Visualizzazione post con etichetta suicidio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta suicidio. Mostra tutti i post

domenica 11 settembre 2011

PER MASSIMILIANO CHIAMENTI, UNA VITA E UNA MORTE NEL SEGNO DELL'ANTIFRASI

Conoscevo Chiamenti (filologo e poeta da poco toltosi la vita nella sua casa di Bologna) solo per i suoi studi danteschi. Che erano incisivi, rivoluzionari, metodologicamente rigorosissimi, eppure antiaccademici nelle conclusioni: quando, ad esempio, dimostrava inequivocabilmente, contro Maria Corti, che non c'è, in Dante, una chiara presenza intertestuale del Liber Scalae; o quando parlava, in modo sorprendente, con solide argomentazioni, di un "Dante sodomita" (io parlerei piuttosto di un Dante ermafrodito, nel senso in cui Guinicelli dice, in modo a sua volta controverso e polisemico: "Nostro peccato fu ermafrodito", o comunque androgino, ambiguo, oltre, nella sua sublimità, ogni identità sessuale, onde a Forese rivolge quelle parole indecifrabii: "Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e quale io teco fui").

Ecco, la stessa polivalenza, la stessa ambiguità si trovano nella figura di Chiamenti; e anche la sua morte è sotto il segno dell'antifrasi. Vuole il luogo comune che chi dice di volersi uccidere non lo farà. E' vero l'esatto contrario: tutti i suicidi sono preceduti da un annuncio che è anche richiesta d'aiuto. La quale non esclude il desiderio di morire: il suicida ama la vita, si uccide, forse, per troppo amore della vita, per l'impossibilità di vivere la vita che vorrebbe, o di vivere la Vita in assoluto, senza limitazioni e senza barriere e senza compromessi, nella pura luce di una gioia impossibile. La leggenda secondo cui chi dice di volersi uccidere poi non lo farà è nata dall'inconscio desiderio di deresponsabilizzarsi, di non sentirsi obbligati ad intervenire, di non avvertire lo schiacciante e soverchiante obbligo morale di fare qualcosa per aiutare la persona che soffre, per impedirne e scongiurarne la morte.

Del resto, nessun suicidio può essere evitato. La pulsione di morte vince ogni ostacolo, spezza ogni barriera. Persone chiuse in una stanza si fracassano la testa contro le pareti; persone legate ad un letto cessano di respirare finché il loro cuore non si ferma.

L'atteggiamento di chi ignora le dichiarazioni di intenti suicidi è perfettamente umano. La vita vuole solo la vita, non vuole, inconsciamente, sentirsi inquinata, insidiata e turbata da forze contrarie, oscure, devastanti. Orfeo si volge, alle soglie dell'Ade, perché la sposa è ormai stata contaminata dalla morte, e non può più camminare e respirare nel mondo dei vivi. "Dal morso di vipera dell’immortalità / la passione di donna prende fine. / È già pagata - ricorda le mie urla! - / questa distesa estrema. / Orfeo non deve scendere a Euridice. / I fratelli - turbare le sorelle". Così la Cvetaeva.

In una sua poesia, Chiamenti gioca a fare la donna, anzi la Madre, "madre introita". Perché la Morte è donna, è il fondo oscuro, la materia umida, l'"orrido borro", dice ancora Dante, da cui sgorga la vita, e a cui la vita vuole tornare per spegnersi; e in cui, per contro, il seme vitale vuole stillare e sprofondare, per dare alla luce una nuova vita che sarà a sua volta preda della morte, in una catena senza fine. Nella sua stessa ostentata e letteraturizzata diversità, nella sua indecidibile ambiguità sessuale, per il modo stesso in cui le viveva, Chiamenti corteggiava la morte. Che infine l'ha accolto.

Non si può estetizzare la morte. È blasfemo. Eppure la letteratura (di per sé lettera morta, discorso postumo, voce che continua a parlare, indefinitamente, dopo la morte di chi le ha dato forma) non fa altro, a ben vedere, anche quando celebra la vita.

"Resterà solo la voce arcaica del cantore". "Io liberò felice ai superi / con i calici di ambrosia". Così dicono alcuni versi di "Viva la morte", insolitamente sublimi e classici in un poeta così spesso crudamente realistico. Ora, senza retorica, il suo voto si è adempiuto.

mercoledì 5 agosto 2009

PATRIZIA GAROFALO, “ANTONIA POZZI E LA POESIA DELLA MONTAGNA”

«Non monti, anime di monti sono / queste pallide guglie, irrigidite / in volontà d'ascesa», scriveva Antonia Pozzi in Dolomiti. Forse, aggiunge in Prati, la vita è «un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza». Ecco, questo era per lei la montagna amata: paesaggio interiore e correlato oggettivo, riflesso e proiezione di uno slancio intellettuale e spirituale che voleva – in lei, coltissima al di là degli appassionati e un poco ingenui slanci, allieva di Antonio Banfi, e lettrice di Husserl e di Heidegger, di Mallarmé, di Hölderlin, di Rilke - muoversi entro il vasto spazio, sulla vertiginosa voragine che separava l'esser-ci dall'Essere, marcando la differenza ontologica - proiettare il convulso, apparentemente informe flusso delle “esperienze vissute” nell'assolutezza del piano eidetico, di una “soggettività trascendentale” che potesse investirle di un valore perenne senza privarle, per questo, della loro mobile vivezza, della loro problematicità tormentata.
La poesia non era evasione idealistica o rifugio estetizzante, ma, fenomenologicamente, esistenzialmente, aspro, angoloso travaglio del pensiero e del linguaggio, antitesi dialettica (come si legge nella lettera a Gadenz del 29 gennaio 1933) «tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire», «forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l'urgere del fluire divino» (e vi è, qui - in questa tensione fra il libero flusso della vita e della coscienza e la fissità delle forme che lo soffocano e lo frenano, e nelle quali, nondimeno, quel flusso non può che cercare di fermarsi, per trovare consistenza e manifestazione -, qualcosa di Focillon come di Pirandello, di Simmel, di Bergson - insomma tutta un'atmosfera concettuale comune al panorama culturale dell'epoca, e fusa, forse, all'influsso dell'immaginario mistico, per la sottesa icona della “luce fluente della divinità”, del “lume in forma di rivera”). Ma ogni cosa che uscisse dalla penna di Antonia Pozzi era - anche quando intellettualmente mediata - espressione sofferta, sentita e dolente della sua esperienza esistenziale, del suo vissuto, della sua “individualità infelice”. Ciò vale addirittura per la tesi su Flaubert, attraversata dal conflitto dialettico, che fu anche della Pozzi, fra sentimento e realtà, soggettività che si autotrascende e “mondo della vita”. E anche nella tesi si incontra la simbologia e l'àmbito metaforico dell'ascesa montana come ascesa esistenziale (si pensi anche al Petrarca della salita al Ventoso). C'era, nell'opera flaubertiana, una «incessante tensione trattenuta che la colloca come in un'atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale».
Quel gioco mortale, quella sottile, vibrante e precaria oscillazione fra letteratura e vita, fra pensiero e destino, Antonia li esperimentò e li consumò fino in fondo: fino al punto in cui s'infranse la «corazza di Ariel», la difesa della parola poetica e della stilizzazione estetica, e la sua esistenza si risolse, e dissolse, nel suicidio, come esito estremo, e forse più coerente - inevitabile prezzo da pagare, forse, per la sua estrema, purissima e disperata «probità di spirito», inconciliabile con la durezza e l'ingannevolezza del mondo, che Eliot loderà in lei.
Come Hölderlin ai piedi delle Alpi, anche Antonia avvertì la «sacra innocenza» agli occhi della quale «tutto è puro», e seppe intendere e cantare – prima che il suo fluire si perdesse nel Tutto - «i linguaggi del cielo».
Bene fa Patrizia Garofalo, in queste sue pagine intense e suggestive, a citare La montagna incantata di Mann – in cui l'ascesa, la lontananza da terra, il volo, paradossalmente, senza staccare i piedi dal suolo, sono spazio emblematico della sospensione del tempo, dell'oblio, della libertà – come la morte.
Infine, lo specchio della poesia si infranse. Le parole erano vetri che, pur se infedelmente, rispecchiavano il cielo dell'anima. «Una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume». «Sia / nei fiori dei monti / il sepolcro / degli astri spenti». Come in Mallarmé, si era sgretolato l'esangue e fragile miroir di Erodiade, e non restava più che la cendre des astres di Igitur, il polveroso mormorio dei fantasmi sublimi, del celeste niente.


(M. V.)






“E' difficile spiegare la poesia infinita della montagna; forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima nostra, libero da ogni pensiero terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze… e nella intima comunione con la severa ed alta natura, ci si rivela quanta gioia ci sarebbe purissima nella nostra vita, se sapessimo ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose proprio grandi e belle” (Guido Rey, 17 Agosto 1898).
Scalatori e Al sole delle Dolomiti sono due testi che mi hanno sempre accompagnato, rivelazioni di un mondo più vicino al cielo che alla terra, dove si sperimenta e si vive creativamente l’abbandono dei ritmi della vita e il perdersi nel flusso di un tempo straniero alle sovrastrutture e foriero di svelamenti improvvisi, di incantamenti e spaesamenti, di ricerca, di ipotesi sacrali, del silenzio che apre il varco alla parola non peritura. Quando e come, dalla vertigine del buio, la parola conosca la sua epifania nella poesia non è dato saperlo, ma è proprio nella dimensione dell’“inesprimere l’esprimibile”, secondo Roland Barthes, e nell’atto di scoprire una “parola seconda” e altra che consiste l’agito poetico; contro l’obsoleto e l’usura penetra il foglio e lo scolpisce per sempre rimanendo memoria e suggestione meravigliante. E’ quanto accade nell’incontro tra Antonia Pozzi e Tullio Gadenz, un'”amicizia” fuori dal tempo e nel tempo, nelle cose e nella loro sublimazione che orchestra anche la morte ad una percezione d’eternità e trasmuta la gnosi in una pratica sacrale. Come nel “cantico dei cantici”, tradotto dall’ebraico nella trasposizione poetica di Agostino Venanzio Reali, si auspica un futuro nell’ampiezza celeste, vicino alle montagne, così nell’epistolario dei due poeti si delinea l’ipotesi salvifica di un’esistenza defilata che penetri il senso dell’esistenza stessa.

Amato –“ Tu che soggiorni dentro un paradiso
fammi la tua voce riudire
Amata – Tornami a sembrare, amato mio
un cervo, un capriolo sui profili
dei monti che fragrano, viola.”

Antonia Pozzi – “ Radici / profonde nel grembo di un monte / conservano un sepolto
segreto / di origini – e quello per cui mi riapro / stelo / di pallide
certezze”.

Tullio Gadenz – “Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera / la più
Profonda / Radice.”

Incontri di intensa tonalità, di totale reciprocità e incanto che preludono ad una intesa più ampia e totale e totalizzante che dall’aleph della terra abbraccia tutto il creato fino all’immagine sinestetica del profilo dei monti che “fragrano” viola.

Forte il desiderio che in Tullio Gadenz vede, non a caso, la maiuscola in ogni a capo a connotare ogni incipit come nuova nascita, forte in Antonia Pozzi nella reiterazione della parola “grembo”, dal quale si ripartoriscono le stagioni in una verginità non concessa agli uomini, ma sperata nelle lettere dell’epistolario come intenso vissuto di una poesia che conosce e sa il dolore eppure suona la musica del “per sempre”. Perché la poesia, per definizione, ha carattere di eternità.
Un epistolario pubblicato postumo si offre ad un contatto più diretto con il lettore, a una scrittura meno mediata; “spogliata dal trucco”, la parola di Antonia è affidata alla meraviglia di aver conosciuto un poeta e il poeta dalla prima epistola consegnerà ad Antonia parole di commozione e di gratitudine: “ il suo ricordo non tramonterà”. Lo scritto è breve, intenso e in esso colgo la stessa modalità di “scrittura scolpita” che Tullio Gadenz imprimerà ai suoi versi, mai “rotondi”, se vogliamo ricordare un termine caro a Quasimodo .

“Lei non sa, Tullio. Lei forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato “la scoperta” meravigliosa di lei... Il libro vivo di un’anima, non finisce mai … per chi non vede più che un colore di tramonto, per chi ancora beve l’incanto delle cose, ma non sa, non può… tradurlo più in parole, ah Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che sprigiona il nostro stesso canto inespresso… perdoni questa mia trasognata lettera… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Segna le lettere un avvicendarsi di poesia a due voci .

La situazione dolorosa della poetessa. mai dettagliata nei fatti contingenti, si offre ad una sospirata catarsi nei versi del suo poeta, dei quali si elegge vestale grata e commossa e proprio nella commozione di entrambi si vivifica l’urgere di un risanamento nell’altro. Versi epistolari vibrano la parola secondo spartiti accordati, insieme alla percezione quasi tattile di un altrove, di una erranza, di un incanto che si definiranno in tonalità espressive scandite da un climax ascendente, e in gesti compenetrati dalla cosciente consapevolezza dell’eccezionalità del loro essere insieme - voce all’unisono, risonante eco tra le dolomiti incantate.

“Al cimitero nessuno era andato da tempo; il sentiero era quasi intatto, la neve all’interno era così tesa ed immacolata, che non osai imprimerla del mio passo (solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole più tristi), colsi da un pino un ramoscello a forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via… il mio sfiorire non mi doleva più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose. Così mi è rimasta nel cuore la sua S. Martino… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Un passo silenzioso sul camposanto di guerra davanti al quale la poetessa, per non violare il manto di neve intatta, calda consolazione ai morti, pone un rametto a forma di croce sul cancello senza entrare. Sapremo nella lettera che segue di pochi giorni che sarà Tullio Gadenz a trovarla a terra e a porla sulla croce “alta e bianca” del camposanto in una singolare sintonia di gesti che avvicinano sempre più entrambi alla condivisione della sacralità del vivere e del morire.
Una riflessione smarrita e incredula, una sorta di spaesamento sulla pace dell’oltreumano lo induce a chiedere: “ho avuto l’impressione che anche la pace dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero Lei non crede che tutti i viventi si precipiterebbero verso la morte?”. L’interrogativo viene distratto dalla riflessione, forse anche per il ruolo consolatorio che il poeta si sentiva di avere nei confronti di Antonia, e resta un inciso nella lettera che tanto rimanda alla “montagna incantata” di Mann; stelle impigliate ai vetri e la scoperta mattutina di uno splendente giardino di ghiaccio appena svegli, quando ancora il sonno favorisce il prolungamento del sogno in veglia, insieme alla percezione della mano amata che pone una croce in cima ad un abete, riequilibrano le antinomie tra vita e morte.

Lassù, in montagne dove cielo e cime sembrano volersi congiungere, anche le stelle bussano alle finestre e sembrano riflettere bagliori nel caleidoscopio dei riflessi brillanti e ghiacciati, “incantati”, vergini di pianure che ne “profanerebbero” il candore sporcandole di fango, noia, dolore, costrizioni. Neanche i fiori resistono in pianura uccisi dal freddo e dal loro essere, in altre parole, “essenzialmente” fuori posto. Il silenzio risuona di parole nella melodia degli uccelli nei boschi che chiude la lettera: “non si dimentichi di me”.

Ricordarsi reciprocamente, questo si chiedono ad ogni lettera nell’accezione più compiuta di questo termine, rimandare al cuore il significante che nel suo esistere si nutre anche del timore della fine insieme al desiderio che niente di amato possa essere tradito dal cuore che - scrigno di sentimenti - custodisce attimo dopo attimo per un futuro di memoria, un album di fotografie dell’anima, un canzoniere di liriche “dove solo l’anima pareva poter camminare”.
E’ del 18 gennaio la dichiarazione di Antonia di un dolore pressante. “Sapere la mia piccola croce così in alto sopra i soldati morti quasi mi sgomenta: tanto sono avvezza, ormai, a sostare ai cancelli, così della vita come della morte, ed a sentirmi un po’ come quei giunchi che guardano le acque passare e tremano, sempre infitti nella stessa bassura”.

Tullio le risponderà con un piccolo ritardo di cui si scusa con una modulazione ritmica di parole che entrano nel profondo, affondano nel dolore quasi per ritrovare e donare forza, accarezzano un “tu” confidenziale insieme allo stelo fragile che desidera carezzare e ascoltare. “In questi giorni ho dimenticato anche di esistere. Sono salito su altissime montagne… scendendo a casa mia con la tormenta o con il vento, ho visto fiorire molto nel profondo le stelle… però non ho smarrito la strada che conduce a lei… anch’io voglio essere la piccola, fragile onda che sbatte lievemente a quelle canne… parla l’anima mia - ed accarezza quegli steli che tremano. Mi comprendi, amica?… sorga la tua voce - ad annunciare che qualcuno è nascosto nel silenzio - e nel mio cuore il sole nascerà”. Come non pensare al sogno di Hans Castorp nella tormenta, nel capitolo “Neve” dello Zauberberg? Il quale tuttavia esce da questa esperienza con la convinzione che non bisogna “concedere alla morte il dominio sui pensieri”.

Nella risposta di Antonia un’altra dichiarazione che si aggrappa all’eternità delle alture ed infrangere quel diaframma che Mann chiamava impegno etico dell’uomo verso la pianura: il quale nondimeno può essere avvertito e penetrato solo in una posizione, si diceva, defilata, in un assorto estraniarsi dal tempo e dalla memoria.

Dio è infinito e si esprime in forme che vivificano senza sosta, è un Dio vissuto nelle cose, nel creato, in un panteismo intensamente spirituale che vede nella poesia la conoscenza più alta e la più forte sintesi tra “lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire”; e i sentimenti, il silenzio si fanno sbigottimento, parola lirica estasiata, e cancellano il contrasto e il confine fra sogno e realtà: “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”.

Scoprire Dio nella vita prima di giungere a Lui, “far uscire le cose dall’ombra”, abbracciare dolore gioia e amore: “Mi piace raffigurare me stessa come un capriolo pauroso che disegni di piccole ombre la neve… mi mandi presto un altro dono che sappia d’azzurro.”

Entrambe le epistole sembrano lievitare all’eterno pani sacri anche in sofferta ascesa.
Il disagio di Antonia appare nondimeno senza consolazione, le epistole che seguono lasciano il segno di una reciproca fragilità; al peso di chi non avverte più il germogliare della primavera corrisponde quello di chi, solo, trova il suo parlare difficile all’avvertimento di un vuoto incolmabile e senza ritorno: “Raramente io scrivo alle persone che amo, ma invece io parlo con loro improvvisamente in mezzo alla natura e mi pare ch’esse rispondano e che ogni distanza sia distrutta”. Lo scriversi si va diradando, anche impegni e spostamenti dei due lo rendono difficile; troveranno un abbeveraggio a Milano nella casa di Antonia e riusciranno a tornare nella sintonia di sempre: “Forse si sarà accorta… della mia gioia… deve aver sentito che la mia anima si muoveva liberamente nella sua stanza… e sfiorava ogni tanto le sue dita e i suoi capelli… quando ho sentito chiudersi dietro a me la porta della sua casa - è stato per me - come se fossi precipitato in quel momento da un’alta rupe”.

Di un’intensità che affonda nell’anima la lettera del 10 novembre. “Stanotte è morto l’autunno… ho fatto un piccolo volumetto delle mie liriche meno brutte… ho paura che la posta me lo possa perdere. Lo porterò io la prossima volta a Milano… vicino a lei dovrebbero nascere tanti pensieri freschi ed azzurri… in questa busta troverà un fiore. E’ l’ultimo della valle - l’ho colto per lei - perché venisse a morire - come un mio pensiero - nelle sue mani”. La genzianella sarà ricevuta (insieme a versi che si sostanziano, con marcatissima sinestesia, “di pensieri freschi e azzurri”), salvata dalla bufera della vita e della neve con una breve risposta di desiderio di vivere contro il “franare del tempo”, firmata per la prima volta con il solo nome: Antonia.

All’inarrestabile trascorrere del tempo che conduce alla deriva ogni cosa, Tullio comunica di aver scritto un libro di poesie, di cui ben settanta dopo il loro incontro a Milano: “il tempo è la più grande gioia della vita… ogni istante esso ci porta innanzi nell’eternità… bisogna custodire con gioia il piccolo sole che noi portiamo nella vita, e vigilare su tutte le nebbie”.

Seguono cartoline, una d’autore, “Sinfonia candida”, dove l’incisiva sinestesia lascia pensare ad un deliberato dono di Tullio ad Antonia. Nel contempo sappiamo della sua avvenuta laurea, dell’attesa di un praticantato come avvocato, della sua silloge a cui spesso rimette mano. L’insufficienza linguistica lo spingerà a silenzi incantati di montagna che ridonino alla parola l’immagine intensa del suo sentire. Arriverà a Tullio un papavero raccolto da Antonia vicino all’Acropoli, al tramonto “intanto che il vento correva”, baciato “come se in esso vi fosse ancora la soavità delle mani che l’avevano colto”; “… e ho riveduto nella mia memoria, splendere più alta ancora della statua di Minerva che i naviganti scoprono dal Sunio, Lei”. Del loro parlare di poesia scrive: “Non ricordo che fontane di cristallo”. Suggestiva analogia, evocante l’amore per la poesia che invia messaggi di luce, di cristalli sfaccettati, di ipotesi di ricerca nel silenzio ghiacciato iridescente di sole e vita e contemporaneamente rimanda al dolore, nella misura in cui la fontana è “ghiacciata”, immobile, ma non per questo inaridita.

Cartoline rare accompagnano il grande silenzio che non trova più voce che consoli e lenisca l’attraversamento sofferto della vita di Antonia.

Sua l’ultima lettera, forse due, scritte in momenti diversi, dove Antonia singhiozza silenziosa sullo spaesamento e coglie nelle montagne un’infinitezza densa che suona la musica alta del cielo nelle nuvole che passano e alle quali il suo sguardo chiede un concerto d’organo che accompagna come in un requiem l’ultima vista delle Tre Cime, “là erette come una cattedrale gotica, sventrata dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra”. Tutto a Pasturo si colora della nostalgia, di una impossibile rinascita e ritorno all’origine e alla radice dell’albero, quella profonda di cui Tullio aveva scritto nei versi da lei più amati.

Tutto il resto è storia ed è storia di “pianura”.


Recensione di Patrizia Garofalo (luglio 2009)



Bibliografia

Scalatori, a cura di A. Borgognoni e G. Titta Rosa, Ulrico Hoepli, Milano 1939
S. Casara, Al sole delle Dolomiti, Ulrico Hoepli, Milano 1947
S. Quasimodo, Il poeta e il politico ed altri saggi, Mondadori, Milano 1967
A. Pozzi, T. Gadenz, Epistolario (1933-1938), Viennepierre, Milano 2008.

lunedì 16 marzo 2009

Neil Novello, "Morte di un intellettuale fanciullo"

Riproduco, con il gentile consenso dell’autore, uno scritto già apparso su un settimanale bolognese, in cui veniva rievocata la figura di Riccardo Bonavita, giovane intellettuale, studioso di Leopardi e della Shoah, morto ancor giovane, di propria volontà.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)




È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.