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sabato 9 dicembre 2017
Moto e resistenza delle cose
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».
Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.
sabato 16 ottobre 2010
INSTRUMENTA VOCALIA. ELEGIA PER VOCE E VISIONE
INSTRUMENTA VOCALIA
RAPSODIA PER VOCI E VISIONE
[Tre voci leggeranno, con un tono grave, cupo, ma insieme distaccato, o se si preferisce annoiato, ma in certo modo fatale, i passi che seguono, tratti da Varrone, Aristotele, Platone, Hegel, Seneca, Pindaro, Dante. Nel frattempo, scorreranno sullo schermo immagini – montate secondo la logica del détournement situazionista, e prelevate dalle fonti più diverse, filmiche o documentaristiche -, nell'ordine, di fabbriche, uffici, infine cadaveri]
VOCE A Instrumenti genus vocale et semivocale et mutum........ Alcuni distinguono gli apparecchi in tre categorie, ovvero parlanti, semiparlanti e muti: i parlanti sono gli schiavi, i semiparlanti i buoi, i muti sono i veicoli. ...operarios parandos esse, qui laborem ferre possint..... Bisogna procurarsi della mano d`opera in grado di sopportare la fatica. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti... Quelli, tra di loro, che sovrintendono al lavoro è necessario che possiedano almeno un pizzico di umanità e di sapere, che siano onesti e più anziani dei semplici braccianti. I caporioni vanno resi più zelanti conferendo loro gratifiche, e facendo sì che abbiano qualche briciola di patrimonio e, come mogli, delle compagne di servitù da cui abbiano figli; in tal modo essi finiscono per diventare più fedeli, e più saldamente vincolati. ....ut quibus quid gravius sit imperatum aut animadversum qui, consolando, eorum restituat voluntatem ac benevolentiam in dominum.... Gli schiavi diventano più diligenti nel lavoro quando li si tratti con maggiore generosità riguardo al cibo, al vestire, ai momenti di pausa dal lavoro, e con altri mezzi di questo genere, in modo che a quegli stessi cui venga imposto un lavoro o inflitta una punizione troppo grevi, tutto ciò, confortandoli, restauri la loro buona disposizione e l`attaccamento al capo.
VOCE B Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato dalla sua umanità. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata - Anànke dè pròton .... àrchon dè kài archòmenon physei, dià tèn soterìan... ed è necessario che sia così fra gli uomini, per la loro salvezza.
VOCE A Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro.... ...... Anthròpous .... ek pàidon òntas en desmòis...; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena hòste ménein te autoùs eis te to prosthen monon oràn, kùklo de tàs kephalàs upò toù desmoù adynàtous periàghein.... . Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un piccolo muro, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Se un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?
VOCE C Il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo; così il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa, ossia il godimento: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento. Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, raggiunge ed assapora la dipendenza della cosa, e puramente la gode; il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora. Pòlemos pànton patèr, pànton basiléys.......
VOCE A Pànton chremàton métron estìn anthropos? Misura di tutte le cose... sepolcro datore e dimora di vita ..... Mè phynai pànton phériston.... Quo non nata iacent..... Meglio è per l'uomo non essere nato....... .... nos qui morimur paululum cotidie..... ..... e non vedere la luce del sole.
[Qui inizieranno a scorrere tristi e dolci immagini di morti bambini. La recitazione si farà, via via, più risentita e più cupa, più ferale ed inflessibile, eppure impassibile, necessaria, come in un rito].
VOCE B È oscena la morte. La morte che muore con noi, che trascina perfino se stessa nel seno del niente... .....an toti morimur nullaque pars manet nostri, cum profugo spiritus halitu immixtus nebulis cessit in aera.... Questo filo di fumo tu lo segui, e domani non sarà che un passaggio di nuvole (...) insieme a noi, giù fino in fondo all’abisso del tempo, leggero. (...)
quo cursu properat volvere saecula
astrorum dominus....
ut calidis fumus ab ignibus
vanescit
(...) Dopo la morte niente. È niente la morte: il traguardo che tagli sudato in affanno alla fine di un’ultima corsa. È il caos che ti vuole. Tu ascoltalo.... .....
post mortem nihil est ipsaque mors nihil,
......
tempus nos avidum devorat et chaos.
Ecco, disciogli in lui la paura, in lui - senza tempo - ogni vana speranza.
VOCE A Philòphron Hesychìa, Dìkas O meghistòpoli thugàter boulàn te kài polémon échoisa klaìdas hypertàtas... O sapiente acquiescenza, figlia di Giustizia, tu che colmi le città di consigli e di guerre, e tieni in mano le supreme chiavi epàmeroi... Tì de tìs? Ti d'ou t's? skiàs ònar ànthropos... Effimeri.... Chi è uno? chi non è? Sogno o fantasma di breve ombra, l'uomo.
(.....)
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo' e 'l `dindi',
pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia......
...
quaeris quo iaceas post obitum loco...
........
E ancora tu chiedi dopo dove sarai?
- quo non nata iacent -
Ma lo sai: dove sono le cose mai nate.
Matteo Veronesi
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