lunedì 21 maggio 2012
Giselda Pontesilli, "Su 'La valle delle visioni' di Sauro Albisani"
lunedì 23 gennaio 2012
Giselda Pontesilli, “Tre poesie”

Ho il piacere di presentare questi tre testi di Giselda Pontesilli, queste tre nitide e lungamente elaborate e meditate tracce dell'attuale stagione della sua vena: una Musa, la sua, che si muove verso una sempre maggiore limpidezza, verso una cantabilità, una melodiosità sabiane o caproniane (ma vicine anche ai modi espressivi della “scuola romana” di Beppe Salvia e di Claudio Damiani), ma che pure ha, dell'acqua tersa e trascorrente, anche e proprio la profondità, la trasparenza di un fondo essenziale, di una substantia, in senso etimologico, che lo sguardo intellettuale può scorgere, senza toccarlo sensibilmente, attraverso l'armonia traslucida e fluente della parola.
Parola come venire-alla-luce (fari, parlare, come phos e fatum, come luce e destino) dell'Essere che è e non può non essere, ma che non resta chiuso in quella che Luzi chiamava «la sfera angosciosa di Parmenide», bensì si declina, cola e fluisce nel succedersi degli accadimenti, delle percezioni, delle occasioni; parola come spazio, dunque, in cui l'istante si fa eterno, e la contemplazione della natura e dell'arte, e il contatto con il mondo molteplice e amato dell'umano si presentificano, nella loro assolutezza, attraverso la concretezza dell'accadere.
La perennis humanitas del Petrarca latino, ripresa poi dai vociani, rivive nell'utopia (ma utopia non astratta, non dottrinaria, bensì intensamente vissuta in una sorta di militanza esistenziale, non ideologica) di un «nuovo umanesimo italiano»: non l'humanisme esistenzialista, intriso di nichilismo, di vuoto, d'angoscia, segnato dall'abbandono, dalla gettatezza, dalla deiezione, né il neo-umanesimo filologico, venato dal rischio della retorica, animato dall'impulso ad un'oggettività normativa; ma proprio una nuova humanitas, che riscopra l'anima dei luoghi, il messaggio profondo dei testi, delle voci, dei testimoni, e sappia vedere negli uomini, nei volti, negli incontri i riverberi molteplici e autentici di un'unica, lontana ormai, ma inestinguibile, luce.
Le «edere», dapprima còlte nel testo poetico, attraverso la parola che le nomina, poi viste e vissute nella realtà fenomenica, ma sempre attraverso la loro sostanza verbale, la loro emblematicità quasi mitica, sono «arcane»: arché, archàios, ma anche arca: il principio, ciò che è originario, ma anche antico, e remoto, e insieme ciò che è nascosto, celato, custodito nello scrigno del tesoro o per sempre inghiottito da un sepolcro che può essere, però, apportatore di vita, soglia di risurrezione. Natura e Storia, qui, si fondono: la physis, nella sua vitalità mobile, diveniente, avvolgente (l'edera), è depositaria dell'arché, del principio e dell'essere, che tornano alla luce, e riprendono forma, grazie alla parola, e nella parola.
E la verità ‒ si potrebbe dire parafrasando Nietzsche ‒ si trasfonde, variopinta, nella levità gioiosa di un pensiero danzante, nel giro iridato ed esatto delle sillabe; consistente, tangibile, vissuta, ma non greve: temporale ed eterna insieme.
(M. V.)
I
Quando io penso, giorno dopo giorno,
che non può andare avanti
un attimo di più
questo sconforto –sordo, epocale
e so però che non c’è alcun conforto
grande
costante
forte
che lo possa fermare,
io penso
che un aiuto, un soccorso
dovrà presto arrivare,
perché –è tutto pronto
tutto pronto
per iniziare
perché basterà poco
solo un soffio
di vento primaverile
autunnale
un soffio di pietà per farci stare
di nuovo insieme –a pensare,
di nuovo, fino in fondo
ma a rincuorarci -prima- a darci
un soffio di vigore,
e quindi, con ardore,
un pensiero profondo.
Oh il mio desiderio
inarrestabile, immenso
degli amici, con cui poter pensare.
Oh il conforto
di vederli amici
gli amici miei!
uniti! di vedere che vogliono
sopra ogni cosa “questo”
che sanno
che senza questo non faranno niente
di ciò che a tutti preme veramente
e che è vivo,
che serve
urgentemente
e che è bello,
che è bene.
Solo un aiuto solo
una grazia lo potrà realizzare.
Ma è tutto pronto
tutto pronto, in fondo, per poter ripensare.
Questo sconforto sordo
non è dovuto a niente!
di sostanziale.
II
Vengo ad Arquà per la seconda volta:
la prima
non avevo voglia
neppure di camminare.
Oggi invece, vado ferma! decisa! a casa
di Petrarca.
E vedo
che posso camminare
solo qui veramente
anche se non c’è gente
con cui poter parlare
è vitale questo borgo che sale
E’ isolato, lo so, è immoto
ma andare da Petrarca è uno scopo
che lo fa vivo, profondo
Quest’olmo che ora tocco, con le foglie
fresche, bagnate
e questi giuggioli sparsi
di edere arcane, abbandonate:
sono reali, reali finalmente!
qui da Petrarca
ci sono loro! con cui poter parlare.
Ed è un dialogo il nostro,
molto assorto, risorto: con la realtà
così! si può parlare.
La casa è circondata dal giardino
pulito e al suo custode è gradito!
il mio arrivo.
Solo io, oggi, ho avuto l’invito?
III
Nuda maturità spoglia di vana-
gloria di vocazione di bellezza:
chi chiamai non risponde; né qualcuno
m’ha chiamato o mi chiama. Neanch’io
parlo più con me stesso. In silenzio
guardo la mia miseria. Non so più
cucirmi addosso un abito decente.
(-Sauro Albisani-)
Ma io ti chiamo, Sauro: facciamo
il nuovo umanesimo italiano?
lunedì 21 novembre 2011
Giselda Pontesilli, "Con me e con gli amici"
Ho il piacere di presentare questo poème critique, questa sorta di prosìmetron intriso di afflato lirico e memoriale e coscienza critica, culturale e programmatica, opera di Giselda Pontesilli: un testo che parafrasa, nel titolo, Jahier, scrittore fra i più cari all'autrice, e animato da una volontà di condivisione, di compartecipazione umane, oltre e prima che intellettuali, affini proprio a quelle dei cosiddetti moralisti vociani, cui Jahier è stato accostato: e si potrebbe citare, qui, il brevissimo scambio epistolare che con Jahier intrattenne, proprio nell'immediata vigilia della morte al fronte, Renato Serra, che da Jahier veniva vanamente esortato ad attenuare il remoto, un poco trasognato ed algido, culto della pura Bellezza, per confrontarsi, sulle orme di Claudel, con l'evidenza e l'abbraccio esperienziali dell'umanità e della verità – della verità inverata, incarnata nell'umano, in una parola sentitamente umana, calda di vita e di testimonianza. Questa stessa unanime, condivisa passione, che pervadeva il clima della rivista “Braci”, in ciò simile alla “Voce”, è richiamata e rievocata dall'autrice, che ne auspica – con quell'utopia che è il lievito della realtà - una rinascita nell'attuale, grigio e mistificato e falsato, panorama. Le sottili anomalie linguistiche, i tenui e delicati straniamenti semantici e sintattici (“quella casetta in basso, / quell’ in alto casale, / vogliamo, vi prego, convolare? / Ci vogliamo, vi prego, rivivire?”) che infine increspano ed impennano il testo poetico (per il resto intonato ad una cantabile discorsività, ad una naturalezza e ad una levità che hanno la tersa limpidezza dell'alba e del miracolo) rispondono proprio a questo anelito, a questa volontà quasi dantesca di palingenesi. E, come in Ruskin, la bellezza dell'arte del passato è speranza per una futura riscoperta della bellezza, della dignità e della sacralità del comune lavoro. Ed è significativo, infine, che il testo si chiuda con una citazione (assai cara anche a Beppe Salvia, poeta di Braci) da Sleep and poetry di Keats: un passaggio sommesso, sussurrante, in cui peraltro si auspica, senza clamori, e anzi ai limiti stessi del silenzio, del non-detto, che la voce sapiente, la voce-sapienza, e sapienza della, e nella, voce, insite nella poesia-natura e nella natura-poesia (la sapienza mediata e riflessa del linguaggio umano riconciliata con quella inconscia, ma eterna, racchiusa nelle armonie e nei ritmi della natura), tornino a regnare, a regolare, a scandire i tempi e i modi e le civili, umane misure dell'umana convivenza.
(Matteo Veronesi)
GISELDA PONTESILLI
“Con me e con gli amici”
Con Mauro e suo padre, l’architetto,
ho visto
-vedo-
il Duomo di Orvieto.
Ci andammo in gita in tre, lui e il padre
chissà come invitarono me
tutto un giorno.
Partimmo presto, da piazza del Popolo
per tornarvi al tramonto.
Ma poi anche Mauro con me
vide
mio padre, in alto, sul tetto
d’una casetta, che faceva lui stesso
in un lotto di terra – mille metri –
a Valle Martella.
L’architetto Biuzzi con il figlio
stava col Duomo davanti quel giorno
- ricordo il loro sfavillare -
e dopo pranzo andammo
su una vasta collina col casale
che lui
voleva acquistare.
Ma certo anche Mauro con me
stette un giorno in quel lotto, nell’orto
con mio padre davanti sul tetto,
al lavoro, perfetto.
-E avevamo
un altro amico,
Giorgio.
Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio
visto che abbiamo visto
da tanti anni ormai tutto un giorno,
lo stesso Duomo,
lo stesso uomo,
lo stesso orto,
quella casetta in basso,
quell’ in alto casale,
vogliamo, vi prego, convolare?
Ci vogliamo, vi prego, rivivire?
***
“Con me e con gli amici” di G. P. ci parla, come già dice il nome,
di lei e dei suoi amici;
ma solo perché è un appello,
l’appello più urgente, e concreto, a questi concretissimi amici;
- appello diretto:
“vi prego” di “con-volare”, “rivivire”,
cioè pensare-insieme-agire-uniti.
Ma chi sono, gli amici? e perché (e per dove)
volare, cioè pensare-agire?
Sì, proprio a loro, eminentemente a loro
compete questo sperato effettuale agire, perché sono stati unanimi
“un giorno” nel vedere “tutto”,
unanimi non nichilisti.
Un suo scritto di allora, dice:
“Siamo amici; grazie a un riconoscimento reciproco avvenuto, che, per la sua forza difficilmente verrà revocato”.
Ecco, si erano riconosciuti:
ciascuno - in un suo proprio modo,
vivificatore, non nichilista.
Quel riconoscimento non è revocato:
oggi: dopo “questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti”;
separati e scomunicati, come tutti,
ma sempre doverosamente non nichilisti;
perché hanno pensato e agito, seppur soli,
come si può da soli;
come si può:
cioè, allegoricamente.
Infatti:
Mauro Biuzzi –Artista:
non hai subìto l’ insignificanza impazzita, l’epifenomeno -senz’arte, né pensiero, né parte –postmodernista; così, hai agito, hai fondato allegoricamente il “partito dell’amore”, dicendo:
“Con il nostro antipartito, ci opponiamo al partito dell’alienazione e della simulazione: questo superpartito unico è il vero fantasma che si aggira per l’Italia e per l’Europa e lo si riconosce perché compone il suo linguaggio fantasma con frammenti impazziti di linguaggi ideologici”;
vogliamo “sostituire il linguaggio alienato dei partiti e delle ideologie lasciando emergere la lingua amorosa delle attuali società civili”.
Infatti:
Giorgio Pagano –Artista:
hai còlto subito il crollo dell’ideologia, la crisi del sapere, la fine del marxismo,
e che vi si reagiva
“non con migliorato comprendere, non con rinnovata azione creativa e razionale”,
bensì con la rinuncia, l’ “istituzionalizzazione della soggettività”, l’eclettismo, il citazionismo, la superficialità:
così, nel tuo inosservato, isolato saggio Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea, hai disaminato Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-nuovi, e hai concluso con una “dichiarazione”,
un “manifesto” scritto con Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, G. P., e letto da Gino a Roma,
l’8 Settembre del 1984 al Festival Internazionale dei Poeti;
una dichiarazione, un “allegorico” agire insieme:
“(…) A noi sembra che l’attuale saccheggio di geometrie storicistiche ed eclettiche filologie sia viziato a tal punto da consentire una fittizia rinascita artistica nello stesso momento in cui la spiritualità che essa dovrebbe testimoniare tocca il suo fondo.
A volte ci si rivolge al passato sperando che esso, nel suo intoccabile splendore, ci accolga e difenda. Ma è più spesso la disillusione delle forme vuote a rimanerci in mano.
E’ dunque necessario per noi prenderci cura della fragile natura del presente, e fondare in esso una tradizione futura, dentro e oltre il riflesso del passato.
E del presente la necessità prima ci sembra essere l’unificazione europea.
Europa come regione dello spirito, come il ritrovato luogo di un lavoro vero, che riguarda tutti.
L’unità “internazionale” del mondo, attraverso l’imperialismo di alcuni popoli sugli altri, è fittizia, è disillusione.
La via da praticare è invece quella dell’unione reale, là dove spirito e corpo coincidono: l’unione europea assume, in tutti i suoi aspetti, la ricerca di un’unione reale.
Si tratta di sostituire un luogo e un lavoro vero alla pratica dell’illusione.
La nascita della cultura europea trova nella definizione di una lingua comune il suo primo fondamentale passo.
(…)”.
Giorgio, tu come Mauro, pensavi alla lingua:
“la lingua amorosa della società civile” –dice Mauro:
“una lingua comune della cultura europea” –tu dici.
E i poeti di “Braci”? Anche loro pensavano alla lingua,
ma non si iscrissero al partito dell’amore, Mauro,
né, Giorgio, alla tua associazione esperantista:
- restarono soli poeti, a tutti i costi poeti, così, dopo “Braci”,
fecero un Convegno a Roma sulla poesia: “La parola ritrovata”
(dove Gino parlò de “La gloria della lingua”, Claudio di “Lingua e linguaggio”);
poi, un anno e mezzo dopo, riuscirono a ripubblicare l’Arte poetica di Orazio, con i loro interventi
-e, l’intervento di Gino, era “Orazio (Dialogo)”, quello di Claudio “Arte e natura”, quello di Giuliano Donati, “Crotto Urago. Una nota di poetica”, quello di G.P. “Il custode
incorruttibile”.
E così poi anche loro del resto
furono separati, isolati, privati.
Ma è forse avvenuto qualcos’altro – anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare?
Il 24 Aprile 2007 compare “NUOVE BRACI –giornale di educazione”:
sotto il titolo, la data, poi, c’è scritto: “Editoriale, di Claudio Damiani”, poi
c’è l’immagine azzurrina di Braci 1, poi questo testo:
“ Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti
di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perché, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione. L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc.), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio. (…)
Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante (…). Ci sono altri, e stanno nella mia generazione, in quelli nati negli anni ’50 e ’60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. (…)
(http://nuovebraci.blogspot.com/2007/04/editoriale-di-claudio-damiani.html)
Il 29 luglio 2011 compare -anche,
“La competenza dei poeti” di G. P.
Niente di nuovo, in fondo, se non un anello in più, una connessione “logica” “stringente”:
la lingua, usata per le informazioni, le “comunicazioni di massa”, è fondamentale per la società;
ma queste informazioni non informano affatto, anzi umiliano, confondono, perché, sempre più spesso, contrarie al senso della lingua e, sempre, “basate” su una visione sorda, accettata passivamente, inaccettabile, della realtà;
i poeti, in quanto competenti, professionisti della lingua, sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato;
dunque, loro, sono indispensabili alla società e possono agire insieme per studiare, e realizzare un modo, un metodo di informazione televisiva.
“Come Petrarca, sollevando –solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.
Questo, devono fare.
Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell’informazione di massa, alla “società di massa” … infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?”
(http://nuovaprovincia.blogspot.com/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html)
I poeti possono agire, sì, agire, e, anche,
lavorare,
come lavorano i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori,
le associazioni di categoria, le parti sociali, gli operai, i consigli comunali, i pensionati, i disoccupati, i giovani, le donne, i magistrati:
-come loro, anche loro possono portare al Governo, all’attenzione del Paese, al Parlamento, alla Scuola, alla Chiesa, all’Europa, al Capo dello Stato,
una piattaforma di base, un piano di intesa, un calendario di lavoro, un pacchetto di misure eccezionali, le loro esigenze reali
-per evitare la bancarotta, la catastrofe umana e culturale.
Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio
visto che abbiamo visto
da tanti anni ormai tutto un giorno,
lo stesso Duomo,
lo stesso uomo,
lo stesso orto,
quella casetta in basso,
quell’in alto casale,
vogliamo, vi prego, convolare?
Ci vogliamo, vi prego, rivivire?
"O may these joys be ripe before I die".