mercoledì 13 gennaio 2010
Patrizia Garofalo, "'Occhi di zagara' di Paola Sarcià"
E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi.
Questi i versi splendidi, potenti, sonanti, luminosamente lirici e mediterranei, che ad un poeta oggi troppo snobbato dalla critica accademica, Salvatore Quasimodo, furono ispirati dal profumo della zagara (un fiore che, diceva, se non erro, anche D'Annunzio, evoca il suo profumo con il solo suono, lieve, alato e insieme intenso, del proprio nome) - versi da raffrontare, forse, con quelli che Montale rivolse, invece, al gelido vento del nord, che è al contrario salvifico proprio perché blocca, paralizza, "suggella" sul nascere la vita con il suo assiduo, spesso doloroso, moto e mutamento, con le sue potenzialità angoscianti proprio perché indeterminatamente molteplici: "Ritorna più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del possibile".
Fiore che ha occhi di poeta, fiore dal profumato pianto, come dice splendidamente la Garofalo, la zagara è, rispetto alla ginestra leopardiana, simile e insieme diversa. Al pari di essa resiste, nonostante tutto, con la sua assurda e vana bellezza spuntata dalle asperità e dall'abbandono, alla dolorosa angoscia del vuoto; ma lo fa non con l'umiltà dello stelo "lento", flessibile, potentemente docile, della ginestra, bensì con l'intensità decisa, con la disperata gioia dei suoi colori (l'opposto del rifiuto montaliano del croco dalle tinte troppo accese e squillanti) e dei suoi afrori.
Ma, in definitiva, nell'un caso come nell'altro, il profumo non consola che i deserti, si innalza, come in "Ognissanti" di Manzoni, "ai deserti del cielo", in offerta generosa e vana, non vista, levata e consacrata ad una alterità e ad un'assenza - eppure in sé, e per il devoto offerente, e forse anche per il misterioso, eterno Altro, essenziale e vitale.
M. V.
“All’inizio fu la stanza dei bambini, con le finestre che davano sul giardino e oltre il giardino, il mare” (V.Woolf, Le onde)
“Fai sempre in modo che l’uomo sia figlio dell’attimo in cui roccia e mare s’incontrano” ( Heine )
Il mare, nella parola dell’autrice, assume una valenza fortemente musicale e, come l’onda e il suo dissolversi, diventa paradigma dell’inarrestabile corso della vita e del tempo perso e ritrovato, nostalgico e inclemente, inaccessibile e segreto, nascita e morte, parola e silenzio.
Una “battigia” semantica di parole cancellate e riscritte sulla riva del dolore , segnano la sabbia di sangue e di rinascite in un non allineamento sentimentale ed artistico che denota , in questa silloge d’esordio, l’onestà artistica dell’autrice.
La zagara è fiore forte, resiste al gelo pur nella fragilità del suo stelo rugiadoso, e ha occhi da poeta. Il fiore assunto a specularità di sé dalla poetessa viene a significare l’ossimoro dell’esistere nell’indissolubile connubio con gli abissi, il naufragio, la morte, la catarsi. Un libro di elaborazione del dolore nei confronti del quale l’autrice non si celebra né si offre vittima: con profumato pianto, diventa lei stessa la zagara che aspetta e nell’attesa si “ripensa” nel mondo dei sentimenti e del reale, suggerendo inconsapevolmente che il riscatto è proprio nello scriversi senza difese e rimozioni, e il suo dare forma al dolore mantiene inalterati i solchi del tempo, le cicatrici e la loro rielaborazione emotiva.
Paola Sarcià nell’accettazione di sé offre versi anche di un solo sintagma, imprigiona il tempo nell’urgenza dello scatto-immagine e, in modo icastico, ogni volta propone versi che incidono la pagina di una assoluta volontà di coscienza. Poesia quindi non immaginifica e sognata ma poesia dell’intelletto che ne contiene l’emozione. La silloge priva di memorialismo, di soggettivismo e personalizzazione costituisce un diario dell’anima; senza date di riferimento, titoli e senza patetismi persegue l’ipotesi di un “noi” come unici protagonisti del nostro attraversamento per mare.
Naufrago
nei tuoi occhi di mare
approdo sicuro
il tuo corpo
pone fine
al mio errare
Tutto
è
ombra e luce
un mare d’acciaio
riflette
la mia anima
Ostinata
perseveranza
fino al dolore dell’anima
fino a quando anche il dolore
si è arreso
all’essenza
di un’assenza
che spegne il fuoco
e prosciuga
il mare
Quest’ultima lirica, la cui incisività concettuale crea un forte impatto emotivo, segna un doloroso prosciugamento della sostanzialità dell’esistere nell’assenza,
L’intensivo iniziale “ostinata-perseveranza” si espande nel cielo che sembra scientemente raccogliere il dolore di una donna e smettere di risorgere luminoso .
Nella paronomasia (essenza –assenza), Paola Sarcià sfida la deriva dell’essenza nella sostanzialità dell’assenza, del vuoto, del baratro che tutto prosciuga, anche il mare - ma non la vita che continua ad essere fissata nel susseguirsi delle liriche con la “fede” di chi crede che il vivere vada scritto per non essere cancellato, e per rinascere alla vestale-poetessa come fuoco inestinguibile.
Inseguendo un profumo
di salsedine
ho confuso
le onde
con le nuvole
e
atteso una notte
di stelle di mare
Una tavolozza d’infinito confonde in un continuum mare e cielo, li profuma di salsedine e trasporta le stelle nel fondo del mare. Ho parlato dell’autrice come poetessa del mare per la varietà di etonimi che sono ad esso attribuibili e sempre così profondamente da sentirne sensibilmente la fisicità anche quella memoriale della nascita e del ritorno, del naufragio e dell’approdo.
“Luna d’Asia / dominatrice / seducente / di vascelli / in cerca / di rotte". Lo spaesamento e il dolore diventano viaggi per mare in cerca di ammaraggi e affidati alla luna, illuminata compagna di viaggio, cifra della solitudine poetica che in simbiosi con il creato rielabora in “fermo-immagine / lo scorrere della follia", in un “ fragore di onde / di spuma / di alghe”; “…l’onda sovrana / sfida la roccia / violenta di cicale /e di fronde nodose…".
Nella ipallage sorprendente in cui la roccia diventa attesa dell’incontro con il mare trovano il loro definirsi i versi di Heine citati in apertura, e il mare diventa il ritorno alle radici dell’autrice, la quale così definisce la sua poesia: "Pensieri / diafani / indistinti / si spandono/ sulla carta / polvere di sabbia…”.
Il mare è ancora “terra” di una bambina che scrive e gioca sulla sabbia, di una donna che ha “scavalcato mura d’ansia… / di labbra stuprate / di radici ferite", foriero di un’ancora probabile
“gita al faro” con tutte le nostalgie che comporterà. Sarà la Sicilia ad accoglierla e lei a “ripensarsi” nel luogo dell’anima, nella assolata terra del padre, e l’andamento lento dei versi la proietta, riconciliata, verso un approdo:
leggero il mio cammino
su questa terra
di ulivi gravidi
di fichi d’india
protesi in un abbraccio
al cielo
di agavi in fiore,
illuse
di distrarre la morte-
Di questo luogo
mi riconosco
figlia
e non più
errante
in un cielo opaco
fra vicoli
senza orizzonti
di una città antica.
Nello specchio
l’immagine riflessa
l’arcano richiamo
di terre assolate
levigate dal vento
bagnate dal mare
La Vestale non ha accettato il fuoco spento, ed esso si riaccende epifanico dentro di lei
Nella mia anima
in punta
di piedi
sono
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lunedì 30 novembre 2009
Patrizia Garofalo, "Quando la maschera cede il passo al volto. Nota sulla poesia di Claudio Moica"
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo
È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….
L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.
Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.
Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.
Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.
Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.
E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.
È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.
In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.
“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”
La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”
Patrizia Garofalo
giovedì 22 gennaio 2009
Luciano Benini Sforza, "Oltre la città" (poesie inedite)
Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.
Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.
Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.
Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.
Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.
Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.
Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).
*
Senza solchi
Senza divisioni, senza spaccature
infinite. Un mondo finalmente
senza solchi.
Se non quelli che tocchi
sulla pelle, fra le rughe.
*
A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano
Dormi
e sogna le cose
che possono raccontarti i tuoi sogni
o il cielo dentro i miei occhi.
Dormi
fra le nuvole delle mie parole
e raccontale ancora agli angoli
bagnati dal mare, alle mani
che ti stringeranno, ai giorni nuovi
quando, senza saperlo prima, conoscerai
la vita
e sarai finalmente grande,
un pezzo di sale e di aria
che gira e batte col mondo.
*
Nubi ad agosto (A M.)
Si accavallano basse le nubi
sulla tua casa,
sul giardino che aprivi con fatica
ostinata nella sabbia, mettendo
palme, iris, siepi di oleandro,
e fra le rocce
piante grasse o più comuni.
Chissà se adesso guardi questo piccolo
universo che continua il suo corso
senza di te nel liquido andare
delle stagioni.
Chissà
con che animo lo fai, se ancora
curvi sulla schiena i capelli biondi
e selvaggi, e hai la gioia
di vedere il verde di una macchia
quasi mediterranea
persino qui,
sulle rive che tocca l’Adriatico.
La tua sfida era anche col vento freddo
da nord-est, con le gelate ricorrenti
e un clima avverso:
ma da lontano posso dirti
che l’hai vinta,
che resiste il tuo giardino
sulla via che attraversa tutto il paese,
arrivando ora fino al porto,
alle radici dell’acqua.
In questo pomeriggio
un libeccio sgarbato, sai,
batte e confonde gli uomini e le cose,
li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,
si increspano
già le onde e le prime foglie cadute
si rincorrono o si perdono nell’aria.
Ma non basta:
vado fra le case e il tempo,
vedo qui e dentro,
e così da questa terra
che si è aperta come il tuo giardino
chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.
*
Col rosso si fermano
Mi hanno già ucciso,
anche se non hanno
usato cemento o pallottole.
Non hanno spostato un capello.
Ma i morti
oggi respirano, col rosso si fermano,
vanno al supermercato, leggono,
leggono libri e giornali.
E dentro le stanze,
non c’è un momento preciso,
la tastiera si invola,
scava ombre e lettere, un movimento
a sfumare,
un gesto in marcia
verso un crinale sempre più parallelo,
dipinto, senza tunnel, senza
crune.
Io sono il filo
che non passa,
il sangue deviato
come acqua sulle antiche pianure,
sulle dune,
sono nel vuoto
del tempo che passa sul video,
puoi toccarmi
con le dita se le accosti alla luce,
puoi vedermi, sentirmi per ore,
non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,
sono un uomo e un dio trasparente,
un’immagine
che corre dentro le case,
infila i tuoi pensieri,
è un fascio di notte radente.
(Per ogni angelo che cammina
coperto di luce e fuliggine)
*
Senza partire
Le cose hanno sempre
un loro sapore,
se le avvicini alle parole
vivono però un altro tempo,
hanno un altro passo,
come la nave che solca
leggera il canale, punta
di uomini e speranze
che taglia senza disordine
il porto, rondine
rovesciata dal cielo,
bolla di sottile armonia.
Ora passi anche tu,
il tuo vivere
fra giorni che nascondono
queste rive, questa
memoria che ti riporta
improvvisamente qui,
parlavamo sulle cose
che dopo rimangono,
qui, senza partire.
*
Nel fondo aperto degli occhi
Ti ho lasciato con un segno della mano,
che andassi avanti, senza fermarti
quaggiù dove le strade sono giorni
e i sogni a stormi vanno veloci
come aerei alti sopra le città,
piccole mappe ormai,
cerchi ripetuti di ombre e pietre.
Non ho mai pensato a un tuo ritorno,
nemmeno per lo spazio
lungo un dito
che ora mi separa dal pensarti.
Nemmeno al limite delle case, un battito
prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.
Ma sulle rive battute dalle gru
e dal tormento
l’onda di luce che il faro a Marina
scaglia tutte le notti a pescare nel cielo
sorprende un vento nuovo
umano e non umano.
E la sera tardi adesso
mi sporgo spesso
dall’universo stretto della mia stanza,
vedo le case, nuvole e fumo in aria,
e lampi, lampi di auto o baionette.
Così,
grande Padre, figlio abbandonato,
chiodo arrugginito e cercato,
vieni
dentro le ore colate come vernici
e diventi preghiera
nel fondo aperto degli occhi.