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venerdì 29 marzo 2019
"Mésalliance. Estensione del caso Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio
Lotta di Classico, Genova 2019. Progetto grafico di Massimo Sannelli.
https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2019/03/me.pdf
Un odore e un colore (di incenso) (noi
avevamo confidenza...)
Un riflesso, una sosta, una pace all’altare – una corsa
civile... Ma io voglio sapere dove eri. E io voglio sapere come
stavi. E perché eri perduto? (ha parlato
la femmina).
perché non eri qui? – quando non ero
nato, fu una mossa infelice, fu questa,
che si vede: due esseri e due averi, ma tutto
si salverà. e tu fatti centauro, no? fatti centauro.
Con questi versi mi ricollego all’exit – un congedo che attesta una intenzione – del Caso Massimo Sannelli (2016): versi allora inediti, poi usciti in Memoriale della lingua italiana (2017).
Parlano di un centauro. Il riferimento non è solo all’astrologia di un autore nato il 27 novembre: sarebbe troppo semplice e anche ingenuo. Stiamo alla prospettiva mitologica: il centauro è una figura ibrida e anche magistrale, combattiva e contemplativa, e lo è contemporaneamente (forse, più umilmente, più sommessamente, anche i poeti, come il Principe, sospesi e divisi tra istinto e ragione, tra corpo e mente, tra visceralità e sublimazione, furono "dati a nutrire a Chirone centauro").
È chiaro che Sannelli tende a questo: ibridismo (delle forme e dei mezzi), magistero (molto informale), azione, contemplazione, tutto nello stesso tempo. E i versi citati – tanto leggibili quanto illeggibili, tanto dolci-docili quanto perentori – costituiscono un imperativo: amare la dualità (due esseri, il maschio e la femmina, evidentemente due lati che Sannelli riconosce in sé) purché risolta in unità (il centauro, l’ibrido). Né moderno né postmoderno ma classico.
Ma chi è classico? Foscolo, Mozart, Balthus? Oppure è classico chi pratica la molteplicità, vivendo – da mortale ovviamente, inevitabilmente – come se fosse non ovviamente immortale? È classico chi aggredisce il presente con uno sguardo tanto multimediale quanto intemporale.
E ciò implica una lotta. Perché classico – come diceva Mandel’štam, autore amato da Sannelli, anche per la Conversazione su Dante – è qualcosa che deve ancora venire (di qui la sensazione, di fronte a Sannelli, di un autore inattuale). La dimensione centaurica sembrerebbe ora un obiettivo realizzato, ma la lotta di classico è qualcosa che dura una vita. È usus vivendi piú che usus scribendi. Questa brevissima nota è già un segnale, un indizio per una aggiunta a Mésalliance, che è una aggiunta a Lotta di Classico.
Il caso Massimo Sannelli. Quindi una estensione dell’estensione.
sabato 9 dicembre 2017
Moto e resistenza delle cose
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».
Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.
mercoledì 22 settembre 2010
Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *
Questo testo della poetessa Giselda Pontesilli ricostruisce, con passione e rigore, il fervido clima culturale (paragonato in modo non infondato a quello primonovecentesco della Voce) da cui germinò, e di cui fu espressione, la rivista Braci, legata ai poeti della “ scuola romana” (Beppe Salvia, accomunato, quasi per indiretta ideale fratellanza, a Remo Pagnanelli dall'assiduo, divorante impegno letterario vissuto come destino tragico e condotto fino alla consumazione e all'oblazione di sé, Claudio Damiani, la stessa Pontesilli).
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.
In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.
-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.
-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.
-“L'arte è una chiara guida al Bene”.
-“La lingua è soprattutto virtù”:
queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:
- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.
- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.
Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.
Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.
Per esempio:
Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.
…..............................................
Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).
Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.
…................................................................
Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.
….............................................
egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.
Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.
Analogo a:
Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita
una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.
Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:
Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.
E Claudio, in fine, è analogo a Gino:
Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.
Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <>, è una lingua di nobilissimo intendimento, lingua d'Amore, di gentilezza, e di potenza; essa, la sua potenza, non è altro che quella della poesia, con cui in definitiva coincide”(19).
Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <> come scrive Beppe, in Lettera.
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:
Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.
E Antonio Ricci:
L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.
E ancora Beppe Salvia:
“Il genio d'un luogo adesso è spettro”
Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!
Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <>, terrorizzanti e ingannatori del giorno”; “è una protesta che si paga con il sangue” -dice- […] “nell'isolamento, nella distruzione dei piani e delle possibilità della vita, […] ma occorre comprendere che proprio qui è il luogo dove si svolge il vero dramma della libertà; [...] “questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.
Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?
Notizie:
Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.
* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.
Note
1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <> della Crisi di Husserl , p. 41, in Il sensibile, la storia, l'arte, op. cit. pp. 40-65.
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.
In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.
-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.
-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.
-“L'arte è una chiara guida al Bene”.
-“La lingua è soprattutto virtù”:
queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:
- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.
- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.
Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.
Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.
Per esempio:
Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.
…..............................................
Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).
Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.
…................................................................
Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.
….............................................
egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.
Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.
Analogo a:
Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita
una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.
Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:
Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.
E Claudio, in fine, è analogo a Gino:
Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.
Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <
Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:
Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.
E Antonio Ricci:
L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.
E ancora Beppe Salvia:
“Il genio d'un luogo adesso è spettro”
Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!
Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.
Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?
Notizie:
Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.
* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.
Note
1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.
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martedì 31 marzo 2009
LA VOCE IMPOSSIBILE. MINIMO OMAGGIO A REMO PAGNANELLI
Iniziamo, con questo pregevole e partecipe profilo di Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano prematuramente e tragicamente scomparso (profilo redatto da Guido Garufi, che con lui condivise anni di appassionata militanza culturale), quello che vorrebbe essere un discorso circa l'identità culturale marchigiano-romagnola, le cui radici affondano nell'humus della cosiddetta "scuola classica" sette-ottocentesca, e che ebbe in certo Leopardi la sua eredità e il suo esito più alti e duraturi. Un classicismo, o meglio una classicità, che pure, al pari della pur modernissima coscienza poetico-critica di Pagnanelli, esploravano le cave e risonanti profondità della terra, dell'origine, del primordio, dell'Heimat, del Grund fondato sull'Ab-Grund, dell'epifenomeno che lascia intuire, se non vedere facie ad faciem, l'oscurità del gorgo e dell'intreccio di vita e morte, genesi ed annientamento, che vi sono sottesi, ed inesplicabilmente, enigmaticamente lo sorreggono.
Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.
In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).
Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.
Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».
Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.
Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").
Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.
M. V.
Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia
Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.
Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.
L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.
Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).
Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.
Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.
Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.
Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".
Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.
Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".
La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".
Guido Garufi
Nota biografica
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.
In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).
Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.
Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».
Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.
Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").
Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.
M. V.
Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia
Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.
Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.
L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.
Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).
Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.
Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.
Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.
Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".
Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.
Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".
La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".
Guido Garufi
Nota biografica
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
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