Pubblico qui la versione originaria e integrale del mio scritto recentemente apparso a stampa, in forma abbreviata e semplificata, come premessa alla riedizione del saggio Mallarmé di Mario Luzi. (M. V.)
Ne 1952 esce, da Sansoni, Studio su Mallarmé di Mario Luzi. Nel 1987 Giuseppe Grasso, allora direttore della collana di varia umanità «La Scatola Magica», lo ripubblica con una emblematica Avvertenza dello stesso Luzi, in cui veniva ridefinito il posto che in esso era stato negato all’Après-midi d’un Faune. Oggi il volume viene qui riproposto (oltre che con una preziosissima e dimenticata intervista, dalle rivelatrici venature idealistiche ed hegeliane) con quella storica Avvertenza, della quale si riproduce anche il dattiloscritto, testimonianza diretta della fervida officina del poeta (dove, per inciso, una sia pur minima variante, da "come dovrebbe" a "come forse dovrebbe" – mentre lo stesso avverbio dubitativo appariva già appena due righe prima –, riferita proprio alla riparazione riguardante l'Après-midi, mostra pur sempre un pensiero in costante divenire, che anche in sede critica, e fino alla soglia dell'ultima revisione, non esorcizza mai del tutto l'alea, il forse, del coup de dès, senza cui la scrittura si irrigidirebbe, quasi, nel gelo irredimibile di un destino già tracciato).
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mercoledì 26 dicembre 2018
martedì 25 settembre 2018
"Five years, no tears". Massimo Sannelli dopo Neuromelò
(con le grafiche dell’autore e una foto di Fabio Giovinazzo)
Lotta di Classico, Genova 2018, pp. 80 (non numerate)
a cura di Elisabetta Brizio
Sono già cinque anni: nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto.
Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?
Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce, e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo lei chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica, o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo ambito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è cosí, è inutile andare avanti...
martedì 10 gennaio 2012
UN INTERVENTO DI GIUSEPPE FEOLA SU POESIA E CONOSCENZA
Molte delle voci più significative della giovane poesia italiana scaturiscono - fatto che mi sembra degno di nota - da ambienti accademici legati all'àmbito logico-matematico: penso a Lorenzo Carlucci, ad Alessandra Palmigiano. Anche la poesia ha una sua logica (la "logica poeziei" teorizzata nell'Ottocento da Alexandru Macedonski), che non si identifica certo con la logica ordinaria, né con le logiche formali, né con alcuno dei modelli di logica elaborati a livello scientifico ‒ ma che non si risolve, o dissolve, neppure nel pulviscolìo indistinto, nell'atomismo informe dell'espressione caotica, casuale, non motivata. La poesia è anche una forma di conoscenza, e come tale presuppone e sottende modelli gnoseologici, modalità di percezione e rappresentazione del mondo, del pensiero, dell'Erlebnis. Di ciò è testimonianza anche questo intervento di Giuseppe Feola, del quale ho proposto precedentemente alcuni testi poetici di prossima pubblicazione in volume. (M. V.)
Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".
Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.
Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.
Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.
Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.
Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.
Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".
Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.
Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.
Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.
Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.
Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.
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sabato 13 febbraio 2010
LA POESIA FRA IMMAGINAZIONE E SCIENZA. DOMANDE DI PATRIZIA GAROFALO A PAOLO RUFFILLI
Sollecitato dalle domande acute e simpatetiche dell'intervistatrice, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei rivela alcuni nuclei essenziali della sua concezione. In particolare, nella sua visione la lettura scientifica del mondo si fonde con quella poetica. Lo spazio-tempo in cui si muove l'immaginario del poeta è quello di Einstein, dilatato fino ai confini del cosmo curvilineo, finito ma illimitato, e ricorsivo, tornante su se stesso fino a fondere idealmente infinita lontananza e infinita compresenza del medesimo a se stesso (chi fissasse il confine estremo dell'universo, chi davvero cogliesse “l'ultimo orizzonte”, vedrebbe la propria nuca, così come la parola poetica torna a se stessa e riflette se stessa dopo aver teso a trascendersi, aver tentato di abbracciare l'illimite).
La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.
La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.
«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).
La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).
L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?
La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.
L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?
Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.
“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?
Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.
La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?
Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…
Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?
Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.
La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?
Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…
Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?
Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.
Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?
Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.
Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?
Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.
Per acquistare il libro:
http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-ruffilli_paolo/sku-12787645/le_stanze_del_cielo_.htm
La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.
La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.
«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).
La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).
L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?
La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.
L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?
Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.
“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?
Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.
La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?
Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…
Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?
Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.
La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?
Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…
Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?
Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.
Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?
Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.
Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?
Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.
Per acquistare il libro:
http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-ruffilli_paolo/sku-12787645/le_stanze_del_cielo_.htm
lunedì 8 giugno 2009
"In quel punto entra il vento: l’inattualità di Remo Pagnanelli", di Elisabetta Brizio
Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!
Paul Valéry
Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli
Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.
Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.
Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.
Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:
tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.
Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.
Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.
Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):
finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento
Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.
“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.
Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.
Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.
Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.
Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.
Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.
Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.
Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.
Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.
Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.
Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.
Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.
Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.
Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.
Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.
La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.
Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.
Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.
L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.
Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.
Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”
Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.
Elisabetta Brizio
maggio 2009
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).
Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
Opere di e su Remo Pagnanelli:
http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=ALL&q=remo+pagnanelli&submit=Invia?a=328366
Paul Valéry
Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli
Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.
Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.
Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.
Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:
tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.
Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.
Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.
Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):
finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento
Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.
“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.
Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.
Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.
Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.
Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.
Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.
Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.
Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.
Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.
Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.
Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.
Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.
Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.
Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.
Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.
La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.
Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.
Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.
L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.
Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.
Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”
Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.
Elisabetta Brizio
maggio 2009
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).
Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
Opere di e su Remo Pagnanelli:
http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=ALL&q=remo+pagnanelli&submit=Invia?a=328366
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