guglie, tronchi
di pietra:
la vetrata del cielo
ricomposta
porfidi insondati
capaci di canto.
La pena è elusa
il ricordo s’incasella:
torna la città
al martirio sonoro
la sera reca l’ambra
le strade vibrano
dolci come nomi.
***
Ecco la sera
è questo il suo nome
un acero il seno
derma viscoso
ecco parla
ed io registro
arrivo da voi
piccole mosche
che trattenete il fiato
arrivo licheni
più gagliarda
dal precedente abbraccio
non posso fermarmi
scivolo
per chine taglienti
resisto gioconda
per accompagnare
tutto questo legno
di ore
ad ardere.
***
Niente può separare
la luce dal chiodo
la cattura è definitiva
la mente ne ripercorre
l’eco
e s’intorbida.
Sfrigola il fiore
della pena, lucida
le sue barricate:
niente può separare
l’ombra dalla meta
la folgore dall’orgoglio
e c’è chi con i passi
converte il buio
un bambino di prato
un adulto
che scalcia la gravità
niente può arrestare
il cuneo che avanza
una nudità dopo l’altra.
***
Quanto cercare
dopo il primo colpo
ci sono altre strade
il pruno le impara
i sassi apprendono
un codice sapiente
invece si insiste
si cerca il privilegio
inguainato nel buio
si bussa
a porte di geranio
si urtano frasi
di terra pavida
ci sono altre fronde
le percorre la luce
dritto davanti a noi
o appena indietro
un coro di spasmi
da cui semplicemente
attingere.
***
SINE DIE
Mente
che si scompone
in altra mente
resina
incisa dalla luce
o piega
di creatura assorta
nella notte indulgente
mente
china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero
e formularne il nome
l’essere
in spirito e assenza
e intorno fanfaluche
esitazioni
esecuzioni.
***
DELL’ETERNO, IN MINUZIE
1.
Frasi d’ambra
giorni affogati in altri giorni
d’eccellenza o incuria
erba esiliata sul colle
oltraggiato fino al midollo
poi rappreso
per l’incontro in vista
pietre che rigano la fedeltà
gonfie di tutto il sentire
gli approdi, la futilità
dell’eterno in minuzie
parole affastellate, trascorse
il tempo di girarsi
di accostare il vuoto che fruscia
lampo su lampo
scossa dopo scossa
eccolo annotato, siglato
il luogo non-luogo
il senso imperscrutabile
di tutta questa luce che non sazia.
2.
Replicare passi sconsacrati
scarni i tratti, le tracce
arenate
del cuore che sgombra
più vivo per questo
l’ansimare della storia
più acuta l’intrusione
dei sensi
fra vite sepolte, riemerse
dove le pietre si flettono
e l’incanto recalcitrando
si spegne.
È in questa voce che attendo
i tuoi occhi, i margini d’osso
i muschi
fra l’occulto e l’esploso
nella città inerme
che mi abbraccia
nei ruderi
di templi interiori
che nessun culto ha mai sfiorato.
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mercoledì 24 marzo 2010
LA POESIA DI GIACOMO LERONNI FRA DIVENIRE E "SECURUM AEVOM"
L'Iter Brundisinum di Orazio si apre con la visione, lontana ed impassibile, di aridi «candentia saxa», per poi chiudersi - dopo gli accidenti variegati, ora grotteschi ora lascivi, di un viaggio tortuoso e malagevole - con il richiamo al «securum aevom», al tempo immobile, trascendente, indifferente all'umano, in cui dimora il divino.
La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.
«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).
Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.
«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».
Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.
Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.
«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.
Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».
Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.
«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».
Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.
Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.
Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.
Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.
Matteo Veronesi
La poesia fiorita in Puglia (e più in generale in vaste aree del Mezzogiorno) - la «cospirazione provinciale», autonoma ed antitetica rispetto alle correnti dominanti, che remotamente la sfiorano ed insinuano in essa la propria eco perturbante e filtrata, di cui parlava Vittorio Bodini - è germinato proprio da questo terreno arido e duro, ma per tal ragione appunto propizio a solide ed antiche radici. Un'aridità feconda, un torrido refrigerio intellettuale che rappresentano la vera cifra espressiva della tradizione poetica Apula (su cui si può vedere l'antologia, curata da Daniele Maria Pegorari, Puglia in versi, Bari 2009), la quale trova anche nello stesso dialetto locale - ellittico, densissimo, scontroso, aspro, e proprio per questo consono, come pure quello calabro, alla vena moderna - un idoneo rispecchiamento.
«Delle radici è luce la figura / del nascere e del crescere, ed è ombra / solare ogni sua pausa che cattura / la densità del fiore e della tomba», scriveva Girolamo Comi, orfico e cosmico. «La vita per strade d'ombra rotola / con la stessa sembianza in cui si sgretola / il tempo», canta Luigi Fallacara: il paese del sud, con le sue controre, i suoi chiaroscuri, i suoi meriggiari, è figura temporis, immagine visiva e spaziale dell'eternità che si assottiglia e percola e fluisce nel divenire dei giorni e dell'esistenza. «Tra la mota erosa e una dolomia l'abisso si apre», dice Salvatore Ritrovato: la Terra-Madre, la Ur-Heimat può divenire, per epifanie negative, per neri bagliori, allegoria dell'Abgrund, dell'esistenzialistico Abisso. Il dialetto è lingua, idioma limpido della culla-tomba, come appare evidente dai dialettiali: ad esempio nella visione sepolcrale di Grazia Stella Elia («ammicche / de la véte e dde la mörte», «andechetà ca parle / jind'a sti grütte»).
Nell'antologia citata (dalla quale sono tratti tutti i pochi frammenti, meramente esemplificativi, che precedono) Giacomo Leronni è presente con un testo (Dell'eterno, in minuzia a Monte Sannace) non incluso, invece, nel libro (Polvere del bene, Manni, Lecce 2008). Ma proprio quel testo offre spunti decisivi per l'interpretazione del suo mondo poetico.
«parole affastellate, trascorse / il tempo di girarsi / di accostare il vuoto che fruscia // lampo su lampo / scossa dopo scossa // eccolo annotato, siglato / il luogo non-luogo / il senso imperscrutabile / di tutta questa vita che non sazia». Il paesaggio si fa testo, e il testo paesaggio, paesaggio di parole e di segni: sistemi, l'uno e l'altro, di segni appunto, di tracce, di schegge, di «broken images» direbbe Eliot, invasi e abbacinati da una luce annichilente, assoluta, intemporale - come la montaliana «gloria del disteso mezzogiorno».
Poesia essenziale, necessaria, rastremata, quella di Leronni, germinata da un paziente, rigoroso e silenzioso limio, protratto negli anni, vòlto a conseguire la compiutezza, l'esattezza - un «hostinato rigore», avrebbe detto Valéry lettore di Leonardo -, concettuale ed espressivo, senza però perdere in suggestione e portata evocative.
Versi, questi, in cui parla, per così dire, una modernità assoluta, e l'assoluto della modernità - una sorta di Novecentismo trascendentale (da Rilke a Celan, da Montale a Luzi, ma con il maestro Mallarmé, «monument en ce désert, avec le silence loin», sullo sfondo, alle origini e alle radici) assunto a contemporaneità perenne, quasi senza tempo e oltre il tempo.
«Quante cose strane e quanto vane / la vita cuce a sangue ad una ad una». «Non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani», diceva il bergsoniano Montale. La deriva dei segni sembra rispecchiare una deriva, una frantumazione spazio-temporale, una nullificazione del senso.
Eppure, con lucido ostinato paradosso, il senso dell'esistere continua ad essere riposto in quella stessa poesia che sembra denunciarne l'assenza. Nella malattia è già inscritta la cifra del rimedio. Il senso è, infine, il proprio stesso vuoto, il proprio stesso dileguo (il che si riflette anche in certi iati, in certe sospensioni, aritmie, apnee, della scansione metrica). «Scrivi, cingi il giorno con frasi / di buio. / (...) Scrivi almeno tu, frenetico / la mirabile vita assente». Rivive qui l'imperativo alla scrittura come testimonianza di una ricerca di senso nel Fortini di Traducendo Brecht: «Nulla è sicuro, ma scrivi» - insieme alla tragica ambiguità dantesca della luce fasciata dall'oscurità, del globo di intellettuale fuoco «ch'emisperio di tenebre vincìa».
Eppure, proprio quel fuoco, quella metafisica pira coronata di nulla cela e cova la «polvere del bene». La «brace dell'alterità» può rivelare l'eccesso, la trascendenza del securum aevom, del tempus illud, della temporalità metafisica rispetto a quella immanente e transeunte. «Il rogo morde, il rogo è puro», come nella consunzione espiatoria del Luzi di Las Animas.
«Nella polvere del bene / quando splende la morte rigorosa / ti ritiri con un soffio, affili / l'alba della parola». La parola nasce da una «morte rigorosa», da una lucidissima eclisse del soggetto, da una, avrebbe detto Mallarmé, «disparition élocutoire du poète», il quale, sia pure in modo deliberato e vigile, «cede l'iniziativa alle parole», alienandosi nella pagina. E proprio da questa lucida e razionale morte mistica la parola poetica riceve vita - «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie».
Poesia aspra, scontrosa, petrosa, che sulle prime mette in difficoltà il lettore. Ma, come il Sileno di Socrate, il discorso racchiude una sua anima aurea, un suo prezioso nucleo di rivelazione, un suo durevole contenuto di verità.
Del pari, «poesia del silenzio», che ricerca la verità e approda all'assenza, al deserto dei giorni, alla nudità delle cose abbandonate a se stesse in una luce svelante e svelata. Eppure, come detto, dopo il rogo purficatore, rimane la polvere del bene. C'è una sorta di Kenosis, di svuotamento, che prelude alla pienezza, una privazione che prepara alla grazia, come la quiete si dischiude al canto. Nondimeno, questa poesia resta tutta annodata e raccolta intorno ad un segreto insondabile, ad un nucleo duro di imperscrutabilità che il lettore e il critico possono trovare imbarazzo a concettualizzare ed esprimere.
Discorso, quello di Leronni, che pure sembra rifarsi ad una certa linea di ermetismo e di modernismo meridionali, da Sinisgalli a De Libero, da Calogero a Cattafi, ma che del pari dà la sensazione, pur con tutto il suo spessore, la sua densità, la sua con sapevolezza culturale, la sua ricchezza di sommersi sovrasensi, di essere nata da sé, dal nulla, come un fiore dalle pietre. Ma, certo, questa essenzialità è frutto di un lungo labor limae.
Forse, il significato ultimo della poesia di Leronni sta proprio in questa assenza, o inafferrabilità, del significato stesso. Essa però comunica non il suo mero esser-se-stessa, ma anche il suo esser-altro, e se-stessa-in-altro - non la propria matericità di suoni e sillabe, il suo mero autonomo significante, ma, al contrario, proprio la molteplicità inesauribile ed inafferrabile dei suoi significati, variegati e sfuggenti come quelli stessi della vita. «Cose strane e vane», «mirabile vita assente»: insomma il leopardiano «arcano mirabile e spaventoso» dell'esistenza, come del linguaggio. Nominare, o meglio evocare, questo mistero è uno dei ruoli eterni del poeta.
Matteo Veronesi
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martedì 29 settembre 2009
Anni di vento - Liriche di Enrico Besso - Il vento veste il verso di musica - di Patrizia Garofalo
La poesia di Enrico Besso è tutta attraversata da accesi e dolenti simboli sacrificali, di una corposità imponente, contratta, michelangiolesca (proprio michelangiolesca è l'icona del Christus patiens con cui il poeta oggettiva la propria esperienza del dolore). Ma anche la voce del dolore, così come il dolore stesso, è infine avvolta, e apparentemente vanificata, dal silenzio, che solca anche le pieghe dei sudari, e fa tralignare le piaghe e il martirio verso l'ultimo fantasmatico non senso. E allora non restano, ad esile, ma vitale ed essenziale, consolazione, che un delicato e finissimo decorativismo floreale, quasi liberty (fatto di fiori che sono parola e suono e insieme realtà, impressione sensoriale e nel contempo sostanza verbale e fonica), e il ricordo trepidante e malinconico, ora accesamente sensuale, ora assorto e chiaroscurale, dei momenti di armonia, di amore, di pienezza - che si fanno a loro volta parola, immagine e poesia, e poi ancora, forse, circolamente, silenzio e perdita. (M. V.)
Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.
La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.
“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.
Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.
Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.
E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.
Recensione di Patrizia Garofalo
Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.
La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.
“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.
Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.
Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.
E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.
Recensione di Patrizia Garofalo
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