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martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203

lunedì 29 novembre 2010

Giselda Pontesilli, "Nota su Fedele D’Amico" (con un articolo dimenticato sul linguaggio e i pericoli della televisione)


Colpevolmente, conoscevo l'opera di Fedele D'Amico quasi solo per sentito dire. Proprio per questo, tanto più mi è gradita la rivelazione offerta a me, e spero anche a qualche sparuto e volenteroso lettore, da questa preziosissima, essenziale e sentita nota della sua allieva Giselda Pontesilli, e dallo scritto di D'Amico riprodotto per gentile concessione. Scritto la cui data non può non sbalordire, e che non può non apparire straordinariamente, e per certi aspetti tristemente, premonitore e profetico rispetto ad alcune tendenze della società di massa, la quale sembra accordare la vera, ancorché effimera e superflua, esistenza solo a ciò che passa sullo schermo televisivo. Ben prima di Pasolini (le cui celebri pagine sulla televisione come strumento di narcosi della coscienza critica e di assoggettamento delle masse al "centralismo della società dei consumi" sono posteriori di un decennio) e, con tutta probabilità, indipendentemente da McLuhan, D'Amico era riuscito a cogliere, con puro genio e acuminata precisione definitoria ed argomentativa, l'essenza di uno strumento in cui mezzo e messaggio coincidono, in cui il messaggio si risolve, infine, nel puro e vacuo fascio di luce che veicola le immagini e che finisce per porre se stesso,la propria sostanza indefinibile, incorporea e fredda, come valore assoluto, acritico, quasi dogmatico, disgiuntamente e indipendentemente da qualsiasi contenuto, pensiero, esperienza, verifica, vaglio. E, considerando la faziosità e le opposizioni preconcette, e spesso pretestuose, che lacerano il mondo della cultura, non si può che restare ammirati e sedotti dall'impegno lungimirante di un intellettuale che, pur schierato a sinistra, chiamava a raccolta, al di là di ogni ideologia, tutti gli uomini di cultura in un'impossibile (e persa in partenza, ma pur sempre degna e necessaria) lotta alla banalità, alla volgarità e agli stereoripi del consumismo e dell'edonismo di massa.

(M. V.)


È
importante, di Fedele d’Amico (Roma, 1912-1990) - lo si vede sempre più col passar del tempo -, l’intero corpo del lavoro svolto.

A partire dagli scritti giovanili; tra cui, apparsi su “La Rassegna musicale” di Gatti: “Petrassi e il suo Salmo” (1938, V-VI), “Nota sulla lirica di Pizzetti” (1940, IX-X), “Ragioni umane del primo Malipiero” (1942, II-III); nonché la recensione a Classicismo e romanticismo nella musica di Damerini (seguita da una lunga risposta a obiezioni del Salvi –1942, VIII e XI), in cui d’Amico, con interessantissime argomentazioni a tratti quasi fenomenologiche si distanzia dalla critica musicale di stampo crociano.

Ci fu poi la militanza politica (nel ‘43-’44 egli fu direttore di “Voce operaia”, settimanale del Movimento cattolici comunisti), riepilogata nell’intenso “Perché ci occupiamo di politica” (Mercurio, 1945, n.6).

Ci furono le voci di primo piano nell’Enciclopedia dello Spettacolo, da lui diretta, per la sezione Musica e danza, con leggendaria professionalità e rigore; le splendide dispense universitarie (su Rossini, Mozart, Beethoven, le Poetiche musicali del ‘900), per le quali i suoi studenti si sentirono indelebilmente stupefatti, gratificati d’essere oggetto di una tale cura; le recensioni settimanali su “L’Espresso”, tutte “necessariamente” ristampate nel 2000 dall’editore Bulzoni; gli scritti su riviste: “miniature”, “collezione di gioielli” - li definisce Rudolf Arnheim nell’altrettanto esemplare epistolario, durato oltre cinquant’anni (dal ’38 al ’90), tra lui e d’Amico, epistolario di cui il prefatore, Franco Serpa, sottolinea “immediati e quasi allo stato puro i tratti di una energia spirituale rara tra gli intellettuali italiani, quella che nasce dall’identità tra intelligenza critica e fede civile, refrattaria a qualsiasi compromesso” (1).

Ci furono ancora l’edizione critica degli scritti di Busoni2; le traduzioni in versione ritmica italiana di molti libretti d’opera; i programmi di sala -perfetti, attesi- di balletti, opere, concerti; e tante altre cose, tutte fatte con estrema cura, tutte da poter studiare.

Un lavoro non sistematico quello di d’Amico, normalmente vòlto all’esegesi, alla “descrizione” (musicale, storica, biografica, morale) di un’opera concreta, d’un artista in cui egli si cala interamente, umilmente, senz'ombra di teorie preconcette o tesi a priori, per svelarne, articolarne nelle più intime fibre, l’intrinseca, libera individualità, finalità (paradigmatiche le sue acquisizioni di Rossini (3), Berlioz (4) , Manuel da Falla (5), Strawinsky (6)… E, “innanzitutto”, il ritratto -e forse arcano “autoritratto”- di Bruno Barilli (7).

E però al tempo stesso un lavoro non frammentario, non empirico, sempre unitario, “sistematicamente” sostanziato da un fondamento - che pure andrà ben studiato e accuratamente compreso - coerente, costante.

Di fronte ad esso, il breve scritto qui riproposto, d’argomento apparentemente “estrinseco”, sociologico, potrebbe sembrare (anche se in sé bellissimo), non adeguatamente indicativo, forse anche, per qualcuno, fuorviante.

Ma è stato scelto e col gentile permesso della famiglia ristampato, perché indica la peculiare militanza e incorruttibilità intellettuale dell’autore: il suo impegno assoluto, innanzitutto verso i non privilegiati, il popolo, di cui sostenne strenuamente e con dialettica inattaccabile l’emancipazione sociale, cioè culturale, il diritto inalienabile alla cultura vera (8).

E s’infuriò per questo, scappava furibondo davanti agli auditori, ai teatri in cui l’esecuzione si prospettava “teletrasmessa” (fu stupendo vedere quei furori, quella fede: “Che le ire, e perfino i paradossi, di d’Amico fossero seri, e talvolta veementi atti di fede, l’abbiamo sempre sospettato” –scrive ancora il Serpa nella citata prefazione); e cercava, come si vede in questo stesso scritto -e non trovava- alleati, comprensione: allibito dalle posizioni di Ugo Spirito come da quelle delle sinistre.

“Ma tu sei stato combattente fin da quando ti ho conosciuto” – scrive Arnheim a d’Amico nell’ultima lettera dell’epistolario. “Combattente solitario” – lo definì Masolino d’Amico nell’incontro in ricordo del padre, avvenuto a Trieste nel 2000 presso il Circolo della cultura e delle arti.

E tuttavia, in quell’incontro, dalle parole dei relatori, Giorgio Vidusso, Luigi Bellingardi, Franco Serpa, emerse inequivocabilmente, quanto sia chiara, per alcuni, la consapevolezza del valore di quelle battaglie, quel pensiero.

E fu chiara altresì a Roma negli anni settanta, per alcuni studenti, alcuni giovani, che, pur non occupandosi prioritariamente di musica, bensì di poesia e filosofia, solo in lui trovarono un maestro, un’indicazione di percorso, una guida.

Le sue solitarie, acutissime disamine della dodecafonia, della neo-avanguardia (per certi aspetti analoghe a quelle di Ansermet in Les fondements de la musique dans la conscience humaine (9) -più tardi meritoriamente stampato in italiano da Campanotto); la sua confutazione sovrana dei dogmi storicistici ed evoluzionistici contemporanei; la persona di lui nel suo complesso che autenticava qualunque cosa dicesse, perfino una, soprattutto una: - che ancora oggi, malgrado tutto oggi, l’artista, “attraverso una dialettica rinnovatrice” (10), doveva e poteva fare Arte come s’è sempre fatta - diedero loro strumenti insostituibili per districarsi dalla confusione, dall’epifenomenicità dell’arte contemporanea.

E gliene furono per sempre vivamente grati.

1 Fedele d’Amico, Il teatro di Rossini, Il Mulino, Bologna, 1992.

2 Ferruccio Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977.

3 Rudolf Arnheim – Fedele d’Amico, Eppure, forse, domani -Carteggio 1938-1990, Archinto, Milano, 2000, pp.11-12.

4 Fedele d’Amico, Berlioz cent’anni dopo, in Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali 1962-1988, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino, 1991, pp.111-138.

5 Fedele d’Amico, Manuel de Falla, in I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, pp.469-476.

6 Fedele d’Amico, Stravinsky: oggettivismo, neoclassicismo, musica al quadrato, in Poetiche musicali del Novecento e loro antecedenti, corso universitario, Roma, 1974-75, pp.79-91.

7 Fedele d’Amico, Barilli, o la caducità del miracolo, ora in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, pp.133-155.

8 Da notare che “cultura vera” non è solo, per d’Amico, come si potrebbe affrettatamente inferire, musica, arte, poesia “classiche”, ma proprio, letteralmente, “il contrario della pappa scodellata sul video”, “a qualsiasi livello”: anche la canzone popolare autentica è cultura, ma mai lo è la finta canzone popolare imposta dall’industria “culturale”, “giacché diversamente da quanto la canzone ha sempre fatto, quella di San Remo non rispecchia i miti d’un ambiente bensì impone all’ambiente dei miti prefabbricati, dittatorialmente, fingendo la spontaneità” (cfr. “In che senso la crisi dell’opera”, in Un ragazzino all’Augusteo, op. cit., p.90.

9 Nella lettera del 2 Aprile 1969, d’Amico scrive ad Arnheim: “Ho rallentato all’infinito un lavoro a cui tenevo in modo specialissimo –una riduzione italiana dei Fondements de la musique dans la conscience humaine di Ansermet, che nell’originale è terribilmente lungo, e difficile, ma secondo me è un libro importantissimo –e adesso Ansermet è morto, e la faccenda diventa anche più difficile”, in Eppure, forse, domani, op. cit., p.71.

10 Fedele d’Amico, La musica contemporanea non è una, in I casi della musica, op. cit., pp.507-513. E, a p.506, a conclusione di Adorno e la nuova musica, si legge: “Di fronte a una dittatura mercantile che corrompe tutti i valori riducendoli silenziosamente alla propria ideologia, rendere le forme in cui quei valori si esplicano corresponsabili della corruzione significa accettare l’identificazione imposta e arrendersi alla provocazione senza condizioni. Una cultura d’opposizione trova invece la sua giustificazione storica solo in quanto rifiuta quell’identificazione e s’impegna a liberare quei valori in quanto tali, cioè non soltanto in quanto portatori d’un ’ideologia di segno contrario: operazione al limite della quale è il superamento concreto d’ogni ideologia”.


La televisione e il professor Battilocchio

di Fedele d’Amico

Un mio stretto parente m’invitò non molto tempo fa a festeggiare l’anniversario del suo matrimonio. C’erano solo dei familiari, forse una dozzina: persone, tutte, a me carissime, e che purtroppo non frequento quanto vorrei. La prospettiva d’una serata fra loro era dunque promettente. Ma quando arrivai, alle nove e mezzo, era aperta la televisione; e durò implacabile non so fino a quando: certo era ancora aperta quando me ne andai, poco prima dell’una. I numero più vari si erano succeduti sull’apparecchio: belli o brutti, che importa? La gran maggioranza degli intervenuti li accettò in bianco, come al solito, non se ne lasciò sfuggire uno. Bisognava vederli, poveretti, come non riuscivano neanche a godersi la cena in piedi, tanto dovevano trafficare con la coda dell’occhio. E la serata sfumò, inutile.

Leggere un libro vuole una disposizione attiva: iniziativa, concentrazione durevole, impegno intellettuale. Lo stesso, ascoltare un dramma; perché un dramma è assai più parola che visione, implica una consecutio di concetti e giudizi che va seguìta. Già al cinema invece, dove la parola per lo più è cartiglio esplicativo d’un linguaggio d’immagini abbastanza ovvio, un’attitudine fondamentalmente passiva è sufficiente. Bello o brutto, un film mette in moto il cervello assai meno che una commedia, bella o brutta: conta piuttosto su suggestioni periferiche alla riflessione e al concetto. Ancora meno esigente, incomparabilmente meno esigente è la televisione. Che a questo appunto deve il suo trionfo, la sua capacità di dissuadere con dolce violenza la gente dal libro, dal teatro, dal cinema e dalla frequentazione dei propri simili; perché anche giocare a scopa, o chiacchierare del processo Fenaroli, domanda uno sforzo maggiore che l’amplesso col video.

Finché fu muto, il cinema cercò di stilizzare il gesto. Nel vero, il gesto non esaurisce l’espressione semantica, perché agisce a complemento della parola; costretto però a esprimersi senza la parola, il cinema fu obbligato a stilizzare, enfatizzare, elaborare il gesto, per renderlo autosufficiente, e così a riprendere la tradizione dell’arte pantomimica. Ma questo impegno con l’invenzione del parlato decadde; per quanti residui potessero restarne qua e là. E la stilizzazione cedé il campo alla semplice riproduzione del vero.

D’altronde il cinema non è il teatro, costretto a fingere ambienti colla cartapesta, sulle rime obbligate di un palcoscenico, a mantenere gli attori in una certa artificiosa collocazione rispetto al pubblico, eccetera; il cinema può portare sullo schermo qualunque ambiente, e farci muovere dentro gli uomini come nella realtà, senza mediazioni convenzionali. Così nel cinema l’arte è solo nella disposizione, nell’organizzazione di elementi che di per sé non vengono elaborati ma dati come “veri”: muniti dunque di sex appeal, di quella carica irrazionale e inconfutabile che solo la verità còlta sul fatto possiede.

Donde la forza del cinema: la sua facilità, accessibilità, non problematicità. Qui è la sua funzione essenziale: ratificare il vero, persuaderci che tutto, al mondo, è bellissimo. Sono belle le città antiche e quelle nuove, le automobili, i palazzi, le catapecchie, i signori, i pezzenti, il frac, i blue-jeans; basta fotografarli. E qui è il suo limite: non poterci mai rappresentare una realtà in evoluzione, una prospettiva d’avvenire. Il cinema conosce solo ciò che è attualmente visibile. Anche il film di sinistra non può fare del proletariato, che un essere amabile così com’è, hic et nunc. E noi ce ne innamoriamo talmente, di questo proletariato così com’è, che a un certo punto non comprendiamo più perché dovremmo desiderare che progredisca, ossia che cambi.

Anche la televisione è riproduzione, ratifica del vero; ma a un grado incomparabilmente più misero ed elementare, a un grado puerile. Al cinema, si va a vedere un film: nella speranza di trovare comunque un organismo compiuto. Alla televisione si cerca unicamente la televisione, poco importa in quali aspetti s’incarni strada facendo: attualità, notizie, quiz, canzoni, commedie, opere liriche, film, partite di calcio. Un libro, chi non gli piace, non lo legge; una commedia che non piace si recita a teatro vuoto. Lo stesso un film. La televisione invece, tutti dicono che i suoi programmi sono repellenti, ma tutti la guardano. Non guardano i programmi infatti, guardano la televisione. Anche una commedia o un film alla televisione non sono più una commedia o un film: sono la riproduzione d’una commedia o di un film nelle proporzioni del balocco. Ciò che si cerca nella televisione è questa riduzione a balocco: in casa, senza fatica, girando un bottone.

Anni fa, nell’era pretelevisiva, mi capitava di passare davanti agli uffici d’un grande quotidiano, da una finestra dei quali pendeva uno schermo su cui si proiettavano scene dal vero della specie più banale: il traffico nella via d’una grande città, per esempio. Un traffico identico si poteva godere guardando cinque metri più in là, nel vero; tuttavia nessuno guardava cinque metri più in là, mentre una piccola folla sostava regolarmente davanti a quello schermo. Il perché, lo capii soltanto dopo l’esperienza della televisione. La realtà, osservata direttamente, sembra casuale e confusa, non interessa; e d’altra parte la realtà rielaborata (dall’arte, dalla scienza, dalla storiografia) non è accessibile senza un minimo di partecipazione attiva, critica. Invece la realtà semplicemente riprodotta non esige alcuna fatica in chi l’osserva; e d’altro canto assume misteriosamente un aspetto di necessità, un valore apodittico che la sottrae alla critica. Da quella riproduzione l’uomo sente avallare il mondo che lo circonda, è certificato di trovarsi nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un mondo a cui non esiste alternativa. E questo mondo si giustifica con la semplice esibizione dei suoi frammenti spiccioli, dei suoi particolari presi a caso; non c’è neanche bisogno di ricomporli, di sistemarli formalmente secondo un ordine qualsiasi.

Avete mai pensato all’assurdo dell’annunciatore visibile? In un film, gli “annunci” sono titoli consegnati alle lettere dell’alfabeto; sarebbe bella che in loro vece apparisse sullo schermo un essere umano dal sorriso Durban’s con un foglio in mano, a leggerci: “La Lux Film presenta…” Ma appunto questo succedeva fino a poco tempo fa alla televisione. I risultati del campionato di calcio, quanto più comodo leggerli sul video, in modo da poterli, eventualmente, rileggere. Invece ce li recitava un tale in carne e ossa, lanciandoci ogni tanto un’occhiata inesplicabile. Come mai questo ridicolo procedimento era accettato come normale? Perché qualunque cosa, qualunque persona appaia sul video offre interesse: per il solo fatto di apparire sul video. La futilità della sua presenza è garanzia sufficiente della sua necessità, e viceversa.

Tutti guardano dunque il balocco. E nella coscienza di essere tutti. Quasi nessuno lo guarderebbe, infatti, se non fosse certo che tutti, contemporaneamente, lo guardano. Tutti così collaborano docilmente a costituire il suo gran miracolo, che consiste nel creare valori puri, cioè vuoti di attributi concreti, indifferenti al loro contenuto originario. Questa operazione rientra nel consueto obbiettivo della civiltà mercantile, che com’è noto è la sostituzione del valore di scambio al valore di consumo; e non è se non un’applicazione della tecnica pubblicitaria, consistente nel persuader tutti ad acquistare un certo prodotto in base al solo argomento che, appunto, lo acquistano tutti. Ma è un’applicazione, qui, talmente perfetta da poter valere come paradigma, come simbolo ideologico..

Niente infatti uguaglia la televisione nella capacità di spolpare automaticamente ogni realtà dei suoi valori effettivi per trasformarla in entelechia della Notorietà pura. Ogni personaggio, ogni trasmissione che la televisione decida di collocare al luogo opportuno, sale immediatamente e indifferentemente ai cieli della Fama, e solo per questo diventa significativo. Nelle entità così canonizzate tutti si riconoscono, indipendentemente da ogni contrasto di gusti. Perché non la concordanza di gusti importa, importa solo non perdere i contatti con ciò che tutti venerano, e che gl’ideali di tutti simboleggia e realizza nella sua disponibilità assoluta.

Comunque sia giudicato dagl’individui, l’ente canonizzato diverrà segno di riconoscimento, veicolo d’un’ omertà perinde ac cadaver.

Siete mai capitati in un normale teatro quando lo spettacolo è “teletrasmesso”? Non è comodo per lo spettatore. I riflettori vi accecano, gl’intervalli si allungano, l’illuminazione della scena stabilita dal regista è distrutta, qualche volta cambia il programma annunciato. Ma nessuno protesta. Al contrario, i volti s’irradiano, gli animi si tendono a una mistica solidarietà. Il deus absconditus è lì a due passi, la sua grazia sta per investirci. E una voce interiore ci ammonisce alla solennità dell’ora, la stessa voce che guida ogni giorno i passi dei dirigenti, degli operatori, degli artisti, degl’impiegati, dei sacerdoti insomma e dei chierichetti della Telereligione: “Da quegli obbiettivi, sedici milioni d’imbecilli vi guardano”.

D’accordo, dicono certuni. La televisione è un disastro. Ma non dimentichiamo che per tanti, fino a ieri esclusi dalla cultura, è comunque il solo mezzo utile a procurarsene qualche briciola. Sarà pur sempre meglio di niente. Le brodaglie di Buchenwald erano quello che erano; pure sono bastate a far sopravvivere qualcuno.

Il paragone non è allegro; ma soprattutto è sbagliato. Perché la cultura non è un oggetto materiale, una questione di calorie e vitamine. Si possono avere le opinioni più diverse su quale e quanta cultura si possa e debba diffondere fra tutti i cittadini. Ma una cosa dovrebb’essere pacifica: non che la Fenomenologia dello spirito, neanche le quattro operazioni si possono iniettare con la siringa. Cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività: il contrario della pappa scodellata sul video. Sì che l’argomento va tranquillamente rovesciato. La televisione potrà magari riuscire innocua, o poco dannosa, a chi pratichi abitualmente le vie naturali della cultura; ma appunto agli analfabeti, ai bambini, ai “finora esclusi” riuscirà letale. Una volta morfinizzati dalla televisione, costoro non apriranno più un libro per tutta la vita, rimarranno definitivamente congelati dalla loro ignoranza. Appunto per questo la virulenza della televisione, in un paese incolto come il nostro, è massima e non minima.

Viene dunque da trasecolare leggendo in questa stessa rivista, a firma nientemeno che di Ugo Spirito l’ammonimento a non “chiudere il televisore con disdegno”, giacché le “espressioni più grandi” della “vera cultura” si troverebbero “soltanto attraverso gli strumenti che abbiano la capacità di raggiungere la massa” (1). Mi domando perché mai il libro non “abbia la capacità di raggiungere la massa”; e donde scappi fuori questo strano dualismo fra la cultura e i suoi “strumenti”. Ci sono paesi in cui i libri dei classici si vendono a decine di milioni di copie: e nella loro forma di libri, cioè non attraverso nuovi “strumenti”. L’escogitazione dei quali raggiunge gli scopi esattamente opposti a quelli che Ugo Spirito si propone, serve cioè solo a perpetuare la divisione fra la cosiddetta élite, che seguiterà a leggere, e la cosiddetta massa, a cui metteremo l’animo in pace spiegandole che guardare un vetro è lo stesso. Cultura per tutti non significa questo: significa scuole per tutti, libri per tutti, teatri per tutti.

E video per nessuno. Invece il video è e resterà per tutti. Abbiamo abolito i flippers, i postriboli, le mosche, il vaiolo: tutte cose molto meno nocive. Non aboliremo le “teletrasmissioni”; perché questo, dicono, sarebbe andare contro il “progresso”, contro la “scienza”.

Argomento falso e ipocrita se mai ve ne fu. Vietare che la cocaina si venda dal tabaccaio non significa impedire lo studio né l’impiego degli stupefacenti. Chiedere l’abolizione della bomba atomica non significa arrestare la fisica nucleare. Che la scoperta della trasmissibilità delle immagini a distanza debba tradursi nella fabbricazione di alcuni milioni di aggeggi capaci di convogliare in tutte le case ciò che alcune persone manipolano in qualche via Teulada non è, “scientificamente”, affatto necessario.

Le vie Teulada esistono soltanto perché ciò produce lucro, e per di più risulta mirabilmente idoneo, in qualunque programma si realizzi, a educare negli utenti un comportamento omogeneo all’ideologia dominante. La televisione rende l’uomo non pensante, passivo, docile, acritico: un compratore ideale di cocacola e di miti piccoloborghesi.

Perciò coloro che credono nella civiltà mercantile difendono la televisione. E gli altri? La difendono anche loro. Dicono di credere al salto dal regno della necessità in quello della libertà, vogliono restaurare il valore di consumo contro il valore di scambio, sottrarre l’uomo alle alienazioni, eccetera. Ma la tentazione di servirsi del mezzo è troppo forte. Perché non tentare di esorcizzarlo, mettendoci dentro le nostre idee?

A vincere nel figlioletto l’invincibile ripugnanza alla scuola, un personaggio di una commedia di Campanile scrittura certo professor Battilocchio, che travestito da ragazzino giochi a palline con lui, insinuandogli abilmente fra un colpo e l’altro le regole della prima declinazione. Ho visto questa memorabile commedia trent’anni fa, ma ancora ricordo Vittorio De Sica in calzoni corti che entrava in scena cantando: “Io sono il professore / di greco e di latin, / insegno a tutte l’ore / le regole ai bambin”.

Le sinistre non combattono la televisione; esse lottano soltanto perché in luogo degli attuali rappresentanti del clericalismo appaia sul video, a declinarci a tutte l’ore sostantivi democratici e socialisti, il professor Battilocchio.

Luglio 1961


1 Cfr. U. Spirito, Cultura per pochi e cultura per tutti, in “Ulisse”, luglio 1961.