Qui la versione in pdf, che si legge meglio: http://www.youblisher.com/p/1252546-L-Es-empio-Il-caso-Massimo-Sannelli-a-cura-di-Elisabetta-Brizio/
Don’t
you know what’s so utterly sad about the past?
It
has no future. The things that came afterwards have
all
been discredited.
Jack
Kerouac, The
Town and the City
Nella
primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di
scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse
di «esporsi», come preferisce dire. In seguito
abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è
l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il
referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú
opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da
tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo
piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che
questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo
lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno,
ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva
(valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto
un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo
eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita
per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera
vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita
dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è
interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come
ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro
all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame
organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza
del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che
contestualmente le ispira e le comprende.
Ancora
sull’abiura, mi scusi se mi dilungo: sarebbe possibile obiettare
che rinnegare opere precedenti non abbia granché senso, che esse
comunque sono la traduzione di quello che si è stati, e ciò che si
è stato non si può cancellare. Anche se, con lei, credo che se
ognuno di noi vorrebbe invalidare scritture passate, forse è perché
l’oggetto di queste scritture non era nelle nostre corde neppure
allora, e che solo ora siamo in grado di valutare alla stregua di
incidenti di percorso, cose scritte e sottoscritte per inerzia, o
unicamente per riempire il tempo, soprattutto: per un abbaglio. Se
non ci appartenevano neppure al momento in cui le abbiamo scritte,
perché allora, ora, non rinnegarle? Benché nel suo caso non sia
sempre cosí, visto che lei parla anche di riscritture, il che
supporrebbe una Aufhebung...
Il
corpo è lo strumento base. No, forse è la plancia di tutti gli
strumenti. Ho visto il mio corpo che si restringeva e dimagriva, fino
ai 54 kg; poi l’ho visto mentre si irrobustiva; e poi l’ho visto
robusto, definitivamente, e anche sano; l’ho visto senza cinque
denti il 15 luglio 2011, e l’ho rivisto con i denti nuovi un anno
dopo; e di nuovo l’ho visto sano. Se cambia lo strumento degli
strumenti, cambia tutto. Ecco perché casso tutto.
In
me è cambiata anche la voce. E la mia trasformazione scientifica e
biologica in un perfetto figlio di buona donna è stata graduale.
Prima di tutto ho conquistato un corpo adatto ad esprimere
decentemente un po’ di coraggio. Anche prima ridevo e fuggivo, o
disprezzavo, e mi si attribuiva il mitico coraggio intellettuale,
ma ero incorporeo. Mi esprimevo, ma solo attraverso il disarmo
generale e la miseria. Ero un corpo sottile e gettato in
partibus infidelium. Per esempio, ci si aspettava da me un certo
comunismo, o il materialismo. Il problema è che amo Bousquet. O
Weil. O Mishima. O Drieu La Rochelle. Cosí come amo Chaplin e
Welles. Li amavo anche quando ero incorporeo e incapace di
distendermi e volare.
In
fondo non scrivo per esprimere concetti ma per comunicare una
specie di esempio. Esempio finisce con IO e contiene EMPIO e
PIO. E poi: Es empio, l’empio Es, il contorto, il passionale. Il
Fauno del film che sto facendo. Quindi non è detto che io sia un
esempio del tutto sano. È un esempio abbastanza nutriente, questo
sí. Ho notato che è utile soprattutto a chi – giustamente – lo
rifiuta, e mi chiama disumano e vampiro (ma se i
vampiri sono quelli di Jarmusch, perché no?).
Scrissi
a proposito del suo Digesto che
la sua storia personale è una storia lustrale, nel senso che lei si
è lasciato dietro, ha distrutto, tanto nel testo che nella vita, le
sue scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi, i
passaggi. Scuola
di poesia –
è un dato di fatto, non lo neghi – trattiene ancora qualcosa di
non adulterato, e gli esempi potrebbero essere molti, magari,
appunto, eliminando i passaggi, radicalizzando ogni singolo
assunto...
Scuola di poesia è un titolo strano. Se uno legge il libro non impara a scrivere poesie, al limite impara perché non scriverle. C’è anche un messaggio segreto: la poesia non è urticante come certe opere d’arte, e tu perché vuoi essere debole? – la poesia non è la somma dei singoli testi (le poesie) ma è uno stato, e allora perché perdi tempo a scrivere dichiarazioni? E cosí via. Scuola di poesia ha ancora la pretesa di esprimere qualcosa, e quindi di insegnare. Il Digesto va già un po’ meglio: scorre, non insegna, ma ringhia e sospira. Il Digesto è digerito e lo stomaco funziona.
Nell’aprile dello scorso anno intitolai una nostra conversazione Ringkomposition. Lo scopo era duplice: chiudeva circolarmente una serie di testi che si apriva parlando della sua abiura, della nuova nominazione di poesia, piú propriamente da definire «opera musicale e biologica». E al contempo era vòlto a qualificare un Sannelli “ringhiante”. Ora lei sembra essersi pacificato, per certi versi, per lo meno quanto alla direzione da seguire nel suo lavoro, pur sempre eccentrico. Mentre d’altra parte in certi suoi testi appare piú aggressivo di prima, non risparmia niente e nessuno, scivola frequentemente nel turpiloquio e in formulazioni estreme, nell’accusa e disapprovazione piú dirette. Anche per la circostanza che lei non esita ad affrontare temi per nulla avvertiti come irrisolti. È reale questo dualismo o è solo una mia impressione?
Partiamo dal turpiloquio: il volgare. Ma io non sono volgare, per natura. Non ho la faccia adatta a dire le parolacce. Naturalmente le dico e le scrivo, ma recitando una parte. Quanto alla pace, io non sono in pace, né per natura né per condizioni personali. La mia mancanza di pace non è mitigata da medicine o droghe. Quindi me la tengo tutta, fino all’eccesso, voluto e non controllato. Lei mi parla di dualismo, ma non c’è un solo dualismo. Forse due dualismi, tre. Nel momento in cui l’espressione oscilla a seconda dei cambiamenti del corpo, della voce, dell’umore – e questa espressione viene pubblicata – è impensabile che ci siano un solo mezzo, una sola forma e un solo carattere. C’è l’unità del nome d’autore – io – che garantisce tutto. Ma tutto è multiforme. Non posso dare risposte precise a domande precise: solo indicazioni.
Lei,
maestro dell’uso musicale del linguaggio, nei suoi articoli
sull’attualità mette il lettore di fronte a questioni che esigono
approvazione oppure disapprovazione. Appare coerente nell’onda
ritmica del suo discorso che modula l’esposizione degli elementi di
referenza, sicché siamo di fronte a una logica paradossale, per lo
meno a una postulazione duplice, in bilico tra musicalità
(ovviamente, mai fine a se stessa) e oggettività, in cui la ricerca
di un equilibrio difficile potrebbe sembrare l’oggetto stesso da
lei perseguito. Ma non c’è solo questo...
Le cose che uno può dire non sono infinite. Di solito si tratta di sí, no, forse, amo, odio, disprezzo, adoro, sopporto. Poi si argomenta, si complica perché è un bel gioco, si gesticola e si urla, ma la base è sempre ridotta. La musicalità è intesa piú come ritmo che come eufonia (e poi quale eufonia? Oggi, nel 2015?). La musicalità offre un po’ di rigore a quello che è sí, no, forse, amo, ecc.
Ora
senta una bella esagerazione. Eccola: a modo mio sono un realista. Se
scrivo sull’attualità preferisco attenermi ai fatti, come dice il
Nuovo Realismo filosofico di Maurizio Ferraris: ho avuto modo di
conoscerlo a grandi linee, grazie a lei. Allora si è confermata una
mia insistenza di sempre: vedere se esiste un fondamento in quello
che dico (e che si dice). Però sono realista a modo mio: sono pur
sempre uno che vive dentro la religione, quella che ti chiede
di capire la Trinità e di essere l’ultimo tra i fratelli (in
pratica: un teologo, ma umile; e non è facile, perché i godimenti
intellettuali distorcono la percezione di sé). So che questo mondo è
irreale e transitorio, da un lato; e dall’altro: vivo e non
posso rimuovere la realtà dei fatti, dall’altro lato. Come
faccio a tenere insieme le due cose? Le tengo insieme, per forza di
disperazione e di dualismo. È vero: un atto scritto precede le
decisioni e i loro effetti. Poi, se prendo il treno devo fare il
biglietto, se non pago la bolletta mi staccheranno la luce o il
telefono (so che cosa significa), perché tra gli umani si usa cosí;
se scrivo una cazzata, questa resterà per sempre nella Rete, perché
cosí è, e cosí piace agli umani. E io non sono umano? Potrei dire
che da bambino non giocavo con gli altri, e quindi io non sono umano
perché sono asociale. Ma non basta dirlo, perché alla Telecom
questo non importa. La parte del creditore è la parte del leone,
all’interno del teatro del mondo. Va bene.
Quando
mi sveglio il mare è sempre qui, sotto Salita degli Angeli. Non ho
costruito io questo mare. C’era prima di me e continuerà ad
esserci anche in assenza del mio fingere,
figurarmi. La
mer, la mer toujours recommencée!...
Si figuri, Elisabetta. E nello stesso tempo: io sento
irrazionalmente e inspiegabilmente che tutto questo non
c’è.
O forse: c’è e non c’è, nello stesso tempo. Sono grossolano e
non filosofico, ora. Io mi sento questo: una lingua sonante e
ritmica, incarcerata in qualcosa che non conosco (un mondo, un
sistema, uno stato, uno Stato). E la lingua suona e le dita volano
sui tasti, ma io non so dove sono. Conosco il freddo, la fame, la
disperazione, ma non conosco esattamente dove sono. Comunque il mare
è lí e non dà problemi. Anzi: mi ricorda che ci sono.
Cosa
comunica quel manichino, che oltre tutto sembra somigliarle, con cui
lei sembra voler stabilire un’intesa, in una foto di Fabio
Giovinazzo? Figura silente, è la sua anima sorella, il suo specchio,
qualcosa come la Duse velata di d’Annunzio, la sua coscienza, una
sostituzione parodica della compagnia, la solitudine della genesi
dell’opera?
È solo una testa di plastica, che i parrucchieri usano per esercitarsi, e io l’ho recuperata da un bidone della spazzatura. In realtà è una foto di scena dall’Arte del Fauno di Fabio Giovinazzo. Il film mostra due teste finte e la mia relazione con i simulacri: c’è la testa femminile, con i capelli lunghi, e quella maschile, calva. C’è una specie di scena sentimentale con la testa capelluta e simulo una bella intolleranza verso la testa calva, quella del maschio. Poi un giorno vado in un campo di calcio, do un po’ di coltellate ad entrambe le teste e le abbandono, perché va bene giocare ma ad un certo punto è meglio piantarla lí.
La
fotografia ritaglia un momento ed esclude la testa maschile, quindi
rappresenta qualcosa che il film stesso non dice. Che cosa
rappresenta la testa, da sola? In primo luogo ho deciso, in
sceneggiatura, che il Fauno è innamorato di ogni simulacro a due e
tre dimensioni: statue, pitture, fotografie. Naturalmente è molto
impegnato con donne, di solito belle, e di età diverse.
Il
Fauno è tale perché resiste con la sua disperata ironia,
all’interno del sistema in cui la lingua balla e canta, ma non
capisce dove sia, come le dicevo. Allora le statue di marmo o di
plastica sono consolazioni, ma non sono reali, mentre le donne
vere sono reali, ma non consolano, perché basta che ci siano.
Al Fauno – e a me – non piace escludere del tutto il contatto
fisico. Ma rimane una contraddizione infelice: ciò che consola è
arte ma non è vivente, quello che si può toccare è bello e vivo –
è umano –, ma non consola. (Non esiste felicità sessuale, ecco il
punto).
«Lotta di Classico» (www.massimosannelli.com/2010/09/lottadiclassico.html) è la sua nuova rivista, minimale: ci spiega il gioco di parole? Il progetto? Il ruolo sicuramente non scontato delle selezionatissime immagini, una o due ogni numero?
È chiaro che la lotta di Classico non è la lotta di classe, eppure non ne è la parodia. Dovrei dire che il classico sono io? E io sono la classe? Finché sono solo, sí, sono io. Ma poi che senso ha, davanti al mondo? Nessuno, solo vanità. Ma il narcisismo e la vanità sono cose diverse. La rivista è aperiodica e la curo tutta io, con i programmi piú semplici che esistano (Word 2000, Gimp, PDF24). Il lato ironico è la solitudine del redattore assoluto: nessun dialogo, nessuna redazione, nessuna retorica dell’ascolto reciproco e della fecondità del confronto, ecc. – niente di niente. E infatti funziona. Ma attenzione: funziona solo nel suo piccolo. Il cinema è già un’altra cosa, molto collettiva, per statuto.
Le
immagini sono solo la parte grafica del mio lavoro. Mi sembra di
introdurle a caso, non so se abbiano un significato. Consciamente,
no, direi di no.
Vuole dirci qualcos’altro sul film L’arte del Fauno di Fabio Giovinazzo (www.lartedelfauno.blogspot.it)? E aggiornarci sulla sua piú recente attività di attore-regista-insegnante di recitazione?
Il film è un esperimento. È un urlo, dalla nicchia, che vuole diventare – e potrebbe essere – un urlo mainstream. Rappresenta la vita innaturale, ironica e nervosa del Fauno, io. Appare un vero mostro, ma elegante; una specie di tombeur de femmes, ma singolare e molto solo, alla fine; un intellettuale e attore (il Fauno ha il mio vero nome, nel film) che tocca la spazzatura, prende l’acqua alla fontanella e ci si lava i capelli. Tutto questo è filmato con una certa grazia stilizzata, perché le disperazioni non hanno bisogno di occhi retorici, e il cinema è una cosa seria, come il punto di vista di Dio.
Per
la recitazione insegnata, ecco uno dei miei appunti: «Ho
insegnato a 380 cuccioli dell’uomo, per 5 giorni. Allora ho tolto i
freni, e ho insegnato tutto, per 5 giorni; cosí ho insegnato tutto,
per 5 giorni a 380 cuccioli. Nessuna oscenità – quella è solo per
gli adulti – e nessuna durezza visibile; ma la forza della voce,
sí; e muovere il corpo, sí; e colpire le coppe per suonarle e la
bottiglia vuota, per suonarla, sí. DOVE c’è un piccolo genio –
nell’erba, nell’opera, sul pavimento – ALLORA il genio deve
essere coinvolto e non sarà piú maledetto, ma sarà un buon leader;
sarà una primadonna – perché è una bambina – e sarà perfetta.
Da ora in poi: sarò il regista delle amazzoni? È una cosa buona,
perché le amazzoni sono precise, ma allegre, non sono piú
maledette, hanno orecchio, vogliono apparire e io voglio la stessa
cosa».
Nei suoi testi, lunghi o brevi che siano, ricorre spessissimo Pasolini, e proprio in questi giorni ha parlato anche delle reazioni assurde alla sua nudità – scandalosa nel caso di Pasolini, e chissà perché non altrimenti nel caso di altri. È forse Pasolini il suo vero maestro?
Pasolini non è un poeta definitivo (ma Trasumanar e organizzar è un libro potente, e non bisogna credere a chi adora le scenette friulane); è un regista spesso impreciso, e i romanzi sono retorici, ecc.; ma questo non significa niente. Davvero, niente. Le Opere di Pasolini sono illimitate, ma non sono l’essenziale. Davvero, anche se Pasolini si vanta di essere un maledetto mostro che pensa solo a lavorare. E invece no, io dico che il cuore non è quella massa di opere. Le opere sono la scusa per stare sulla piazza e agitare l’acqua. Perché Pasolini è un Personaggio ed è un Esempio. È l’Es empio, versatile e visibile.
Pasolini
è stato il perfettissimo Narciso, ma non vanesio: non sorride
nemmeno quando mostra il suo sesso davanti a Dino Pedriali. È
Narciso incrociato con il re David, poeta e profeta, e con Sade, uomo
di lettere e porco. Un caos vivente, ma fecondo, anche se è stato un
caos insano. Sí, è il mio maestro, va bene, ma non è il solo.
Adesso sorge Marzio Pieri e grida che mi credo Pasolini. Gli rispondo
che non mi credo niente. Mi basto, furiosamente. Bastono anche.
Come Pasolini posò per Dino Pedriali, lei appare in un e-book di Fabio Giovinazzo, e-Flies. Vuole spiegare il senso del titolo e della scelta?
Ora non è che tutto sia ad immagine di Pasolini, se no che cosa si vive a fare? Il titolo mette insieme molte cose: è l’anagramma di selfie, e flies sono le mosche e i voli, con la e- iniziale che rimanda all’elettronica. Le mosche ronzanti, i voli liberi, l’elettronica come ampliamento delle libertà possibili. E poi la voglia di apparire, con la faccia messa lí, senza trucchi a parte un po’ di bilanciamento del bianco. Naturalmente non c’è la faccia levigata dei 20 anni o dei 30, ma una certa durezza raffinata, dopo i 40. Un po’ per ironia, certo. E poi perché faccio anche l’attore. E quando ragiono da attore – la metà del tempo, o anche di piú – non me ne importa niente delle buone norme umanistiche. Se mi diverto a fare qualcosa di appariscente, non dico «lasciatemi divertire», come Palazzeschi. Lo faccio e basta, perché il divertimento non dura molto. E lo chiamo divertimento solo per convenzione, ma per me o è studio o è lavoro o è silenzio.
Ma lei è felice? Oppure è infelice? E sa come essere felice? E lo è mai stato?
Felice no, e forse è impossibile. Soddisfatto sí, veramente. Ecco: direi soddisfatto. Nonostante tutto il delirio – delirio reale – che L’arte del Fauno farà vedere, spudoratamente. Chi ama Cecil Taylor non amerà piú Cristina Campo; non amerà piú l’odore innocente, il borotalco e la bella violetta, o la grafica dei libri Adelphi. Se ora penso a qualcosa come la felicità – quella futura, perché io non la vedo nel presente e tanto meno nella cosiddetta infanzia – penso ad una bella tensione. Non è proprio un’estasi, oggi. È qualcosa che uno sente, e la sente perché non tradisce e perché – alla fine – può dire, da solo: ora le mie opere mi assomigliano, ora non mi tradisco piú.
Elisabetta Brizio |
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