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mercoledì 3 maggio 2017

Elisabetta Brizio - "Il nome e l'enigma. Nuovi tentativi di avvicinamento a 'Natura morta' di Paolo Ruffilli"





(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)


Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende». Ricordate L’isola e il sogno? Dove, a differenza delle storie che erano affluite in Un’altra vita, non si dava la possibilità di un nuovo corso alla propria esistenza. Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, né devitalizzandolo in esiti di vaghezza, ma osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa inibizione Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: a chi apparteneva? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: l’inflessione pensante qui appariva in parte compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.

martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

martedì 2 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “L’'hortus sepultus' di Sergio Corazzini”




Sonetto della neve (uscito su “Rivista di Roma”, 25. III, 1905 con il titolo La neve, poi confluito in Le aureole, del 1905), è costruito su opposizioni che lungo i versi si redimono dissolvendosi, implicandosi e incorporandosi: l’orto è “triste” e “nudo”, il cielo è “morto”, la neve è “bianchissima e leggera”. Dapprima “maternamente” consolatoria, a conclusione del testo essa diviene oppressiva alla maniera del baudelairiano “vessillo nero”. L’alba è insidiosa, ma con “gesto lieve”, “sorrisa venne di sua luce chiara”, ma al contempo implacabile nel disvelare l’abbandono dell’orto - in cui, come altrove, è allusa la più peculiare forma di esistenza crepuscolare - nella sua condizione reclusoria, esemplificato in ossimoro nel verso conclusivo, sepolto nella “tetra dolcezza” della neve. Nondimeno, in Corazzini si verifica un indebolimento dello spleen baudelairiano in termini di estenuazione, di incremento della tonalità elegiaca rispetto alla baudelairiana dimensione dell’angoscia.

La vocazione poetica corazziniana è eminentemente elegiaca: anche nelle forme chiuse la sua “malinconia mortale” si dispiega in una incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirico-sensoriale, ridotte alla stregua di evocazioni - seppure talora evocazioni esatte nella loro precisione nomenclatoria, cui tuttavia è sotteso uno sforzo descrittivo incerto e tendenzialmente trasfigurante. Sono quasi del tutto assenti nel Corazzini più “maturo” qualsiasi idea di consistenza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua, e qualsivoglia variazione emotiva che ecceda dalla usata salmodiante inflessione stilistica, elegiaca e rinunciataria: in una parola, da una aura anticipativa di morte in un diffuso albore apportatore di verità. Tali referti d’immateriale sono resi nell’inevidenza delle immagini e attraverso risonanze che non raccontano il tempo, sguardi assorti di sostanza d’Erwartung sull’arcanità, in un ritmo (in Sonetto della neve legato ancora alle regole della versificazione tradizionale) lento e senza dissonanze né interferenze discordanti, in un continuum (malgrado le maggiori spezzature che figurano nei primi due versi) dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato e inespressivo (un transfert qui in piena corrispondenza con il referente “neve”), un bianco opaco e atonale risaltare del silenzio, tale da consacrare anche questi versi al trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore, delle ore e del tempo. La poesia crepuscolare non va alla ricerca di un tempo che resista all’oblio, ma si smarrisce in una consapevole meditazione sull’attesa, in una perplessità fissata in aeternum:


Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.


Una volta marginalizzata la presenza umana (della quale qui sopravvive solo un “muto cuore assorto”) l’orto e il catalogo analogico acquisiscono il valore di personificazioni: il cielo è dotato di anima e ha caratteristiche materne, l’alba esordisce attraverso una vaga gestualità. Nel sonetto la desolazione del “cielo morto” - altra variazione analogica dello spleen crepuscolare - si disfa con il cadere della neve, del cielo anima “bianchissima e leggera”, nell’orto cupo e desolato, fino a rimare con “morto” (seppure riferito a “cielo”). La leggerezza della neve, nella sua cadenza ipnotica, consola l’anima quasi fosse un fiorire di primavere. Ma l’alba disvela la qualità illusiva del corazziniano riferimento alla rinascita contenuto nel verso precedente, e l’orto staziona nel degrado del suo imprigionamento usato, con la variante vanamente suasiva della visione della “tetra dolcezza della neve”. La metafora della primavera, qui inusualmente - e comunque labilmente (non a caso rima con “sera”) - assunta a immagine consolatoria, ricorre diffusamente nella poesia di Corazzini, fino a costituire uno dei suoi più crudeli correlati oggettivi: essa è privazione della vita e insufficiente rifiorire dell’anima in Spleen, ennesima oggettivazione del motivo della morte nella eufemizzazione di bare fiorite in Il cimitero, simbolo dell’irrevocabilità del tempo in Toblack e in Il fanciullo, della disillusione in Ballata a morte, dell’obsolescente nostalgia nella probabilissima ipallage “Oh! primavere / di giardini lontani!”, in Dopo, testo che segna il corazziniano commiato dalle forme chiuse. E dalla vita, stando alle due ultime strofe, che delineano una quasi gozzaniana e michelstädteriana veglia crisalidea su quello stato limbico di incompiutezza che separa il “non essere più” dal “non essere ancora”:

Chiudi tutte le porte.
Noi veglieremo fino
all’alba originale,

fino a che un’immortale
stella segni il cammino,
novizii, oltre la Morte!


Ipallage, si diceva: in Dopo l’attributo “lontani” sintatticamente si riferisce a “giardini”, ma idealmente a “primavere”: in altri termini attraverso lo scambio Corazzini codifica tutto il senso di una nostalgia retrospettiva. Ma l’interrogativo vale per la maggior parte delle figure semantiche o retoriche (e finanche fonologiche), lo spostamento logico-grammaticale della determinazione che attiene al termine pressoché adiacente potrebbe anche oltrepassare il puro intendimento semantico e alludere a una spiritualità oscillante o non supportata da coscienza, a una dissociazione percettiva o cognitiva, nonché a una oggettività non adeguatamente concettualizzabile né iterabile, che adotta caratteristiche che non le ineriscono alle quali al contempo cerca di sottrarsi, ovvero a una verità incorporata che accomuna entrambi i termini (come nel paronomastico - e in tal caso fonologico - accostamento nominale Gilberte-Albertine, laddove le proprietà dei nomi paiono alchemicamente trapassare le une nelle altre, con le imprevedibili e “necessarie” conseguenze nella estetica proustiana, che ben sa il valore delle analogie, delle associazioni, degli echi remoti che risuonano al di sotto della soglia della coscienza).

In Per organo di Barberia, diversamente, la primavera è eminente emblema della poesia stessa, vale a dire una oblazione altrettanto vana (“Primavera di foglie / in una via diserta!”) come il suono dell’organetto, che inascoltato si disperde senza speranza di ricezione, cadendo nella sazia indifferenza del fondamentalmente edonistico contesto dannunziano (nondimeno, relativo più al dannunzianesimo che allo stesso D’Annunzio, del quale conosciamo più le cadute che le elevazioni). Oltrepassato il luogo comune della crepuscolare replica in chiave negativista e trasgressiva, e talora provocatoria, al presunto poeta-vate, resta per esclusione il referente “vita” (“la Vita si ritolse tutte le sue promesse”, dice Guido Gozzano) che il soggetto dell’esperienza percepisce come declino, mancanza, fuga, da reificare inoltrandosi nella metafisica dell’oggetto e delle analogie spirituali, attraverso le quali il pensiero si fa sensibile senza al contempo smarrire l’equilibrio tra ispirazione e testo. Illudersi di eludere la finitezza: è ciò che induce Corazzini a indulgere all’antropomorfismo (o viceversa a uno sfruttamento solo interiore del pretesto paesaggistico) e a riversarsi nelle metamorfosi della natura, i cui elementi, come il poeta stesso si finge, si rimettono all’avvicendarsi di estinzione e di ingannevoli prefigurazioni di riscatto. E in Per organo di Barberia la parola “vanità” (“vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!”) potrebbe anche rinviare alla poesia come privilegio solitario non a tutti accordato, o più presumibilmente a una condanna altrove non sperimentata. Prossimità di privilegio e di condanna, di elevazione e di perdizione: un motivo già superbamente leopardiano nel Passero solitario, e baudelairiano in L’albatros.

In Corazzini, fin dalle sue primissime prove in lingua, prevalgono un sentimento di consunzione e l’immagine di un temperamento sfaldato ed esausto che concorrono a delineare l’abolizione della differenza tra arte e vita in vista dell’inveramento del simbiotico nesso tra poesia ed esistenza; in tal senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria esistenza residuale come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando altri crepuscolari assumevano la morte, l’avvertimento dell’inconsistenza, nonché la tendenza a una antifrastica autosvalutazione, come metafore scritturali di una quasi snobistica effrazione nei confronti della cultura ufficiale. Ma tanto in Gozzano che in Corazzini l’uscita dalla storia e la trascrizione letteraria della vita, la loro stessa enfasi dimissionaria, si riveleranno sterili e ingannevoli quanto il loro originale:

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte
sorrido e guardo vivere me stesso.

(Guido Gozzano, I colloqui).


È con Le aureole che l’ispirazione di Corazzini inizia a progredire, paradossalmente, ritraendosi: il suo vocabolario poetico si assottiglia e si fissa intorno a scarsissimi motivi, declinando entro una ristretta sfera di temi, di accenti e di variazioni verbali, contemporaneamente all’imminente opzione versoliberista, ogni avanzo di slanci affettivi (aperti nondimeno a una maggiore possibilità di simbolizzazione) per una disincarnata trasvalutazione delle cose che ancora fanno parte del mondo. In questo procedere verbale e sentimentale palesemente à rebours, al lamento e al singulto sopravviene la contemplazione assorta. Predisporsi alla contemplazione del nihil aeternum (adombrato nella rima di carattere quasi performativo “chiara-bara”: forse solo alla morte pertiene la conoscenza), straniero a ogni forma artificiosa del sentire e del fare versi regredire verso un tempo anteriore e in disparte nominarlo. Contravvenire alla vita, dunque, ma solo per necessità, al di qua - o forse oltre - ogni falsificazione. Consumato il dannunziano “sogno di Sperelli” (un sogno di carattere unicamente estetico, il cui fallimento è rivelato dallo stesso antieroe dannunziano che, come egli dice, si era gettato nella vita, come in una avventura insensata, “alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni”) alla poesia crepuscolare non attiene che amare l’agonia sillabando la vita, ma per viam negationis.


Elisabetta Brizio

domenica 27 dicembre 2009

Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"

Ha scritto Alessandro Assiri: "Credo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso". La scrittura letteraria assolve allora la sua funzione nell'opporsi alla deriva, alla deiezione, alla corsa vana e furiosa che espelle ed evacua ogni vissuto e ogni espressione come superflue zavorre, come materia occasionale da ardere e disperdere. Così, la sua scrittura recupera una dimensione memoriale, proustiana di richiamo, resurrezione, riappropriazione, redenzione del passato - ma, nel contempo, quella di un nietzscheano esorcismo che, attraverso la scrittura, strappa l'istante eterno dall'angoscia del suo perenne, indefinito ripetersi, nel momento stesso in cui lo eterna nella forma affidata al futuro delle interpretazioni (pregnante, in tal senso, il riferimento, proposto dalla Garofalo, ad Ulisse: un Ulisse che è forse più quello di Saba, sospinto al largo dal "doloroso amore" della vita, che quello di Ulisse, intento e fisso alla sua eroica meta).
Si leggeva in una raccolta precedente:

Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.

Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.

A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)



“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”

A.Assiri

“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”

P.P.Pasolini


“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.

Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.

Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.

Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.

“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.

Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.

E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.

Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.


Patrizia Garofalo

mercoledì 5 agosto 2009

ELISABETTA BRIZIO, "LA 'CONDIZIONE LILIALE' DEL MAETERLINCK DI 'SERRES CHAUDES'"

Ad Alvaro Valentini


Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

Maurice Maeterlinck



Letterarietà décadente, volendo adattare alla poesia una riflessione di Nietzsche sulla musica wagneriana, è eccedenza della parola rispetto alla frase, frase che a sua volta diventa straripante oscurando il senso della pagina, la quale esiste autonomamente facendo astrazione dall’insieme. È la celebre descrizione dello style de décadence che Nietzsche enunciava nel Caso Wagner (e sarebbe interessante notare che, sebbene dapprima Nietzsche vedesse proprio in Wagner un possibile antidoto alla décadence e al nichilismo, l’”opera d’arte totale”, che fonde Wort, Ton e Drama - i tre elementi che Wagner voleva sinesteticamente fondere nel dramma lirico - è molto prossima alle poetiche delle analogie e delle corrispondenze - e non è certo casuale l’interesse di Baudelaire e di Mallarmé per Wagner) e mutuava da Paul Bourget, uno stile che con la sua frammentazione rispecchiava “l’anarchia atomistica, la disgregazione del volere”. Il pensiero di Nietzsche era entropico, anticipava con la preveggenza del genio, colossale e ribelle, del dio sofferente, del poeta deriso, l’entropia, l’indeterminazione, il principio di Heisenberg, che postula l’inesistenza della conoscenza oggettiva, giacché si potrebbe osservare la materia solo alterandola. Ma certo l’idea della morte, del disfacimento morale e intellettuale come disgregazione di atomi gli derivava dalla frequentazione del pensiero greco, degli atomisti, ma anche degli stoici, per lo spettro di una ekpyrosis, di una universale conflagrazione che metteva capo, a sua volta, a una nuova rinascita, in un ciclo incessante, in un eterno ritorno che guarda oltre la siepe dell’infinito.
La décadence è disgregazione, tramonto, inabissamento, eppure, dato l’influsso che ha esercitato su tante correnti successive, dati i tanti fermenti, i tanti autori capitali che a essa si sono rifatti (l’avvicendarsi degli stili, delle correnti soggiace a una logica di eterno ritorno, di perpetuo rinnovamento, pressappoco nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, morivano per poi rinascere, per poi tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Giuseppe Antonio Borgese, inaugurando con la metafora del crepuscolo la definizione stessa di poesia crepuscolare, non sarebbe seguita la notte) finirà per introdurre una maniera aurorale di esprimere l’universo sommerso degli inesprimibili stati dell’essere.
Lo stile del decadentismo è l’esito di una mozione a oggettivare l’invisibile, indotta anche dalla scoperta dell’inconscio quale inesplorato universo dello spirito. Traendo l’inconscio dalla sua destinazione freudiana di traducibilità in linguaggio e in descrizione cosciente veniva restituita al contenuto latente la valenza di enigma e di territorio insondabile, da cui traggono origine sia la sfera della consapevolezza che i contenuti e le rivendicazioni dell’Es. Nuovi saranno allora gli strumenti conoscitivi per una nominazione dell’inconoscibile, nuovo il procedere linguistico per evocazioni. Allo scopo di esplicitare l’arcano cosmico e quotidiano si verifica un dirottamento del linguaggio da ogni configurazione logico-razionale in direzione della modalità analogica e degli aspetti fonico-cromatici della lingua; la percezione della contiguità tra le differenti sfere sensoriali sorge e si avvale dell’analogia quale espressione delle tonalità del mistero, del simbolo, di metafore sinestetiche, di rimandi sonori e delle armonie imitative. Questo perché la nuova poesia è intuizione di uno jenseits der Dinge, di un eidos celato, sotteso alla superficie che è tragicamente avvertita come increspatura. Enunciare equivale a descrivere l’increspatura, conoscere è rivelazione dell’incognito che si manifesta in forme ctonie e oscure, la cui intrasparenza permarrebbe - e Proust soltanto basterebbe a confermarlo - qualora fossero interpretati per via razionale. In Proust l’effabilià del ricordo ha a che fare con l’attitudine assimilatrice dell’analogismo. In fondo la Recherche, come scrisse Walter Benjamin, è la ridescrizione del “mondo nello stato dell’analogia”, laddove le baudelairiane correspondances vengono associate alla vita vissuta.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore”, diceva Proust sulla scorta di Baudelaire. La componente metafisica che illumina ogni parvenza trascorre in un fiat e come tale è inafferrabile. Essa non è il luogo dell’irrazionale, ma è il transito stesso, che, secondo Baudelaire, va enfatizzato e al contempo preservato attraverso l’ebbrezza. E l’ebbrezza costituisce, per così dire, il metodo baudelairiano per intercettare le intermittences e le impressione fuggevoli nella loro centralità sfuggente ed evasiva - o altrimenti detta marginalità significante - e fissarle con la forza evocatoria e medianica del pathos della parola: l’anima décadente apre un varco verso una verbalizzazione dell’insondabile. Diversamente che nell’analogia, dove salta ogni legame logico o di affinità con l’ordine originario delle cose, con il simbolo un oggetto viene assunto per significare un suo aspetto dominante (ad esempio, in Maeterlinck, l’acqua simboleggia la purificazione, il giglio la purezza, il ghiaccio l’indifferenza e la morte). Verificata l’insufficienza dell’uso convenzionale della lingua, non rimane che risolversi per la sua inusabilità: la parola pregnante e omnicomprensiva che infrange le norme della verosimiglianza diviene lo strumento conoscitivo che dissolve la dicotomia tra l’essere e il dire; le ombre e gli inafferrabili segni dell’ignoto vengono ontologizzati e ricondotti al noto attraverso vertiginose analogie in una sintassi illogica dell’inverificabile, in perpetua violazione dei codici linguistici tradizionali e delle gerarchie sintattiche, talora al limite della intelligibilità anche per l’incessante transcodificare da parte dello scriba della décadence. Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, come dicevano gli antichi alchimisti. L’alchimia della parola e la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea (a partire da questa sua matrice simbolista) si spiegano in questi termini.
Nelle Serres Chaudes (1889) Maurice Maeterlinck tenta di risillabare il mistero che sostanzia e avvolge le cose mediante una lingua affollata di simboli, inequivoco segno di una disposizione sentimentale essa stessa incantata e intraducibile, che oscilla in una pendolarità tra paura e desiderio di affidarsi al divino. Per via di illuminazioni (le quali, se assumono come connotatore un elemento particolare, diversamente che in Pascoli non vi si intrattengono oltremodo), Maeterlinck invoca la fine dell’angoscia del mistero, mentre Pascoli, poeta dell’arcano e dell’ineffabile, indugia sul particolare o lo pone in una sfera di superiore astrazione. Prevale in Pascoli il senso di meraviglia che si traduce in simboli maggiormente riconoscibili, emblemi che senza complicarsi ulteriormente attraversano tutta la sua produzione poetica.
La maeterlinckiana tensione a una condizione liliale, edenica, rarefatta e quasi incorporea, “rapita fuor de’ sensi”, redenta dai loro turbamenti e dalle loro contaminazioni esercitò sul D’Annunzio del Poema Paradisiaco e su Sergio Corazzini una seduzione particolare, seppure con esiti del tutto differenti. La serre chaude, equivalente con riserve (è assente in Pascoli il senso di asfissia che pervade tratti delle Serres) al claustrofilico nido pascoliano, passò nei crepuscolari “giardini abbandonati” (ma il discorso della discendenza crepuscolare dai simbolisti di lingua francese sarebbe quanto mai complesso), nell’hortus conclusus del Paradisiaco, che ripropone il tema dell’esigenza di purificazione successiva all’appagamento sensuale. Nondimeno, la dannunziana aspirazione a una generica bontà e a una regressione verso l’innocenza infantile, verso la madre, la disposizione all’ascolto della sofferenza altrui (tutti atteggiamenti protocrepuscolari) paiono offuscate da una poetica della raffinatezza parnassiana, oltre che vagamente ellenistica, dal culto esasperato della locuzione rara, dove la ritmicità della parola forma un suggestivo analogon con il verso libero che si espande in partiture più ampie. Il senso di stanchezza in cui si dilegua la soddisfazione sensuale (come accadrà anche nella produzione narrativa, nel Piacere in particolare), lo stato d’animo convalescenziale che sa i limiti dei sensi riconfluiscono in D’Annunzio in una sorta di edonistico e narcissico autocompiacimento estetico, che, al di là delle scelte espressive, si intrattiene voluttuosamente in questa sorta di stanchezza malinconica e di volontà d’oblio. Non c’è antitesi dunque tra la vita e la morte nel Paradisiaco, ma solo una equivoca fluttuazione dell’una nell’altra. È lo stesso motivo che separa D’Annunzio dall’anima crepuscolare e, ovviamente, da Maeterlinck, nel quale, perlomeno nelle Serres, è del tutto assente anche la dannunziana tensione a dissolversi nell’incessante fluire della vita della natura e a partecipare intimamente dell’eterno tornare della vita cosmica.
Secondo Milo De Angelis (stando all'introduzione all’edizione italiana del 1989) il Maeterlinck di Serres Chaudes sarebbe prossimo al Verlaine di Sagesse, quel Verlaine illuminato dalla passione cattolica trasmessa a Maeterlinck dalla sua traduzione - e dalla conseguente assimilazione - di Ornamento delle nozze spirituali di Jan van Ruysbroeck. Ma la conversione e il rigetto del suo vivre dans le dérèglement non impedirono a Verlaine, in alcuni testi, la ricaduta nell’intensità della sua vita precedente errante nella corruzione. Analogamente, in Maeterlinck pare dubbia la sincerità del suo pentimento: l’itinerario della sua anima - in costante oscillazione tra l’ascesa e il disastro - nel libro sfuma, attraverso immagini e illuminazioni improvvise e stridenti che interrompono un interludio di apatico e riflessivo silenzio, verso un vago sentimento di colpe non bene identificate, che talora pare configurarsi come autocompiacimento della colpa stessa. Cosicché il progetto spirituale delle Serres - un percorso verso un futuro di possibilità peraltro solo adombrato - si conclude con l’equivoca e tutta décadente intenzione-attesa di una cancellazione della colpa dopo lunghe “orazioni addormentate”, aspettando i “ceri stanchi nell’aurora”. Ma la sensazione in questo libro è di assistere - piuttosto che a un anelito verso desideri duraturi - a una graduale restrizione della vita e dello stile propri dell’identità residuale di un poeta del sepolcro, piuttosto che del sagrato.
Lontano è il tempo e il sapere del tempo nelle Serres, l’atmosfera è archetipicamente surreale come spesso in Maeterlinck (si pensi solo alla Stimmung di Pelléas et Mélisande). Tempo e luogo sono remoti e irriconoscibili. Fantasie esotiche, oscure rêveries, ambienti fantastici, contesti di provenienza, ombre, illuminazioni, silenzi e transustanziazioni mistiche si intersecano a un indefinito rituale del sacro, all’immagine ricorrente del giglio, alle iperoggettivazioni nei multivochi simboli della clausura come estraneità, esclusione dal mondo sensibile, protezione e opportunità di accedere a un altrove mistico, alla noia del recluso, che fin dal testo di apertura assume una configurazione di prolungamento in termini di estenuazione dello spleen baudelairiano, privato tuttavia del suo carattere eminentemente tragico. La condizione maeterlinckiana, non meno egotica rispetto a Baudelaire, è priva di tonalità tragiche e somiglia piuttosto a una forma di passività paga di permanere in “inazioni bianche”, all’inesplicabile perplessità di un’anima “malata di assenze” e di “attese morte”, e lo spleen si definisce come ossessiva decantazione dell’indifferenza e dell’apatia di fronte all’inconsistenza e alla insensatezza di tutte le cose, come magistralmente in Noia:

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,
I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;
Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,
I pavoni che passano nel mio sonno,
I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,
Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,
Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,
Attendere svogliati il tempo senza sole.

E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, enigmatico oltremodo, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana - come pure sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto.
Dell’universo della parola Maeterlinck sceglie voci senza tempo e senza storia che si riducono a invocazioni e a compulsive esclamazioni. C’è una omologia tra sogno e poesia, intesa come svelamento del dileguare della vita nel mistero in cui tutte le cose sono avvolte e svaporano. Malgrado il verbo declinato quasi costantemente al presente ci restituisca l’impressione di un’evidenza - di una parola giunta al possesso della luce -, esso non oltrepassa l’annunciazione di un compimento che nei fatti stenta a verificarsi: il presente viene dunque assunto come stigma della stasi.
Il linguaggio poetico è primordiale, non c’è rimozione né identificazione. La stessa iterazione quasi ossessiva di parole chiave, scandite in un ritmo costante e salmodiante, non fa che confermare la loro valenza archetipale. Ma le recondite figurazioni istituite per via analogica finiscono per complicarsi e implicarsi e la maeterlinckiana “vegetazione di simboli” talora trasmuta e cambia di senso (a titolo di esempio: esempio la campana di vetro - quella stessa, forse, sotto cui Montale confesserà di aver trascorso la sua paralizzata e angosciata giovinezza -, simbolo di imprigionamento e di clausura e al contempo di desiderio di separatezza e di difesa), anche in virtù dei frequentissimi accostamenti sinestetici (talora la noia è “blu”, il singhiozzo è “glauco”). Cambiano di segno, ma senza contraddizione alcuna, perché tutti gli aspetti del nostro io non si possono presentare contemporaneamente, in una simultaneità in grado di compendiarli. Vivere - e per il poeta decadente scrivere - equivale ad avvertire e trasferire sulla pagina le metamorfiche forme della vita, dal momento che, come diceva Proust, quello delle intermittences è il solo carattere di permanenza, di persistenza, e, paradossalmente, di equilibrio che ineriscono all’uomo.
Attingendo all’universo materiale delle parole e delle cose del mondo il poeta esprime realtà immateriali e di pensiero e incoerenti allegorie, performa, in altri termini, l’implausibile credibile. Il simbolo maeterlinckiano resta comunque al di qua del deragliamento dei sensi e secondo De Angelis rifluisce nella cantilena del recitativo. Né trattiene i segni di quell’”infernale” e di quell’“inappellabile” caratteristici di Rimbaud, quel carattere “fisicamente, dantescamente, corporeo”. È il simbolo che da noi sarà il crepuscolarissimo referente malinconico della noia, della preghiera-invocazione, del desiderio, del peccato, dell’aspirazione vaga ad affidarsi a una altrettanto vaga spiritualità, la quale non per questo rinuncia ad accordarsi con il mistero della vita, a esprimere adeguatamente correspondances e sfuggenti risonanze tra le cose.
Nel libro finisce per prevalere l’uso del verso libero (meno frequenti sono i metri regolari): allora l’allegorizzazione diviene dispiegata, il testo più sconnesso, disfatto, il simbolo svela realtà inattese e insospettabili correlazioni che vanno oltre i canonici abbinamenti simbologici. Viceversa, nella prima parte frequentissimi sono gli accostamenti sinestetici che diminuiscono gradualmente nel corso del testo.
Secondo De Angelis Maeterlinck insegue una “verità nascosta” che non coincide con la verità della fede. Un’aura di mistero alona l’oggetto, e il poeta non può far altro che constatare la sua inafferrabilità istituendo altre possibilità linguistiche. Vediamo, attraverso i testi, il mutare di alcuni dei segni-simboli - il loro svolgersi tentacolare - di questa complessa condizione.
Innanzitutto la titolazione: la serra è calda, secondo De Angelis, perché “bruciata dalla fede”. Nondimeno, la serra allude anche e soprattutto a una reclusione intrisa di pentimento, condizione annunciata come predominante sin dal testo di apertura (Serre chaude, per l’appunto) che è disseminato di espressioni che rimandano a una situazione claustrale (“porte chiuse”, “cupola”, “una musica di ottoni alle finestre degli incurabili”, “cortile dell’ospizio”, “sotto quelle campane”). In Serra di noia (“dove si vedono chiuse, / tra le vetrate profonde e verdi, / coperte di luna e di cristallo”), in Tentazioni (le “glauche tentazioni” del poeta “hanno tristemente coperto” con il loro “crescere sacrilego” l’aspirazione a una vita senza colpa, all’approdo a un Dio che disperda “i sogni della terra” e che rischiari la “serra malvagia”). Nei versi di Campane di vetro l’invocazione è rivolta a non sollevare le campane, e ad aver “pietà dell’atmosfera rinchiusa”, quasi fosse una protezione, un desiderio di ibernazione che tuttavia alla fine rivela tutto il suo carattere enigmatico nell’immagine dell’eremita nella cella e del fondo della grotta. In Fogliame del cuore “sotto la campana di cristallo azzurro” trova una tregua la sofferenza malinconica del poeta, e il giglio intona una “bianca, mistica preghiera”. In Anima calda l’ombra, le ciglia che “hanno chiuso le porte / su speranze ormai troncate” e le irraggiungibili “campane verdi della speranza” ci riportano a una condizione di timore e di impotenza. Lo stesso accade nel testo successivo, Anima, dove Maeterlinck introduce il colloquio con l’”anima sorella” (che sarà poi preponderante in Corazzini), nel quale ritornano le immagini della serra, degli ammalati, della sepoltura, della prigione, della torre, delle finestre d’ospedale, del convento. L’esortazione reiterata affinché “le finestre restino chiuse” emblematizza - nei versi di Ospedale - l’idea di protezione come “una serra sulla neve”, e uno “zampillo in mezzo alla stanza” induce a schiudere “appena la porta”, mentre il gigli stessi sono minacciati. In Desideri invernali la soglia dei sogni (e, gozzaniamente, delle ”rose che non colsi”, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato) è chiusa, e l’”anima stanca” del poeta pare estenuarsi nel rimpianto dell’innocenza lontanissima e perduta. In Ronda di noia i “gigli si aprono in strade / senza stelle e senza sole”, segnature di una ancora lontana redenzione. In Scafandro l’acqua diviene il luogo eletto a emblema del palpitare della vita, in opposizione al “palombaro nella sua campana per sempre” (si pensi, qui, all’immagine ungarettiana del poeta che scende nelle profondità delle acque per poi risalirne alla luce con i suoi canti, ma anche al palombaro, peraltro ben più giocoso, scanzonato, grottesco, di una celebre “parolibera” di Corrado Govoni). Riflessi è il testo dove la metafora dell’acqua sembrerebbe custodire l’arcano delle cose che dal di fuori appare solo come increspatura. E indicare una via di salvezza e di rigenerazione dalle imperfezioni della vita. :riflessi sarà, non per nulla, il primo, inquietante romanzo di Palazzeschi, tutto intriso di ambigue atmosfere simboliste, e pervaso da una simbologia floreale legata all’idea del disfacimento e della morte.
Il giglio, simbolo per definizione dell’aspirazione alla purezza spirituale, è insidiato da “uccelli notturni” nel testo di apertura, ritorna nell’immagine dei “gigli ingialliti del domani”, dei “gigli nel fondo di acque lontane”, segno di una innocenza non più perseguibile: il giglio è “fragile” nel suo “rigido pallore”, incapace di contrastare le tentazioni del corpo. Lungo le quartine di Anima calda Maeterlinck anticipa - dopo una serie di ipallagi - un tratto tipico della religiosità decadente, pavida e inerte, intrisa di noia e di solitudine: compare qui la parola “paura”, che tornerà meglio contestualizzata in Orazione (“la mia anima ha paura come una donna”). E in entrambi i casi il giglio costituisce l’oggettivazione di questa aspirazione alla purezza: “seminate gigli lungo le febbri”. Il giglio compare insieme all’immagine salvifica dell’acqua nei concitati versi di Ospedale, mentre in Ronda di noia è simbolo di apertura e di possibilità, nell’indifferenza del mondano senso comune: esiste, dirà poi Corazzini in Per organo di Barberia, l’adombramento di una rinascita “che nessuno raccoglie”, una “Primavera di foglie / in una via diserta”.
Questa sordità alla rinascita viene riconfermata in Acquario; la malattia della volontà è un perpetuo indugiare nella condizione di un desiderio di impossibile purificazione: allora i gigli diventano “di ghiaccio” e “sparsi per sempre / e morti sbocciando”, alla stregua di “fiori assenti”. Analogamente, in Riflessi, si delinea uno dei temi principali dell’opera, che sarà poi eminentemente corazziniano, quello dell’inconsistenza:

Sotto i riflessi profondi delle cose
Gigli, palme e rose,
Piangono ancora sotto le acque.

E ai fiori non avanza che sfogliarsi “a uno a uno”, “nell’acqua del sogno e della luna”. Irraggiungibili, dunque, redenzione e purificazione, nell’immagine intrecciata del giglio e dell’elemento liquido. Sono i “gigli appassiti” di Visioni, laddove l’insistenza sul verbo “passare” evoca lontananze perdute, mentre termini come “stanche”, “pesanti”, “sonno”, “lente”, “svogliate”, “immobile” si ricollegano alla noia di un’anima indolente e accidiosa. In Orazione (due sono i testi così intitolati nelle Serres) l’ennesima invocazione al Signore che sa la miseria del poeta e dei suoi “fiori maligni” (in esplicita opposizione ai gigli), la religiosità è vissuta espressamente come orfanità di un’”anima spossata” e come inaridimento nell’immagine del ghiaccio e nell’ossimorica “tristezza della mia gioia”.
La nota tristezza, nel rallentamento della scansione elencatoria e nel frequentissimo ricorso all’anafora, assume nella visionarietà di Sguardi diverse configurazioni: dal senso di soffocamento di “un pomeriggio d’estate in un museo di cere”, a uno stato d’animo da convalescente, enfatizza una immobilità, quasi da atmosfera cronostatica, un presente immobilizzato per un’analisi del tempo, che pare interdire ogni alternativa e ogni ulteriorità (sguardi “che soffrono di non poter essere altrove”, “sguardi muti”, “sguardi quasi soffocati”), fino alla resa dei “gigli delle guerre”. E ancora, in Attesa, incontriamo “gigli che non sbocciano”, una sospensione (“suonano sempre le stesse ore”) che in Pomeriggio si protrae nella paralisi “dei sogni immobili” e nel desiderio “dell’acqua sull’erba”. Ma l’anima, in Anima di serra, è “rinchiusa nel vetro” mentre la vita vera si schiude “sott’acqua” e i gigli si stagliano “contro i vetri chiusi”, in attesa che la luna “schiuda in silenzio le porte”. I gigli “si muovono sott’acqua / sfiorando gli eterni bagliori” si dice in Intenzioni, rivelazioni che avvengono sotto gli “occhi chiusi” del soggetto lirico, la cui anima “apre al volo dei cigni”, con chiara allusione a una auspicata elevazione morale. Il vetro diventa il diaframma tra il desiderio e la vocazione per “altre speranze”, in Vetro ardente:

Guardo antiche ore,
sotto il vetro ardente dei rimpianti;
E dal fondo blu dei loro segreti
I fiori emergono migliori.

Con la scomposta visionarietà di Contatti Maeterlinck compie una sorta di consuntivo (scandito dal ricorrere dell’invocazione “abbiate pietà!”) della propria esistenza, e affida alle mani il compito di descrivere gli ormai noti e autoindulgenti simboli di reclusione (“un convento senza giardino”, la serra, le - poi corazziniane - porte chiuse, la dimensione sotterranea, la prigione, la grotta) e di aspirazione alla vita (“a spargere un po’ d’acqua sulla soglia”), laddove l’immagine dell’acqua (già introdotta nel testo sotto la veste di “zampilli” e di “fontane”) finalmente “fresca e chiara”, a conclusione del testo, sembrerebbe aprire una possibilità di redenzione e di ritorno a uno stato di innocenza (“attendo che bagnino i miei sguardi, / l’erba morta dei miei sguardi, / dove tanti agnelli sono sparsi”).
Possibilità che si delinea come indugio perpetuo (“attendo sul viso la loro freschezza, / come un tesoro in fondo all’acqua”, “attendo che bagnino i miei sguardi”), variamente simbolizzato in Anima di notte, testo conclusivo del libro, dove il reiterarsi ossessivamente anaforico ed enfatico del termine “attendo” (peraltro debordante lungo tutto il libro) sancisce il senso di una redenzione come eterna vana ricerca e aspettazione – oltre che dell’idea patologica del tempo immobile, bloccato, e dello spazio chiuso, che anela a una impossibile apertura, a una preclusa, e soffocata sul nascere, dilatazione.
Già in Orazione Maeterlinck aveva delineato questo senso di esitazione nelle “ore spente”, nella “pallida indolenza” e nella seduzione per l’astensione dei “gigli ingialliti del domani”:

Abbiate pietà della mia assenza
Alla soglia delle intenzioni!
L’anima è pallida di impotenza
E di inazioni bianche.

Chiusura, clausura, rigetto, aseità, distanza dal mondo, mancanza di rapporto tra il Sé e le cose, secondo la definizione canonica dell’angoscia, della melanconia, del taedium vitae: il tutto però visto non solo come “cella triste” - direbbe Corazzini - della tortura esistenziale, ma anche come difesa, come ripiegamento interiore, protezione dell’io. Come spazio, infine, della creazione poetica e della stessa testualità. Il male e il rimedio coincidono, si incrementano l’un l’altro e si fondono in verbo poetico, perché la poesia si incarica di completare la vita, di darne la propria versione con altre forme:

Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

venerdì 15 maggio 2009

MORTE, SCRITTURA, MENZOGNA. SGUARDI SUL ROMANZO CONTEMPORANEO

Non è ovviamente pensabile poter riassumere, in queste poche pagine, tutti i molteplici, pressoché inesauribili caratteri e risvolti del romanzo contemporaneo: un discorso, quello del (e di conseguenza sul) romanzo, eminentemente contraddistinto dalla “polifonia” (cioè dal carattere composito, sfaccettato, multiforme, per più aspetti contraddittorio, che ad esso riconosceva Michail Bachtin nel suo ormai celebre Estetica e romanzo), dall'intreccio cangiante ed inestricabile dei cronòtopi (cioè delle situazioni, degli ambienti, delle atmosfere, delle unità spazio-temporali che lo compongono e in esso si intersecano), da un assiduo mutare dei punti di vista, delle angolazioni, dei piani narrativi e rappresentativi, e, infine, sovrastato e compiuto dall'artificio di cui parlava Sklovskij, vale a dire dallo straniamento (corrispettivo, con buona approssimazione, del Perturbante di cui parla la Psicanalisi), dallo sguardo “altro”, difforme, desueto, spiazzante, che il grande narratore, non asservito (come oggi perlopiù accade) alle banali, quasi meccaniche aspettative del pubblico e del mercato, riesce ad imporre alla materia trattata, alle ambientazioni, alle vicende, inducendo il lettore a modificare, o a mettere in discussione, la sua usuale e condivisa ottica sul mondo e sulla vita.

Ben prima del formalismo russo, del resto, già il nostro Pietro Borsieri, nelle Avventure letterarie di un giorno (un testo importante nella polemica fra romantici e classicisti che animò gli ambienti letterari italiani ai primi dell'Ottocento), definiva il romanzo come un genere «anfibio», ambivalente, diviso fra storia ed evasione, realismo ed immaginazione, ed impossibile da inserire nei canoni e nelle classificazioni di genere propri della classicità.

La «prosa della vita reale», specchio di una realtà già di per sé «ordinata a prosa», l'«epopea borghese» che Hegel, nell'Estetica, vedeva incarnate nel romanzo non si traducevano affatto, come avrebbero voluto certe restrittive letture ideologizzanti, in una stretta, predeterminata, quasi meccanica (o biologica) aderenza del discorso alle strutture storiche, sociali, economiche, ma lasciavano un largo margine alla capacità inventiva, analogica e trasfigurante dello sguardo letterario.

Eppure – quasi a ribadire, per una singolare ironia, per un curioso paradosso della storia e del pensiero, il carattere multiforme, caleidoscopico e, di conseguenza, inafferrabile del genere romanzesco – erano proprio alcune voci del mondo classico a definire per la prima volta, con sorprendente chiaroveggenza, taluni tratti essenziali e caratterizzanti del genere: da Apuleio, che nel proemio dell'Asino d'oro sottolineava di avere intrecciato, per il puro diletto del lettore (diletto, peraltro, dietro cui si celava, da esso veicolato, il messaggio profondissimo ed enigmatico di un percorso di iniziazione e di purificazione sotto il segno di Iside), «multas fabulas», avvalendosi di un «desultorium genus dicendi», di uno stile variegato, dinamico, mobile, proteiforme, divagante, polifonico appunto, a Luciano di Samosata, che nelle pagine introduttive della Storia vera rivendicava già (come avrebbe poi fatto, nel Cinquecento, Giraldi Cinzio nel Discorso dei romanzi) all'espressione letteraria la facoltà e il diritto di raccontare pseusmata poikila, «variopinte fole», pur se pithanos ed enalethos, in modo «persuasivo» e «non lontano dalla verità», e dunque di muoversi e vivere all'interno di una sorta di analogon rationis, come l'avrebbe chiamato il Baumgarten agli albori dell'estetica moderna, di una verità altra e difforme da quella ordinaria – in una specie, insomma, di mondo alternativo, virtuale, sospeso ed oscillante nei limbi dell'immaginazione e della fantasia, e nondimeno governato da una sua coerenza interna, da una sua peculiare ed autoreferenziale verosimiglianza, avallato e sorretto da leggi sue proprie, in certo modo omologhe o speculari, eppure non identiche, a quelle che governano la natura, la società e la storia.

Un'idea, questa della creazione artistica come opus superadditum operi, come mondo aggiunto al mondo, come creazione aggiunta alla Creazione, come "altra realtà" governata da sue leggi delle quali le parole retoricamente studiate ed elaborate sono i segni e le formule, che si ritroverà in varie estetiche moderne, dal manierismo fino al simbolismo e alla décadence.

Dichiarando di stare mentendo (anzi, letteralmente, dicendo la verità proprio nel momento in cui mente, in cui intreccia le sue variopinte fabulae), la figura del romanziere antico inaugura quella contaminazione, quella multiprospettica e spiazzante intersezione di verità e menzogna (menzogna in senso fenomenico e fattuale, più profonda e celata “verità” sul piano intellettuale, espressivo, in qualche caso morale) che rappresenterà uno degli aspetti fondamentali della modernità letteraria, dallo Svevo della Coscienza di Zeno (la cui inattendibile voce narrante rivela, aprendo così un labirintico ed inestricabile gioco di illusioni e di riverberi, di aver mescolato verità e bugie senza che l'una sia facilmente distinguibile dalle altre) al Manganelli della Letteratura come menzogna, che inviterà a ripensare, in termini di finzione letteraria, la concezione nietzscheana della verità comunemente accettata e condivisa come illusione di cui si è dimenticata l'illusorietà e, per contro, della menzogna artistica (o della dialettica provocazione filosofica) come potenziale, e paradossale, strumento di una verità purificata, rifondata, autonomamente ripensata e rivissuta – ricostruita, su altre basi, dalle proprie rovine.

Anche Achille Tazio, nell'incipit di Leucippe e Clitofonte, accostava la sua narrazione al raffinatissimo dipinto sidonio da cui essa aveva tratto spunto: dipinto in cui l'arte figurativa rivaleggiava con la natura e, implicitamente, con l'artificio della creazione letteraria, capace di stilizzare, di sublimare (o viceversa di mistificare, di confondere, di scomporre e ricomporre) la realtà della storia e dell'uomo (donde, pur se in una diversa luce, la sottile analogia, esplicita od implicita, fra romanzo e tableau che si ritroverà nel realismo ottocentesco, fra romanticismo e naturalismo, da Manzoni a Dickens, da Hugo a Balzac, fino all'écriture artiste – al crocevia fra naturalismo e simbolismo – di Huysmans e dei fratelli Goncourt).

Sul romanzo (e sulla vocazione “realistica”, in senso lato e con tutte le ambiguità che il termine porta con sé, ad esso consustanziata) pesa dunque, fin dall'origine, l'insidiosa dicotomia ontologica che Platone, e poi Wittgenstein, ravvisavano nella condizione dell'immagine, dell'eikon, che è e, nello stesso tempo, letteralmente, non è la cosa che rappresenta – che, anche al suo massimo grado di concretezza, verosimiglianza, addirittura brutalità e crudezza, comunque evoca, addita, accenna la cosa, l'evento, la circostanza esistenziale, senza però poter mai, letteralmente ed effettivamente, costituirne ed offrirne un'equivalenza piena.

Si può risalire ancora a ritroso, fino agli archetipi più remoti dell'esperienza romanzesca: ad esempio all'egizia Storia di Sinuhe, le cui peregrinazioni “di terra in terra”, volte, come poi nel romanzo ellenistico, alla purificazione, all'iniziazione, ad un cammino di autocoscienza e di riconciliazione, sono governate dal volere di un “Signore di percezione che percepisce gli uomini”, e il cui sguardo benevolo e provvido si identifica, infine, con l'occhio sovrano di quello che è forse il primo narratore onnisciente della letteratura universale; o al giapponese Diario di Murasaki Shibiku (in cui un lettore versatile, colto ed acuto come Montale additava addirittura un'anticipazione della moderna introspezione psicologica), narrazione incredibilmente sottile, lirica e sfumata delle peregrinazioni sentimentali del principe Genji, sempre segretamente e profondamente fedele, pur nei suoi cedimenti e nei suoi tradimenti (a danno degli altri come di se stesso), ad una imago materna ormai dispersa, svanita dal mondo, irrecuperabile nell'orizzonte dell'esistenza terrena, ricostituibile soltanto nello specchio impalpabile dell'affabulazione.

Iniziazione, autocoscienza (come quella del giovane Moreau nell'Éducation sentimentale di Flaubert), ricerca ed autenticità, smarrimento e tensione, più o meno coronata dal compimento, all'identità e all'origine (si pensi alle Vie dei Canti cui è dedicato il capolavoro di Bruce Chatwin, e più generale alla ricerca, problematica, multicentrica, spesso spaesata, delle radici culturali e dell'autenticità esistenziale ed affettiva nella letteratura postcoloniale): questi, forse, gli archetipi essenziali e più remoti, direi antropologici (si può rinviare qui anche al Calvino di Cibernetica e fantasmi, che riconduce l'origine della narrazione ad una natura e ad una funzione, in certa misura ancor vive nell'età tecnologica, di memoria collettiva, di enciclopedia tribale, di verbale esorcismo a difesa dai terrori più radicati ed oscuri), del narrare, che incontriamo già nei più antichi esempi di romanzo e che riaffiorano a più riprese (pur nelle molteplici, spesso drastiche e traumatiche, metamorfosi formali, rappresentative e antropologiche susseguitesi nel corso dei secoli, e soprattutto nel Novecento) fino all'età contemporanea.

Il “tempo vissuto” (potremmo dire con Ricoeur e con Minkowski) si struttura come narrazione, come fluire temporale sempre in diretto rapporto tanto con la sua origine, con la sua scaturigine prima, e ormai offuscata e perduta, quanto (essendo, come insegnano Platone e il platonismo, “immagine mobile dell'eternità”) con una sfera superiore, con una fantasmagorica proiezione figurale che lo trascende e in cui nondimeno, forse, si svela, per chi sappia scrutarlo, il significato più autentico di ogni apparentemente gratuito ed assurdo accadere.

A ben vedere, anche negli autori (penso ad esempio al Vassalli della Chimera, o, in un'ottica stilisticamente e formalmente antitetica, e ben più tesa e complessa, agli artefici dell'antiromanzo e dell'“irromanzo” novecenteschi, da Beckett a Sanguineti) più antiplatonici, remoti ed avulsi da ogni metafisica, chiusi ad ogni superiore e più puro orizzonte di senso, questa iniziatica ricerca di un significato ultimo e profondo è in qualche modo avvertibile, pur se magari destinata ad approdare alla constatazione di un assoluto nulla, di una apocalittica mancanza di fondamento - o viceversa a prendere le mosse da quella stessa constatazione.

Da Musil a certo giovane Hesse, dal Moravia del Conformista, della Noia, dell'Amore coniugale (sorta, quest'ultimo romanzo breve, di sottilmente ironica e demistificante riscrittura, in chiave di esistenzialismo borghese, di certi motivi del Poe più algido e lunare) al La Capria di Ferito a morte, lo schema fondamentale del racconto di ricerca, di iniziazione, di formazione, di metamorfosi sembra convertirsi o risolversi in un viaggio e in un cammino che approdano alla rivelazione dell'assurdo, dell'abisso, dell'incomunicabile, infine dell'insignificanza, o perlomeno dell'irriducibile, vagamente sinistra ambiguità, insite in ogni segno e in ogni messaggio.

Pur se in modi diversi, La Capria e Moravia esperiscono la tensione dialettica che oppone la Storia alla Natura, la temporalità sociale e culturale al perenne, immutabile fondo di pulsioni originarie e remote, al groviglio indistricabile ed oscuro di Eros e Thanatos, istinto di vitalità e di piacere e gorgo vorace, mostruoso maesltrom che, a malapena mascherato e schermato di amara, mondanamente superiore e distante, ironia, o di convenzione sociale a prima vista condivisa, stabile, rassicurante, trascina invece ogni cosa verso il nero vuoto senza fondo: la Natura, si legge in Ferito a morte di La Capria, vince la Storia, eppure «solo la Storia ha senso», sebbene l'uomo ne sia sempre distolto dal richiamo suadente delle Sirene, da quel « richiamo insensato», quale già appariva al Kakfa dei Frammenti, che attraversa «il silenzio del mattino, come uno spiro di vento» che subito dilegua e svanisce.

Nella Morte di Virgilio di Hermann Broch, si fanno evidenti lo sfociare, lo sfumare e il dissolversi del filo narrativo nelle vaste plaghe del nulla, del vuoto, del silenzio, della trascendenza indicibile in cui si annida e si cela il senso tragico (o forse la tragica assenza di senso) di una storia segnata dalle iniquità e dal sangue, e di una vicenda intellettuale e letteraria marchiata (come in Sartre) dal rischio o dal sospetto, sempre incombenti, dell'inautenticità.

Ogni esperienza vissuta ai margini, da «ospite della vita», da spettatore, per quanto affascinato o pietoso, dell'umana esistenza – ogni incontro, ogni parvenza, ogni esteriore ed occasionale fonte d'ispirazione inghiottita e dissolta dalla sapiente finzione, dalla «bella menzogna», della letteratura – altro non erano stati, per il Virgilio di Broch, «se non un accadimento, che pari ad un vaso delle sfere celesti, stesse per accoglierlo in sé ed immetterlo nell'infinito». Tanto la nascita, da cui l'homo viator trae origine, quanto la rinascita a cui (come l'iniziando di un rito orfico) anela, non potrebbero darsi «se dietro a loro non vi fosse, eterno e immutabile, ultima genesi, il nulla»; e «la grande luce dell'atemporalità» sgorga proprio dalla «silenziosa, divinante unione di essere e non essere». «Solo colui che cerca l'occhio della morte, potrà guardare nel nulla senza che il proprio occhio si spenga. [...] E colui che si immerge nel ricordo può ascoltare il suono di quell'istante in cui l'elemento terrestre deve aprirsi all'infinito e all'ignoto, dischiuso alla rinascita e alla risurrezione di un ricordo senza fine».

L'eternità, infine, è il nulla, il nihil aeternum dei mistici. Dell'essere, dirà Heidegger, ne è nulla. La parola narrativa della modernità più alta e consapevole è o finisce per essere, anche quando si assume intenti di realismo o di impegno, spia di una rivelazione negativa, spiraglio aperto sulla luce ferma e desertica del nulla: basti pensare a Petrolio di Pasolini, con la sua tragica, emblematica, oscuramente profetica incompiutezza, con il suo lucido e debordante delirio interpretativo affondato nelle falsità, nelle speculazioni e nelle reificazioni del mondo industriale, o al Tondelli di Un week-end postmoderno, con la sua frenetica e frammentante eversione dei confini fra romanzo e saggio, con la sua desolata e lucida diagnosi del declino e del degrado di una società e di un sistema, quelli borghesi e capitalistici, con i loro loro speciosi ed alienati equilibri.
Ciò che per Broch è il supremo, ultimo e primo, Essere-Nulla – il gorgo indistinguibile, apocalittico di origine e fine, alfa ed omega, alba ed annullamento – è invece, per Proust, il “Tempo ritrovato”, resuscitato e rinnovato dal ricordo, dalla memoria involontaria, dall'intermittenza delle reminiscenze e delle illuminazioni che (quasi platonica anàmnesis) sembrano, forse solo illusoriamente, ricondurre il fluire del tempo alla sua matrice originaria e pura – così come, in poesia, Valéry riporta il dire poetico «aux sources du poème».

Per il Joyce di Dedalus, questo Essere potrà invece annidarsi nell'istante rivelatore della epiphany, della radiance, nella subitanea rivelazione (quasi un montaliano, salvifico “fantasma”) della tomistica claritas, dell'armonia delle parti che è celata sotto la caotica casualità dell'accadere, e nella quale risiede il segreto, insieme razionale e mistico, della bellezza e della conoscenza.

Un'armonia che, nella babele spazio-temporale e linguistica dell'Ulisse, e più ancora di Finnegans Wake, andrà perduta ed infranta in un caleidoscopio di rutilanti ed irrelati frammenti: e il romanzo diverrà, allora, progressivamente, meandertale, primitivo-primigenio racconto-labirinto, convulsa e nevrotica espressione verbale dell'Essere-per-la-morte, della circolarità apocalittica di vita e morte – della morte «that bitches birth that entails the ensuance of existentiality». Anzi ogni discorso, ogni racconto possibile non saranno che «a rude breathing on the void of to be, a venter hearing his own bauchspeech in backwords» – parola vuota che riecheggia e ripete se stessa, facendo sordamente tintinnare, nel proprio inane vuoto sonoro, nelle proprie celate abissali cavità, la vacuità stessa di un'esistenza precaria e friabile, già inesorabilmente votata all'annullamento e alla dissoluzione.

Pur se in un contesto stilistico diametralmente opposto (un tedesco lucidissimo, tagliente, essenziale, che sembra, come suggeriva Deleuze, avere ereditato dall'yiddish la concisione sapienziale, gnomica, sentenziosa ed allusiva, e dallo spirito ebraico l'ironia amara, desolata, tragica, senza rancore e senza sorriso), Kafka vorrà forse additare – con il suo castello inaccessibile, le sue norme imperscrutabili, assurde, arbitrarie, la sua “porta della Legge” destinata a restare chiusa per sempre, pur essendo occultamente, e vanamente, destinata ad aprirsi proprio e soltanto per colui che desiderava, e non osava, avvicinarvisi – precisamente questo Senso ultimo, velato, eclissato, forse in realtà inconsistente.

Per Broch, l'approdo ultimo, il limite estremo coincidono – come per Mallarmé e come per Wittgenstein con la sua concettualizzazione del “Mistico” – nell'«inespresso, là dove il linguaggio [...] spalanca il terribile, improvviso abisso fra le parole, per indicare in questa muta profondità [...] la totalità dell'universo, la fluente contemporaneità in cui riposa l'eterno».

Questa bergosniana «fluente contemporaneità» in cui l'eterno si dispiega e, insieme, si raccoglie e si condensa nel suo immoto divenire, è la stessa in cui si muovono, nel loro discorso ugualmente fluido, cangiante, soffusamente melodioso e insieme concentrato, denso, essenziale, tanto l'Eliot dei Four quartets quanto il Proust del Temps retrouvé, che, per poter cogliere appieno e fermare sulla pagina la purezza e l'intangibilità dell'istante passato – che è in qualche modo archetipo, figura, modello ideale e più puro, di ogni istante, di ogni esperienza, di ogni pensiero presenti e futuri –, per poter perlustrare e riflettere nella scrittura le sterminate e flessuose distese spazio-temporali della soggettività, dell'homo interior, della quantitas animae, deve, come Agostino (le cui Confessiones sono, del resto, accanto alla Vita nuova di Dante, anch'essa segnata dalla rivelazione folgorante e cupa della mortalità della donna amata, e all'Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio, sorprendentemente percorsa dalla dolce insidia della disperazione e dal pensiero del suicidio, fra gli antecedenti più nitidi del moderno romanzo autobiografico), «ridiscendere in se stesso», «discendere più profondamente in sé», rinvenendo le larve, i lemuri, le tracce esili ed esangui (i cliché astrali, come li chiamava l'antroposofia cara a Pirandello), di luoghi, volti, amori, momenti che il tempo e la morte (insidiatasi nel cuore «come fa un amore») hanno ormai redento, purificato, disincarnato, quasi mutato in puri, platonici schemata ideali, non vivi ormai che nel cielo rarefatto della mente.

Come l'iniziato ai misteri orfici o delfici, così il discepolo cresciuto all'ambigua e cangiante sapienza (quasi alchemica e nietzscheana “gaia scienza”) infusa dal romanzo moderno finisce per conoscere e conoscersi, per trovare (o ritrovare) se stesso, o almeno andarne in cerca, nel tempo, nel passato, nella memoria, e nelle intricate e fragili trame verbali delle loro narrazioni (non è forse troppo difficile trovare le tracce di un simile percorso iniziatico anche nelle grandi epiche romanzesche, nelle maestose architetture simboliche ed esoteriche, di Tolkien o di Lewis, come pure di Melville o del nostro D'Arrigo).

In Italia sono state forse le narratrici (accanto al Gadda della Cognizione del dolore) a vivere ed esprimere il tempo interiorizzato, assoluto e insieme nichilistico, purissimo e nondimeno sempre punteggiato e contaminato dai molteplici e variegati accidenti delle vicende individuali: ho in mente la Manzini di Tempo innamorato, che proietta e distende nel flusso della coscienza, del vissuto e della narrazione il “tempo assoluto” degli ermetici, o (con il suo sguardo ancora più vasto, la sua coscienza storica e ideologica ancora più duttile e prensile) la Morante della Storia, vasto affresco epocale la cui eroina vede, con gli occhi del ricordo, «tutto il passato [...] come un punto d'arrivo, tuttora confuso da un'immensa lontananza» – per poi abbracciare con lo sguardo, nel lirismo allucinato della visione onirica, «una sorta di specchio concavo senza luce, che rimanda alla visione dello stesso oceano, caotica e indistinta, come una memoria sul punto di scancellarsi», quasi a simboleggiare una mondana kenosis, un mallarmeano o montaliano annullamento e svuotamento della storicità, dell'esistenza e del pensiero.

In Menzogna e sortilegio, all'io rimemorante e narrante sperduto «nella camera taciturna e spopolata», avvolto dalla gelida e chiaroveggente «luce penetrante e fredda» della morte, della perdita, dell'assenza, non resta «nessun rimedio fuori che il triste sonno». Scrittrici, a ben vedere, la Morante e la Manzini, che, pur così diverse, per tanti aspetti stilistici e ideologici, l'una dall'altra, l'Italia può entrambe accostare, con qualche cautela, all'arte dell'analogia, dell'evocazione, della memoria, dello scandaglio psicologico ed esistenziale, della riflessione storica ed identitaria, sperimentata (certo con maggiore audacia e più radicale spirito d'innovazione sul piano dello stile, della forma e delle tecniche narrative) da una Woolf o da una Stein.

Ad ogni modo, neppure la nietzscheana “leggerezza”, la grazia lieve e tenue, l'apparente facilità e “sprezzatura”, il sapiente e disinvolto “salto mortale”, di certa narrativa contemporanea, da Nabokov a Kundera, da Calvino a La Capria, riescono del tutto ad esorcizzare, a medicare o a rimuovere il senso del vuoto, del nulla, della tragicità dell'esistere («Et in Arcadia ego», sembra costantemente bisbigliare lo spettro della morte e dell'insensatezza); semmai, la leggerezza è la forma che può assumere, nel discorso narrativo, il nietzsheano amor fati, lo zarathustriano sacro dire sì alla vita, il fermo, risoluto, ma forse celatamente, sordamente disperato, proposito di aderire, in ogni pensiero, in ogni scelta, in ogni gesto esistenziale, al ritmo che, come diceva un antico poeta, domina gli eventi, e che forse solo oltre la vita e oltre il tempo, scioltasi infine la catena aurea o ferrigna dell'eterno ritorno, rivelerà le sue leggi e il suo significato, per ora celati allo sguardo da un'alta coltre di bruma.

Si tratta, a ben vedere, della stessa leggerezza, della stessa signorile e sapiente noncuranza con cui Giuseppe Pontiggia poteva lasciar scivolare, a proposito di Lucano e della sua poesia ardente, truce, ferale, il nome di Heidegger, per poi cospargere la sua prosa narrativa classicamente composta, e insieme concisa ed energica (dalla Morte in banca al Giocatore invisibile alle Vite di uomini non illustri), degli oscuri e balenanti presagi, delle maschere trascorrenti e sogghignanti di una morte sempre illusoriamente procrastinata, ma inevitabile, ed incombente su ogni momento e ogni gesto della vita: mundus ipse senescit, lo sanno bene i professori amari e disincantati del Giocatore invisibile; poco sopravvive allo jaspersiano “naufragio” del tempo e della storia; l'acqua dell'inganno e dell'ipocrisia, dalle quali forse non va immune la stessa parola letteraria, è quella su cui l'intera vita veleggia ed oscilla, per venirne infine inghiottita e, forse, finalmente redenta e purificata, senza possibilità di ulteriori contaminazioni.

L'uomo, dice il Manganelli di Hilarotragoedia, è mosso da una inesorabile volontà discenditiva, percorre un già segnato cammino «infernico, supernamente infimo», che, come nella semiotica dello spazio rimbaudiana e simbolista, interseca e confonde, rovesciandoli l'uno nell'altro, l'alto e il basso, il cielo e l'abisso. L'angoscia, come la noia di Moravia (ma con ben altra tensione e ricerca stilistica), «si inconsanguinea alle cose» – le invade e le impregna, diceva Heidegger, come una nebbia nera. Così l'Orca di D'Arrigo solca imperturbabile, mossa essa stessa dal destino che incarna e reca ad effetto, «abissi di silenzio», avvolta «dalla tenebrosità come di roccia della sua sorte che sarebbe a dire dalla fatalità di essere e fare la Morte».

In un clima non lontanissimo si muove la historiographic metaficion che Linda Hutcheon (in un contesto di pensiero che ha riscoperto, a partire da Hayden White e dal Clifford di Writing culture, i nessi fra storiografia e narrazione, ricostruzione e rilettura dei documenti-monumenti ed elaborazione letteraria: nessi peraltro già intuiti, ancora una volta, dal Luciano di Come si deve scrivere la storia, geniale profeta della condizione astorica o antistorica del letterato apolis e xenos en tois bibliois, «senza patria» e ovunque «straniero fra i libri») ha additato come uno degli orientamenti fondamentali delle narrazioni postmoderne (segnate, paradossalmente, nonostante la vocazione epica che sembra a volte caratterizzarle, proprio dalla “fine delle grandi narrazioni”, almeno intese nella tradizionale, e ormai forse un po' angusta, accezione ideologica e metodologica).

Si staglia – o almeno si intuisce e si intravede, al di là del piano meramente evenemenziale, oltre o al di sopra degli eventi che si presumerebbero certi, tangibili, già dati – il grado più alto, più universale e vasto, ma nello stesso tempo più fluttuante, precario ed opinabile, dei fatti, che si risolvono o si disseminano in derive e anasemie verbali e semantiche, in elaborazione stilistica, espressione, discorso, scrittura. Il verum ipsum factum di Vico (egli stesso, per Bloom e la decostruzione, prima di tutto poeta, geniale ed immaginoso creatore di incarnazioni mitiche) sembra così risolversi in fatto letterario, in simulacro verbale, in affabulazione (nel senso più alto e veritiero) retorica e simbolica.

Come si ricorderà, Il Nome della rosa – esempio per eccellenza di controversa e sottilmente autoironica metanarrazione postmoderna, scritto dopo la fine delle ideologie, «per puro amor di scrittura» – si conclude nel segno di Meister Eckhart e del suo Dio come nulla eterno e come quiete deserta, pur continuando a palesare, a tratti, un'ostinata fiducia in una post-strutturalistica ed ermeneutica razionalità, peraltro (come nella fenomenologia di Paci, di Banfi, di Anceschi) aperta, duttile, pronta ad aderire alle diverse ed imprevedibili sollecitazioni dell'esperienza e del pensiero.

Si potrebbe chiosare l'approdo ultimo della narrazione nel Nome della rosa con ciò che Umberto Eco osservava introducendo, nel 1980, la riedizione della Struttura assente. Le stratificazioni dei metalinguaggi (dei linguaggi che spiegano e chiarificano un altro linguaggio), le forme e le strutture che dovrebbero illuminare e descrivere altre strutture e altre forme, finiscono, come in un gioco barocco di trompe l’oeil, in una manieristica prospettiva d' inganno, in una incessante ed illusoria sequenza di proiezioni, per approdare ad un fondo di silenzio, di ineffabilità, di inconoscibilità – e forse proprio su quel fondo oscuro ed insondabile giace l'Ur-Sprache dei romantici, la lingua madre, la matrice prima di ogni segno, di ogni codice, di ogni espressione.

E l'abisso di invisibilità, il solco di silenzio annidati nel cuore del linguaggio sono dimora della differenza, della béance, del vuoto, della presenza-assenza propri del segno – e in particolare del segno linguistico, lacerato, diceva Platone, dalla ferita, dallo stacco, dal korismos fra realtà e linguaggio, fra il mondo e la sua pronuncia, la sua orma impressa sulla grana friabile della voce, e più ancora della scrittura.

Il discorso del romanzo contemporaneo non può – implicitamente od esplicitamente, in modo più o meno consapevole – che snodarsi e vagare in questo deserto ontologico, conoscitivo e semantico. E la scrittura, cosa fra le cose, ente fra gli enti, confitta nel piano discontinuo, franto ed incomunicabile, dell'esistenza e dell'esser-ci, non può – dovrà riconoscere Sartre alla fine della Nausée – richiamare in vita il passato, redimere il tempo, eternare l'istante vissuto, nella stessa misura in cui «un esistente non può mai giustificare un altro esistente» – eppure è, con un mortuario paradosso, soltanto nel passato che l'uomo può riconoscersi, ripensarsi, «accettare se stesso».

Una sfumatura, un valore ontologici, e nel contempo potenzialmente nichilistici, questi, che affiorano addirittura dalle pagine del nouveau roman e dell'école du regard, pur nel loro volersi oggettive, fredde, esteriori, di una freddezza e di un distacco quasi fotografici o cinematografici. Penso, ad esempio, a L’Amour di Marguerite Duras, dove il simbolo quasi montaliano del mare viene a rappresentare il Nulla, una temporalità e un'esistenza nullificate nella loro ossessiva ed inesorabile ricorsività, oppressivamente immobili pur nel loro fluire, nel loro espandersi e contrarsi (e qui, come insegnano tanto il Sartre lettore di Faulkner – il quale gli sembra «capti, nel cuore stesso delle cose, una velocità congelata» –, quanto il Robbe-Grillet della Jalousie, la temporalità del romanzo potrà essere stata influenzata dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica, nel loro postulare un invalicabile limite proteso fino alle soglie dell'infinito, e rispetto al quale ogni differenza, ogni passaggio ed ogni scarto temporale risultano infinitesimalmente accentuati, e nel contempo quasi azzerati, o ridotti a pura, sconfinata potenzialità).

In Cent’anni di solitudine di Márquez (venendo al variegato, inesauribile panorama della cosiddetta letteratura post-coloniale, uno dei fenomeni più significativi della letteratura degli ultimi decenni) la scrittura profetica e mitopoietica, il mallarmeano e borgesiano Libro in cui sono scritte, o meglio si scrivono via via, le sorti del mondo, finiscono – come le intorte e labirintiche rovine circolari di un racconto di Borges, o come la mise en abyme del Gide dei Faux-Monnayeurs – per crollare ed implodere su se stesse, per divenire fomite del loro stesso annientamento, sorgente ed alimento del loro stesso autodistruttivo rogo.

Ed è significativo che tanto Insciallah della Fallaci, quanto i geniali ed apocalittici deliri del Pynchon di Arcobaleno di gravità e del De Lillo di Rumore bianco siano pervasi, in diverso modo, dalla nozione e dallo spirito dell'entropia, del disordine, della disarmonia prestabilita, immersi in una heisenberghiana atmosfera di indeterminazione, fluttuazione, impermanenza (alla morte, dice emblematicamente la Fallaci, risponde la morte, «decombinazione estrema dei possibili» secondo il Gadda del Pasticciaccio, al disordine altro disordine, in una dolente e stridente catena che non sembra poter avere mai fine).

La letteratura post-coloniale, divisa fra il “realismo magico”, che sembra costituirne il tratto saliente, da un lato, e il risentito impegno civile e ideologico dall'altro, anche quando privilegia quest'ultima linea (basti pensare al Soyinka di The Interpreters e di The man is dead) sembra ritrarre e trasmettere, infine, un medesimo scenario di morte e di dissoluzione. L'uomo muore quando viene costretto al silenzio da un potere feroce che assume la maschera della legge, ma anche quando non ha il coraggio di far sentire la propria voce e reclamare al propria dignità.

Eppure, diceva Vittorini, proprio allora, proprio quando sembra abbassato al rango di non-uomo, lacerato e vilipeso dall'esperienza dell'inquità e del dolore immeritato – proprio allora l'uomo è più uomo, animato dalla speranza ostinata ed estrema di un riscatto e di una redenzione. Il nichilismo, insegna Sartre, può convertirsi, paradossalmente, in nuovo umanesimo. Allora anche l'ontologia del nulla, il senso della caduta, della resa, della deiezione – dell'alienazione, della degradazione, del rigetto – possono convertirsi, paradossalmente, in valori attivi, se non positivi, di cui la letteratura sa farsi ancora (magari anche al di là dei suoi intenti e dei suoi contenuti fattuali, anche solo nella partecipe ed appassionata intentio lectoris, e senza per questo necessariamente abbandonarsi alle ingenue e generiche utopie di un inerte ed osmotico meticciamento, o di una indifferente ed onnivora multiculturalità globalizzata) testimonianza e veicolo.

Come suggerisce Assja Djebar in L’Amour, la Fantasia, l'individualità dello scrittore – per quanto vilipesa, violata e conculcata nella sua identità sessuale e culturale, nella sua civiltà, nelle sue radici, per quanto oppressa sia sul piano storico sia su quello esistenziale, affettivo e pulsionale, per quanto divenuta, come per Agostino, essa stessa la propria interminabile, inesauribile quaestio, «il luogo stesso della propria privazione» – riaffiorerà ostinatamente nelle parole strappate al silenzio come le reliquie della vita al deserto, nelle voci gementi ridestate dal sepolcro dei millenni, nel rimemorante ascolto offerto al «richiamo dei morti» – nella sacrale «fiamma della parola» ancora agitata «davanti al muro della separazione o della lontananza».

Il mondo accecato dall'integralismo e devastato dalla violenza ideologica può assumere (come l'indistinta e cruenta selva di membra e rottami su sui si apre la prosa variegata e polifonica dei Versetti satanici di Rushdie) la parvenza di un torbido verminaio di monadi irrelate e incomunicanti, «fragmented, equally absurd» – «debris of the soul, broken memories, sloughed-of selves, severed mother tongues, untranslatable jokes, extinguished futures».

Al-Lat, la luna infera, l'ambigua dea preislamica che apre la trinità femminile dei versetti famigerati, è a un tempo Venere e Atena, Afrodite e Mitra: incarna la sotterranea seduzione di una passione che può farsi distruttiva, di un entusiasmo che può divenire devastante, di una razionalità e di una sapienza che possono spingersi e spingere fino ad una tragica ate, ad una irreparabile perdita di confini, equilibri, misure, alla cancellazione di ogni spazio possibile di mediazione e di dialogo, e, dunque, alla distruzione e all'annullamento – eppure, proprio le tre fugaci e fantasmatiche “dee altovolanti”, guidato l'uomo fino al «Loto del limite», fino alla soglia di un Paradiso non ancora rivelato, possono, nella loro ambivalenza di Furie-Eumenidi, dischiudergli, dee terribili e rivelatrici, la luce di una verità.

E il protagonista del Paziente inglese di Ondaatje, che sogna un “mondo senza mappe”, senza barriere artificiose, senza contorni e limiti arbitrari, convenzionali e politicizzati, rischia per ciò stesso di perdere ogni distinzione e ogni senso morali, di trovarsi sperduto, al di là del bene e del male, in un mondo indefinito e vago, materiato, direbbe Agamben, di “nuda vita”, di sentimenti e passioni essenziali, di pulsioni e di estasi indeterminate e senza freni -̶ in uno spazio simile, dunque, al deserto, con la sua abissale ed insondabile instabilità, con la sua libertà e le sue insidie, la sua maestosa vastità e i suoi smarrimenti vertiginosi.

Ma è, infine, ancora Eliot, ben memore anch'egli delle peregrinazioni, delle ansie e degli smarrimenti agostiniani, a rammentarci che proprio attraverso la via negationis, la noche oscura del alma, proprio percorrendo, spogliati ed inermi, «the way of dispossession», si può forse oltrepassare il deserto e arrivare ad una meta; che proprio da un caleidoscopio vorticoso di «broken images» sarà forse possibile ricomporre un volto umano – che, infine, proprio con i frammenti è possibile puntellare le proprie rovine.