lunedì 2 novembre 2015

"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio





Don’t you know what’s so utterly sad about the past?
It has no future. The things that came afterwards have
all been discredited. 
Jack Kerouac, The Town and the City 





Nella primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse di «esporsi», come preferisce dire. In seguito abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno, ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva (valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che contestualmente le ispira e le comprende.
Ancora sull’abiura, mi scusi se mi dilungo: sarebbe possibile obiettare che rinnegare opere precedenti non abbia granché senso, che esse comunque sono la traduzione di quello che si è stati, e ciò che si è stato non si può cancellare. Anche se, con lei, credo che se ognuno di noi vorrebbe invalidare scritture passate, forse è perché l’oggetto di queste scritture non era nelle nostre corde neppure allora, e che solo ora siamo in grado di valutare alla stregua di incidenti di percorso, cose scritte e sottoscritte per inerzia, o unicamente per riempire il tempo, soprattutto: per un abbaglio. Se non ci appartenevano neppure al momento in cui le abbiamo scritte, perché allora, ora, non rinnegarle? Benché nel suo caso non sia sempre cosí, visto che lei parla anche di riscritture, il che supporrebbe una Aufhebung...

Il corpo è lo strumento base. No, forse è la plancia di tutti gli strumenti. Ho visto il mio corpo che si restringeva e dimagriva, fino ai 54 kg; poi l’ho visto mentre si irrobustiva; e poi l’ho visto robusto, definitivamente, e anche sano; l’ho visto senza cinque denti il 15 luglio 2011, e l’ho rivisto con i denti nuovi un anno dopo; e di nuovo l’ho visto sano. Se cambia lo strumento degli strumenti, cambia tutto. Ecco perché casso tutto.
In me è cambiata anche la voce. E la mia trasformazione scientifica e biologica in un perfetto figlio di buona donna è stata graduale. Prima di tutto ho conquistato un corpo adatto ad esprimere decentemente un po’ di coraggio. Anche prima ridevo e fuggivo, o disprezzavo, e mi si attribuiva il mitico coraggio intellettuale, ma ero incorporeo. Mi esprimevo, ma solo attraverso il disarmo generale e la miseria. Ero un corpo sottile e gettato in partibus infidelium. Per esempio, ci si aspettava da me un certo comunismo, o il materialismo. Il problema è che amo Bousquet. O Weil. O Mishima. O Drieu La Rochelle. Cosí come amo Chaplin e Welles. Li amavo anche quando ero incorporeo e incapace di distendermi e volare.
In fondo non scrivo per esprimere concetti ma per comunicare una specie di esempio. Esempio finisce con IO e contiene EMPIO e PIO. E poi: Es empio, l’empio Es, il contorto, il passionale. Il Fauno del film che sto facendo. Quindi non è detto che io sia un esempio del tutto sano. È un esempio abbastanza nutriente, questo sí. Ho notato che è utile soprattutto a chi – giustamente – lo rifiuta, e mi chiama disumano e vampiro (ma se i vampiri sono quelli di Jarmusch, perché no?).


Scrissi a proposito del suo Digesto che la sua storia personale è una storia lustrale, nel senso che lei si è lasciato dietro, ha distrutto, tanto nel testo che nella vita, le sue scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi, i passaggi. Scuola di poesia – è un dato di fatto, non lo neghi – trattiene ancora qualcosa di non adulterato, e gli esempi potrebbero essere molti, magari, appunto, eliminando i passaggi, radicalizzando ogni singolo assunto... 


Scuola di poesia è un titolo strano. Se uno legge il libro non impara a scrivere poesie, al limite impara perché non scriverle. C’è anche un messaggio segreto: la poesia non è urticante come certe opere d’arte, e tu perché vuoi essere debole? – la poesia non è la somma dei singoli testi (le poesie) ma è uno stato, e allora perché perdi tempo a scrivere dichiarazioni? E cosí via. Scuola di poesia ha ancora la pretesa di esprimere qualcosa, e quindi di insegnare. Il Digesto va già un po’ meglio: scorre, non insegna, ma ringhia e sospira. Il Digesto è digerito e lo stomaco funziona.


Nell’aprile dello scorso anno intitolai una nostra conversazione Ringkomposition. Lo scopo era duplice: chiudeva circolarmente una serie di testi che si apriva parlando della sua abiura, della nuova nominazione di poesia, piú propriamente da definire «opera musicale e biologica». E al contempo era vòlto a qualificare un Sannelli “ringhiante”. Ora lei sembra essersi pacificato, per certi versi, per lo meno quanto alla direzione da seguire nel suo lavoro, pur sempre eccentrico. Mentre d’altra parte in certi suoi testi appare piú aggressivo di prima, non risparmia niente e nessuno, scivola frequentemente nel turpiloquio e in formulazioni estreme, nell’accusa e disapprovazione piú dirette. Anche per la circostanza che lei non esita ad affrontare temi per nulla avvertiti come irrisolti. È reale questo dualismo o è solo una mia impressione?


Partiamo dal turpiloquio: il volgare. Ma io non sono volgare, per natura. Non ho la faccia adatta a dire le parolacce. Naturalmente le dico e le scrivo, ma recitando una parte. Quanto alla pace, io non sono in pace, né per natura né per condizioni personali. La mia mancanza di pace non è mitigata da medicine o droghe. Quindi me la tengo tutta, fino all’eccesso, voluto e non controllato. Lei mi parla di dualismo, ma non c’è un solo dualismo. Forse due dualismi, tre. Nel momento in cui l’espressione oscilla a seconda dei cambiamenti del corpo, della voce, dell’umore – e questa espressione viene pubblicata – è impensabile che ci siano un solo mezzo, una sola forma e un solo carattere. C’è l’unità del nome d’autore – io – che garantisce tutto. Ma tutto è multiforme. Non posso dare risposte precise a domande precise: solo indicazioni.

Lei, maestro dell’uso musicale del linguaggio, nei suoi articoli sull’attualità mette il lettore di fronte a questioni che esigono approvazione oppure disapprovazione. Appare coerente nell’onda ritmica del suo discorso che modula l’esposizione degli elementi di referenza, sicché siamo di fronte a una logica paradossale, per lo meno a una postulazione duplice, in bilico tra musicalità (ovviamente, mai fine a se stessa) e oggettività, in cui la ricerca di un equilibrio difficile potrebbe sembrare l’oggetto stesso da lei perseguito. Ma non c’è solo questo...


Le cose che uno può dire non sono infinite. Di solito si tratta di sí, no, forse, amo, odio, disprezzo, adoro, sopporto. Poi si argomenta, si complica perché è un bel gioco, si gesticola e si urla, ma la base è sempre ridotta. La musicalità è intesa piú come ritmo che come eufonia (e poi quale eufonia? Oggi, nel 2015?). La musicalità offre un po’ di rigore a quello che è sí, no, forse, amo, ecc.
Ora senta una bella esagerazione. Eccola: a modo mio sono un realista. Se scrivo sull’attualità preferisco attenermi ai fatti, come dice il Nuovo Realismo filosofico di Maurizio Ferraris: ho avuto modo di conoscerlo a grandi linee, grazie a lei. Allora si è confermata una mia insistenza di sempre: vedere se esiste un fondamento in quello che dico (e che si dice). Però sono realista a modo mio: sono pur sempre uno che vive dentro la religione, quella che ti chiede di capire la Trinità e di essere l’ultimo tra i fratelli (in pratica: un teologo, ma umile; e non è facile, perché i godimenti intellettuali distorcono la percezione di sé). So che questo mondo è irreale e transitorio, da un lato; e dall’altro: vivo e non posso rimuovere la realtà dei fatti, dall’altro lato. Come faccio a tenere insieme le due cose? Le tengo insieme, per forza di disperazione e di dualismo. È vero: un atto scritto precede le decisioni e i loro effetti. Poi, se prendo il treno devo fare il biglietto, se non pago la bolletta mi staccheranno la luce o il telefono (so che cosa significa), perché tra gli umani si usa cosí; se scrivo una cazzata, questa resterà per sempre nella Rete, perché cosí è, e cosí piace agli umani. E io non sono umano? Potrei dire che da bambino non giocavo con gli altri, e quindi io non sono umano perché sono asociale. Ma non basta dirlo, perché alla Telecom questo non importa. La parte del creditore è la parte del leone, all’interno del teatro del mondo. Va bene.
Quando mi sveglio il mare è sempre qui, sotto Salita degli Angeli. Non ho costruito io questo mare. C’era prima di me e continuerà ad esserci anche in assenza del mio fingere, figurarmi. La mer, la mer toujours recommencée!... Si figuri, Elisabetta. E nello stesso tempo: io sento irrazionalmente e inspiegabilmente che tutto questo non c’è. O forse: c’è e non c’è, nello stesso tempo. Sono grossolano e non filosofico, ora. Io mi sento questo: una lingua sonante e ritmica, incarcerata in qualcosa che non conosco (un mondo, un sistema, uno stato, uno Stato). E la lingua suona e le dita volano sui tasti, ma io non so dove sono. Conosco il freddo, la fame, la disperazione, ma non conosco esattamente dove sono. Comunque il mare è lí e non dà problemi. Anzi: mi ricorda che ci sono.


Cosa comunica quel manichino, che oltre tutto sembra somigliarle, con cui lei sembra voler stabilire un’intesa, in una foto di Fabio Giovinazzo? Figura silente, è la sua anima sorella, il suo specchio, qualcosa come la Duse velata di d’Annunzio, la sua coscienza, una sostituzione parodica della compagnia, la solitudine della genesi dell’opera?


È solo una testa di plastica, che i parrucchieri usano per esercitarsi, e io l’ho recuperata da un bidone della spazzatura. In realtà è una foto di scena dall’Arte del Fauno di Fabio Giovinazzo. Il film mostra due teste finte e la mia relazione con i simulacri: c’è la testa femminile, con i capelli lunghi, e quella maschile, calva. C’è una specie di scena sentimentale con la testa capelluta e simulo una bella intolleranza verso la testa calva, quella del maschio. Poi un giorno vado in un campo di calcio, do un po’ di coltellate ad entrambe le teste e le abbandono, perché va bene giocare ma ad un certo punto è meglio piantarla lí.
La fotografia ritaglia un momento ed esclude la testa maschile, quindi rappresenta qualcosa che il film stesso non dice. Che cosa rappresenta la testa, da sola? In primo luogo ho deciso, in sceneggiatura, che il Fauno è innamorato di ogni simulacro a due e tre dimensioni: statue, pitture, fotografie. Naturalmente è molto impegnato con donne, di solito belle, e di età diverse.
Il Fauno è tale perché resiste con la sua disperata ironia, all’interno del sistema in cui la lingua balla e canta, ma non capisce dove sia, come le dicevo. Allora le statue di marmo o di plastica sono consolazioni, ma non sono reali, mentre le donne vere sono reali, ma non consolano, perché basta che ci siano. Al Fauno – e a me – non piace escludere del tutto il contatto fisico. Ma rimane una contraddizione infelice: ciò che consola è arte ma non è vivente, quello che si può toccare è bello e vivo – è umano –, ma non consola. (Non esiste felicità sessuale, ecco il punto).


«Lotta di Classico» (www.massimosannelli.com/2010/09/lottadiclassico.html) è la sua nuova rivista, minimale: ci spiega il gioco di parole? Il progetto? Il ruolo sicuramente non scontato delle selezionatissime immagini, una o due ogni numero?



È chiaro che la lotta di Classico non è la lotta di classe, eppure non ne è la parodia. Dovrei dire che il classico sono io? E io sono la classe? Finché sono solo, sí, sono io. Ma poi che senso ha, davanti al mondo? Nessuno, solo vanità. Ma il narcisismo e la vanità sono cose diverse. La rivista è aperiodica e la curo tutta io, con i programmi piú semplici che esistano (Word 2000, Gimp, PDF24). Il lato ironico è la solitudine del redattore assoluto: nessun dialogo, nessuna redazione, nessuna retorica dell’ascolto reciproco e della fecondità del confronto, ecc. – niente di niente. E infatti funziona. Ma attenzione: funziona solo nel suo piccolo. Il cinema è già un’altra cosa, molto collettiva, per statuto.
Le immagini sono solo la parte grafica del mio lavoro. Mi sembra di introdurle a caso, non so se abbiano un significato. Consciamente, no, direi di no.


Vuole dirci qualcos’altro sul film L’arte del Fauno di Fabio Giovinazzo (www.lartedelfauno.blogspot.it)? E aggiornarci sulla sua piú recente attività di attore-regista-insegnante di recitazione?


Il film è un esperimento. È un urlo, dalla nicchia, che vuole diventare – e potrebbe essere – un urlo mainstream. Rappresenta la vita innaturale, ironica e nervosa del Fauno, io. Appare un vero mostro, ma elegante; una specie di tombeur de femmes, ma singolare e molto solo, alla fine; un intellettuale e attore (il Fauno ha il mio vero nome, nel film) che tocca la spazzatura, prende l’acqua alla fontanella e ci si lava i capelli. Tutto questo è filmato con una certa grazia stilizzata, perché le disperazioni non hanno bisogno di occhi retorici, e il cinema è una cosa seria, come il punto di vista di Dio.
Per la recitazione insegnata, ecco uno dei miei appunti: «Ho insegnato a 380 cuccioli dell’uomo, per 5 giorni. Allora ho tolto i freni, e ho insegnato tutto, per 5 giorni; cosí ho insegnato tutto, per 5 giorni a 380 cuccioli. Nessuna oscenità – quella è solo per gli adulti – e nessuna durezza visibile; ma la forza della voce, sí; e muovere il corpo, sí; e colpire le coppe per suonarle e la bottiglia vuota, per suonarla, sí. DOVE c’è un piccolo genio – nell’erba, nell’opera, sul pavimento – ALLORA il genio deve essere coinvolto e non sarà piú maledetto, ma sarà un buon leader; sarà una primadonna – perché è una bambina – e sarà perfetta. Da ora in poi: sarò il regista delle amazzoni? È una cosa buona, perché le amazzoni sono precise, ma allegre, non sono piú maledette, hanno orecchio, vogliono apparire e io voglio la stessa cosa».


Nei suoi testi, lunghi o brevi che siano, ricorre spessissimo Pasolini, e proprio in questi giorni ha parlato anche delle reazioni assurde alla sua nudità – scandalosa nel caso di Pasolini, e chissà perché non altrimenti nel caso di altri. È forse Pasolini il suo vero maestro?


Pasolini non è un poeta definitivo (ma Trasumanar e organizzar è un libro potente, e non bisogna credere a chi adora le scenette friulane); è un regista spesso impreciso, e i romanzi sono retorici, ecc.; ma questo non significa niente. Davvero, niente. Le Opere di Pasolini sono illimitate, ma non sono l’essenziale. Davvero, anche se Pasolini si vanta di essere un maledetto mostro che pensa solo a lavorare. E invece no, io dico che il cuore non è quella massa di opere. Le opere sono la scusa per stare sulla piazza e agitare l’acqua. Perché Pasolini è un Personaggio ed è un Esempio. È l’Es empio, versatile e visibile.
Pasolini è stato il perfettissimo Narciso, ma non vanesio: non sorride nemmeno quando mostra il suo sesso davanti a Dino Pedriali. È Narciso incrociato con il re David, poeta e profeta, e con Sade, uomo di lettere e porco. Un caos vivente, ma fecondo, anche se è stato un caos insano. Sí, è il mio maestro, va bene, ma non è il solo. Adesso sorge Marzio Pieri e grida che mi credo Pasolini. Gli rispondo che non mi credo niente. Mi basto, furiosamente. Bastono anche.


Come Pasolini posò per Dino Pedriali, lei appare in un e-book di Fabio Giovinazzo, e-Flies. Vuole spiegare il senso del titolo e della scelta?


Ora non è che tutto sia ad immagine di Pasolini, se no che cosa si vive a fare? Il titolo mette insieme molte cose: è l’anagramma di selfie, e flies sono le mosche e i voli, con la e- iniziale che rimanda all’elettronica. Le mosche ronzanti, i voli liberi, l’elettronica come ampliamento delle libertà possibili. E poi la voglia di apparire, con la faccia messa lí, senza trucchi a parte un po’ di bilanciamento del bianco. Naturalmente non c’è la faccia levigata dei 20 anni o dei 30, ma una certa durezza raffinata, dopo i 40. Un po’ per ironia, certo. E poi perché faccio anche l’attore. E quando ragiono da attore – la metà del tempo, o anche di piú – non me ne importa niente delle buone norme umanistiche. Se mi diverto a fare qualcosa di appariscente, non dico «lasciatemi divertire», come Palazzeschi. Lo faccio e basta, perché il divertimento non dura molto. E lo chiamo divertimento solo per convenzione, ma per me o è studio o è lavoro o è silenzio.

Ma lei è felice? Oppure è infelice? E sa come essere felice? E lo è mai stato?



Felice no, e forse è impossibile. Soddisfatto sí, veramente. Ecco: direi soddisfatto. Nonostante tutto il delirio – delirio reale – che L’arte del Fauno farà vedere, spudoratamente. Chi ama Cecil Taylor non amerà piú Cristina Campo; non amerà piú l’odore innocente, il borotalco e la bella violetta, o la grafica dei libri Adelphi. Se ora penso a qualcosa come la felicità – quella futura, perché io non la vedo nel presente e tanto meno nella cosiddetta infanzia – penso ad una bella tensione. Non è proprio un’estasi, oggi. È qualcosa che uno sente, e la sente perché non tradisce e perché – alla fine – può dire, da solo: ora le mie opere mi assomigliano, ora non mi tradisco piú. 




Elisabetta Brizio

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