All'interno della vasta opera letteraria di Luca Canali (uno dei massimi latinisti contemporanei, autore, fra l'altro, di una acclamata traduzione di Lucrezio), la figura del poeta può apparire quella meno rilevante. Una lettura come quella di Elisabetta Brizio ne evidenzia, invece, l'assoluto valore, e l'organico, necessario rapporto con l'insieme dell'attività dell'autore.
Era, del resto, un lettore d'eccezione - anch'egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d'eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell'oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi “logica” resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia».
Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, «il movimento dell'io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».
Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l'«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.
«Scrivo sentendomi male, dice Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione, con sforzo, superando a denti stretti l'angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell'atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un'autocoscienza tormentosa, che pure rende l'esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l'amara illusione?).
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sabato 12 settembre 2009
domenica 8 febbraio 2009
Adriano Padua, Poesie sparse
Di Adriano Padua, giovane poeta e massmediologo (già autore di raccolte come Frazioni, del 2007, e Le parole cadute, dell'anno successivo, e incluso da Erminia Passannanti nell'essenziale ed emblematica antologia Poesia del dissenso), ho il piacere di proporre qui alcuni testi in massima parte inediti (alcune extravaganti, si sarebbe detto un tempo, sebbene legate da una continuità e una coesione profonde), che mi sembra rappresentino un punto d'arrivo, il raggiungimento di un compiuto equilibrio espressivo e concettuale, pur senza nulla togliere alla magmatica fluidità, alla tumultuosa mutevolezza dell'esperienza esistenziale e della ricerca stilistica.
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)
il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da
tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente
nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria
regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera
nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre
dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono
nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario
il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente
il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità
con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine
lo scarto che si situa nel momento
appena successivo
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
A K.
(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)
Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Amen
risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso
disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive
sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Canto (febbrile)
la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione
e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia
le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde
da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano
------------------------------------------------------------------
Roma- 15/08/2005
ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia
tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire
scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza
la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene
si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio
qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina
oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno
ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso
invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)
il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da
tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente
nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria
regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera
nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre
dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze
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unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono
nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario
il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente
il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità
con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine
lo scarto che si situa nel momento
appena successivo
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A K.
(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)
Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Amen
risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso
disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive
sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati
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Canto (febbrile)
la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione
e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia
le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde
da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano
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Roma- 15/08/2005
ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia
tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire
scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive
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dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza
la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene
si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio
qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina
oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno
ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni
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nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso
invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza
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mercoledì 14 gennaio 2009
Per una nuova provincia letteraria
I libri scritti in provincia, osservava Renato Serra ̶- per eccellenza “lettore di provincia”, immerso nella calma apparente, nella quiete mobile e segretamente tumultuosa di una “provincia europea”, e insieme di un'ideale e fluida patria dello spirito -, hanno un loro particolare, inconfondibile respiro -̶ un loro ritmo, una loro movenza, un loro passo dilatati, indugianti, pausati, una loro misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali.
Del resto, come osserverà a distanza di anni Pavese in La letteratura americana, «senza i suoi provinciali una letteratura non ha nerbo» ̶- è priva di spessore e di vigore una letteratura che non abbia in sé, come forza vitale, l'ingenuità consapevole, la straniante e sottilmente ironica distanza di uno sguardo marginale e periferico, e per questo difforme, impregiudicato, immune da ogni omologazione.
L'America epica, mitica, densa di archetipi e di simboli ancestrali, fissata sulle pagine di Melville, di Faulkner, di Saroyan -̶ e, più di recente, quella franta, contraddittoria, postmoderna di Carver conciso e tagliente, di De Lillo fluviale e allucinato, di Pynchon e di Doctorow ossessionanti e vorticosi ̶- confermano l'essenzialità e la vitalità di questa linfa locale e remota.
Ancora Pavese parlava, nel Mestiere di vivere (3 giugno '43), di una assoluta «classicità» capace di conciliare e di fondere gli ultimi americani con Virgilio, con Vico, con D'Annunzio, fino a delineare una sorta di «etnografia preistorica», pur mediata e filtrata dalla consapevolezza culturale.
Certo questa lontananza mitica, questa primigenia vicinanza alla natura ̶ questa, si direbbe quasi, schilleriana e leopardiana “ingenuità” ̶ paiono mal conciliarsi con l'immaginario metropolitano e tecnologico della società postmoderna, che tutto brucia, consuma ed oblia con la velocità implacabile dei processi virtuali, della comunicazione digitale, della sequenzialità frenetica e serrata insita nella dimensione massmediatica.
Eppure, paradossalmente, proprio l'inattualità assoluta e provocatoria della dimensione provinciale può, forse, nella realtà di oggi, salvaguardare la letteratura (ove questa sia consapevole della sua fatale, essenziale marginalità, della sua virtuosa e deliberata estraneità agli interessi e alle inclinazioni predominanti) dal rischio della contaminazione, della strumentalizzazione, della reificazione (solo gli isolati, dirà Montale con acuto paradosso, davvero parlano e comunicano in modo libero e autentico).
È inutile che la letteratura continui, con una sorta di generosa ed autolesionistica umiltà (o forse, al contrario, di segreta, frustrata e pervicace ambizione, di soffocato e disperato spirito di rivalsa), a tentare di dialogare con una società che, quando non può mercificarla, la deride e la rigetta. Meglio, allora, che essa accetti, e anzi rivendichi, la propria lontananza, la propria aseità, addirittura il proprio aristocratico provincialismo ̶- che potranno tradursi in raccoglimento riflessivo, scavo meditativo, cura formale, lavorio stilistico.
Dalle profondità della sua tana, come il dostoevskijano «uomo del sottosuolo» o il Kafka dei Frammenti postumi, lo scrittore «tenderà l'orecchio al silenzio», ascoltandone e carpendone, in assoluta purezza, la voce segreta, le nascoste risonanze, i sensi celati. Come mostra ancora Kafka, quello delle lettere stavolta (a Max Brod, 26 giugno 1922), la campagna, la provincia, lo spazio aperto, dilatato, decentrato, la natura ancora in parte abbandonata a se stessa, possono spalancare come un vuoto inquietante, una necropoli labirintica e desolata ̶- «un cimitero», una selva esangue o una ridda fantasmatica di forme e parvenze «che crescono sopra i cadaveri»; eppure, solo le stanze vuote, l'appartamento nudo, la quieta e remota residenza di Marienbad possono offrire asilo allo scrittore «immerso nella lettera e sperduto nell'universo», immune dalla contaminazione dei «rapporti incestuosi dei corpi senza sostegno» (a Milena, 8 luglio 1920).
(Esponente, Kafka, è stato detto, di una “letteratura minore”: non nel senso di una letteratura che si esprima in una lingua minoritaria, ma che si ritaglia, all'interno di un contesto culturale e comunicativo vasto e coeso, pur se sfaccettato, come quello della Mitteleuropa, un suo esiguo spazio vitale, un suo limitato, sotterraneo, eppure prezioso, lembo di esistenza, per quanto precaria, di pur tormentosa e angosciata espressività).
La provincia di Kafka non è diversa da quella surreale, metafisica, allucinata di D'Arzo e di Delfini («On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Émilie / Les soirs illuminés par l’ardeur du charbon...»),di Savinio e di Landolfi, di De Chirico e del Morandi metafisico - ̶ quella stessa, se si vuole, che ritroveremo in certo “cinema di poesia”, ad esempio nel Fellini della Voce della luna.
Né la provincia è solo fuga dal mondo, evasione, illusione. Essa è anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico -̶ se è vero che, come osservava Bianciardi in Il lavoro culturale, «I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali» ̶ e che, ben prima, fra Sei e Settecento, da Pascal a Montesquieu a Voltaire, proprio lo sguardo defilato, remoto, ironicamente e sottilmente ingenuo, paradossale, stranito, della provincia (fosse essa storica e politica oppure ideale, etica, o addirittura cosmica e fantastica come, appunto, nelle estrose allegorie voltairiane) metteva impietosamente in luce le storture e le corruzioni del centro.
Eppure, proprio perché appartata, defilata, “altra”, in certa misura sottratta, nella sua aseità, allo stesso fluire del tempo e della storia con le loro contingenze e le loro partizioni, la provincia culturale -̶ sempre, per così dire, sorvolata e sfiorata dalle grandi correnti del pensiero, dal fluente susseguirsi e inanellarsi di atmosfere, contesti, scenari -̶ può più facilmente serbarsi immune dagli irrigidimenti e dalle schematizzazioni dei manifesti e dei proclami, delle definizioni univoche, dell'ideologia codificata, della morale costituita e condivisa.
Può apparire contraddittorio che l'idea, o l'utopia, di una nuova provincia letteraria siano ora affidate alla grande rete -̶ ad una realtà di per sé globale, universale, onnicomprensiva, in cui la distinzione stessa di centro e periferia sembra essere annullata. Eppure, anche la rete (e nello specifico quella dei siti di carattere letterario e culturale) sembra in definitiva, dopo i generosi e candidi entusiasmi iniziali, riprodurre le stesse gerarchie, rigide ed impietose, che governano gli spazi e i poteri culturali nel mondo dell'editoria, della comunicazione e del commercio tradizionali. Il “traffico” virtuale si concentra intorno ad alcuni grandi nuclei, onnipresenti e tentacolari, che dominano i motori di ricerca calamitando a sé e monopolizzando la quasi totalità dei possibili “contatti”. Sembra emergere, anche in quest'ambito, quella tendenza alla centralizzazione, al trust, al dominio dispotico che mina, anche sul piano culturale ed editoriale, tutta la realtà globalizzata.
La blogosfera diverrà, allora, un sottilissimo ed innervato reticolo, una immensa, dispersa ed incontrollabile selva di province, di margini, di periferie, di realtà minori, defilate, umbratili, non gerarchizzabili, ma dalle quali possono di tratto in tratto, quasi per un'illuminazione miracolosa, per un ardito e solitario, gratuito ed assurdo, prodigio dell'intelletto, emergere -̶ come scogli d'alabastro da uno sterminato mare grigio -̶ parole autentiche, essenziali ed inimitabili, di là dalla mischia di tante sterili polemiche e di tanti sfoghi solipsistici e astiosi.
La letteraturizzazione della vita profetizzata genialmente dallo Svevo dei Diari (e non è certo casuale questo mio frequente citare testi di per sé stessi periferici, frammentari, collaterali ̶- essi stessi in certo modo, e per così dire, “province” nel mondo concettuale di uno scrittore), quel processo per cui metà dell'umanità sarebbe stata impegnata a scrivere, l'altra metà a leggere ciò che quella avrebbe scritto, sembrano essersi finalmente attuati ̶ ma non più sulle pagine fitte e profondamente solcate, odorose e sussurranti, dei diari, bensì nell'immaterialità della rete.
Il Libro del mondo (al quale tutto, diceva Mallarmé, deve aboutir, “far capo”) si snoda e si scompagina («si squaderna», dice Dante) sotto le nostre dita e davanti ai nostri occhi stanchi e gremiti, ai nostri sguardi frettolosi o abbagliati. E tutto avviene nell'immaterialità, nella fluida e liquida “impermanenza” dello spazio virtuale, nel non-luogo del mondo digitale (ancora Mallarmé: alla fine di tutto, forse, alla resa dei conti, nel Giorno dell'Ira, quando si aprirà davvero il Libro ultimo ed eterno, a cui nessun segno, nessuna traccia, nessuna memoria possono sfuggire, «rien n'aura eu lieu que le Lieu», lo spazio della poesia attesterà nuovamente se stesso nel suo non significare nulla all'infuori di Sé ̶- e forse tutto sarà pronto per ricominciare da zero, dalla parola rifondata e ricomposta, uguale e differente, antico e nuovo, «vasto e diverso / e insieme fisso», vuoto d'ogni lordura, nel perenne rito dell'eterno ritorno).
La filosofia sa da secoli (ben prima della rivoluzione digitale) che l'immaginazione, tanto nel dominio del pensiero puro, argomentativo, della ratio ratiocinans, quanto in quello più corposo e sensuoso della creazione artistica, della mitopoiesi, della costruzione fantastica, maneggia entia virtualia, e che la trascendenza, il divino, l'indicibile, possono essere afferrati, o meglio accarezzati, da un tactus virtualis che nulla ha a che vedere con la mera empiria, con la concretezza e l'immediatezza della bruta esperienza sensoriale.
Per quanto la smaterializzazione, la volatilizzazione del testo provocate dalle scritture in rete (scritture lontane dalla stabilità rassicurante, dalla presunta perennità, infine dal millenario, quasi magico prestigio, propri del Libro) possano creare in molti umanisti (si vedano ad esempio le perplessità avanzate di recente da intellettuali come Umberto Eco o Giuseppe Conte) un non del tutto ingiustificato senso di smarrimento, e quasi l'impressione di una deriva, di una dissoluzione, di un naufragio nel vuoto e nell'infondato, insomma di una perdita di centri, di coordinate, di punti di riferimento, non è forse del tutto impossibile che proprio la smaterializzazione, l'evaporazione, per così dire, nella purezza immateriale, nella volatilità incorporea ed inafferrabile delle cifre e dei codici digitali rappresentino l'esito estremo, il compimento ultimo e più coerente, del dire poetico e letterario: un dire di per sé fatto, come affermava Contini commemorando Spitzer, di materiali che non durano, e svaporano (di «tinte», per citare il Montale più mallarmeano, in cui la carne -̶ l'«incarnat léger» delle Ninfe dell'Après-Midi d'un Faune ̶- si dissolve, e che trapassano, «si esauriscono» e si spengono le une nelle altre, in una catena di dissolvenze, in un iridato inanellarsi di progressivi annullamenti); dal che deriva infine la sublimata, platonica, tutta estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici.
Certo, la forma digitale e virtuale dei testi rappresenta l'anticamera della dissoluzione, della smaterializzazione, della solutio dei contenuti dal mezzo, dell'anima dal corpo -̶ insomma la soglia, a ben vedere, della morte ̶- ed era ancora Eco, nel suo pacato ed illuminante dialogo con il Cardinale Martini, a suggerire la pensabilità dell'anima immortale proprio attraverso il paragone con gli «immateriali algoritmi» della comunicazione elettronica.
D'altro canto la poesia, lingua morta per definizione, non aspira forse a risolversi e dissolversi nella «pura morte» dei simbolisti, nella «nouvelle mort / plus précieuse que la vie», di cui parlava Valéry -̶ non è lo scrittore, diceva ancora Kafka nelle lettere a Milena, «già morto in tutta la sua vita», votato ad una vita «più dolce di quella degli altri» e, insieme, ad una morte «tanto più spaventosa»?
E la provincia è, ancora una volta, il regno della morte in vita, delle «fiabe defunte» (per i Crepuscolari così come per molte delle più mature e consapevoli fra le giovani esperienze narrative, su tutte quella di Simona Vinci). Tale era già per gli scrittori della tarda antichità (così simile a questa nostra era di “tardo capitalismo” e di imperi in declino, a questo nostro ̶- per riprendere una citazione abusata ̶- «Impero alla fine della decadenza»), quando Sant'Ambrogio contemplava incupito i «cadavera urbium» disseminati nella Padania, Rutilio Namaziano le fortezze ridotte a «loca diruta» ̶- diruti, decaduti e frammentati, come il sapere in quest'era digitale e wikipediana ̶- come la scienza, diceva Eliot e ripete oggi Morin, persa nel sapere, e il sapere frantumato in miriadi di conoscenze irrelate, centrifughe, in se stesse, forse, prive di senso.
Poco prima, Traiano e Plinio il Giovane potevano ancora illudersi di decantare la «perpetua quies» della provincia -̶ un'«infanzia minimale», dice Zanzotto, poeta di paesaggi arcadici e insieme martoriati, obliati eppure presenti e vissuti, «che sfuma nella intrauterinità», e che è «ambigua» e «terrificante», «ferma, lontana, pericolosa, bloccata» -, l'avvolgente, acquatico, materno e insieme ferale, grembo della terra che si raggiunge dopo aver abbandonato il centro e alla quale infine, più ancora che alla madrepatria, si torna, dopo tante peregrinazioni, per rendere alla natura ciò che è suo -̶ per ricomporsi nell'ultima pace, spentesi ormai ogni storia e ogni voce.
Matteo Veronesi
Del resto, come osserverà a distanza di anni Pavese in La letteratura americana, «senza i suoi provinciali una letteratura non ha nerbo» ̶- è priva di spessore e di vigore una letteratura che non abbia in sé, come forza vitale, l'ingenuità consapevole, la straniante e sottilmente ironica distanza di uno sguardo marginale e periferico, e per questo difforme, impregiudicato, immune da ogni omologazione.
L'America epica, mitica, densa di archetipi e di simboli ancestrali, fissata sulle pagine di Melville, di Faulkner, di Saroyan -̶ e, più di recente, quella franta, contraddittoria, postmoderna di Carver conciso e tagliente, di De Lillo fluviale e allucinato, di Pynchon e di Doctorow ossessionanti e vorticosi ̶- confermano l'essenzialità e la vitalità di questa linfa locale e remota.
Ancora Pavese parlava, nel Mestiere di vivere (3 giugno '43), di una assoluta «classicità» capace di conciliare e di fondere gli ultimi americani con Virgilio, con Vico, con D'Annunzio, fino a delineare una sorta di «etnografia preistorica», pur mediata e filtrata dalla consapevolezza culturale.
Certo questa lontananza mitica, questa primigenia vicinanza alla natura ̶ questa, si direbbe quasi, schilleriana e leopardiana “ingenuità” ̶ paiono mal conciliarsi con l'immaginario metropolitano e tecnologico della società postmoderna, che tutto brucia, consuma ed oblia con la velocità implacabile dei processi virtuali, della comunicazione digitale, della sequenzialità frenetica e serrata insita nella dimensione massmediatica.
Eppure, paradossalmente, proprio l'inattualità assoluta e provocatoria della dimensione provinciale può, forse, nella realtà di oggi, salvaguardare la letteratura (ove questa sia consapevole della sua fatale, essenziale marginalità, della sua virtuosa e deliberata estraneità agli interessi e alle inclinazioni predominanti) dal rischio della contaminazione, della strumentalizzazione, della reificazione (solo gli isolati, dirà Montale con acuto paradosso, davvero parlano e comunicano in modo libero e autentico).
È inutile che la letteratura continui, con una sorta di generosa ed autolesionistica umiltà (o forse, al contrario, di segreta, frustrata e pervicace ambizione, di soffocato e disperato spirito di rivalsa), a tentare di dialogare con una società che, quando non può mercificarla, la deride e la rigetta. Meglio, allora, che essa accetti, e anzi rivendichi, la propria lontananza, la propria aseità, addirittura il proprio aristocratico provincialismo ̶- che potranno tradursi in raccoglimento riflessivo, scavo meditativo, cura formale, lavorio stilistico.
Dalle profondità della sua tana, come il dostoevskijano «uomo del sottosuolo» o il Kafka dei Frammenti postumi, lo scrittore «tenderà l'orecchio al silenzio», ascoltandone e carpendone, in assoluta purezza, la voce segreta, le nascoste risonanze, i sensi celati. Come mostra ancora Kafka, quello delle lettere stavolta (a Max Brod, 26 giugno 1922), la campagna, la provincia, lo spazio aperto, dilatato, decentrato, la natura ancora in parte abbandonata a se stessa, possono spalancare come un vuoto inquietante, una necropoli labirintica e desolata ̶- «un cimitero», una selva esangue o una ridda fantasmatica di forme e parvenze «che crescono sopra i cadaveri»; eppure, solo le stanze vuote, l'appartamento nudo, la quieta e remota residenza di Marienbad possono offrire asilo allo scrittore «immerso nella lettera e sperduto nell'universo», immune dalla contaminazione dei «rapporti incestuosi dei corpi senza sostegno» (a Milena, 8 luglio 1920).
(Esponente, Kafka, è stato detto, di una “letteratura minore”: non nel senso di una letteratura che si esprima in una lingua minoritaria, ma che si ritaglia, all'interno di un contesto culturale e comunicativo vasto e coeso, pur se sfaccettato, come quello della Mitteleuropa, un suo esiguo spazio vitale, un suo limitato, sotterraneo, eppure prezioso, lembo di esistenza, per quanto precaria, di pur tormentosa e angosciata espressività).
La provincia di Kafka non è diversa da quella surreale, metafisica, allucinata di D'Arzo e di Delfini («On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Émilie / Les soirs illuminés par l’ardeur du charbon...»),di Savinio e di Landolfi, di De Chirico e del Morandi metafisico - ̶ quella stessa, se si vuole, che ritroveremo in certo “cinema di poesia”, ad esempio nel Fellini della Voce della luna.
Né la provincia è solo fuga dal mondo, evasione, illusione. Essa è anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico -̶ se è vero che, come osservava Bianciardi in Il lavoro culturale, «I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali» ̶ e che, ben prima, fra Sei e Settecento, da Pascal a Montesquieu a Voltaire, proprio lo sguardo defilato, remoto, ironicamente e sottilmente ingenuo, paradossale, stranito, della provincia (fosse essa storica e politica oppure ideale, etica, o addirittura cosmica e fantastica come, appunto, nelle estrose allegorie voltairiane) metteva impietosamente in luce le storture e le corruzioni del centro.
Eppure, proprio perché appartata, defilata, “altra”, in certa misura sottratta, nella sua aseità, allo stesso fluire del tempo e della storia con le loro contingenze e le loro partizioni, la provincia culturale -̶ sempre, per così dire, sorvolata e sfiorata dalle grandi correnti del pensiero, dal fluente susseguirsi e inanellarsi di atmosfere, contesti, scenari -̶ può più facilmente serbarsi immune dagli irrigidimenti e dalle schematizzazioni dei manifesti e dei proclami, delle definizioni univoche, dell'ideologia codificata, della morale costituita e condivisa.
Può apparire contraddittorio che l'idea, o l'utopia, di una nuova provincia letteraria siano ora affidate alla grande rete -̶ ad una realtà di per sé globale, universale, onnicomprensiva, in cui la distinzione stessa di centro e periferia sembra essere annullata. Eppure, anche la rete (e nello specifico quella dei siti di carattere letterario e culturale) sembra in definitiva, dopo i generosi e candidi entusiasmi iniziali, riprodurre le stesse gerarchie, rigide ed impietose, che governano gli spazi e i poteri culturali nel mondo dell'editoria, della comunicazione e del commercio tradizionali. Il “traffico” virtuale si concentra intorno ad alcuni grandi nuclei, onnipresenti e tentacolari, che dominano i motori di ricerca calamitando a sé e monopolizzando la quasi totalità dei possibili “contatti”. Sembra emergere, anche in quest'ambito, quella tendenza alla centralizzazione, al trust, al dominio dispotico che mina, anche sul piano culturale ed editoriale, tutta la realtà globalizzata.
La blogosfera diverrà, allora, un sottilissimo ed innervato reticolo, una immensa, dispersa ed incontrollabile selva di province, di margini, di periferie, di realtà minori, defilate, umbratili, non gerarchizzabili, ma dalle quali possono di tratto in tratto, quasi per un'illuminazione miracolosa, per un ardito e solitario, gratuito ed assurdo, prodigio dell'intelletto, emergere -̶ come scogli d'alabastro da uno sterminato mare grigio -̶ parole autentiche, essenziali ed inimitabili, di là dalla mischia di tante sterili polemiche e di tanti sfoghi solipsistici e astiosi.
La letteraturizzazione della vita profetizzata genialmente dallo Svevo dei Diari (e non è certo casuale questo mio frequente citare testi di per sé stessi periferici, frammentari, collaterali ̶- essi stessi in certo modo, e per così dire, “province” nel mondo concettuale di uno scrittore), quel processo per cui metà dell'umanità sarebbe stata impegnata a scrivere, l'altra metà a leggere ciò che quella avrebbe scritto, sembrano essersi finalmente attuati ̶ ma non più sulle pagine fitte e profondamente solcate, odorose e sussurranti, dei diari, bensì nell'immaterialità della rete.
Il Libro del mondo (al quale tutto, diceva Mallarmé, deve aboutir, “far capo”) si snoda e si scompagina («si squaderna», dice Dante) sotto le nostre dita e davanti ai nostri occhi stanchi e gremiti, ai nostri sguardi frettolosi o abbagliati. E tutto avviene nell'immaterialità, nella fluida e liquida “impermanenza” dello spazio virtuale, nel non-luogo del mondo digitale (ancora Mallarmé: alla fine di tutto, forse, alla resa dei conti, nel Giorno dell'Ira, quando si aprirà davvero il Libro ultimo ed eterno, a cui nessun segno, nessuna traccia, nessuna memoria possono sfuggire, «rien n'aura eu lieu que le Lieu», lo spazio della poesia attesterà nuovamente se stesso nel suo non significare nulla all'infuori di Sé ̶- e forse tutto sarà pronto per ricominciare da zero, dalla parola rifondata e ricomposta, uguale e differente, antico e nuovo, «vasto e diverso / e insieme fisso», vuoto d'ogni lordura, nel perenne rito dell'eterno ritorno).
La filosofia sa da secoli (ben prima della rivoluzione digitale) che l'immaginazione, tanto nel dominio del pensiero puro, argomentativo, della ratio ratiocinans, quanto in quello più corposo e sensuoso della creazione artistica, della mitopoiesi, della costruzione fantastica, maneggia entia virtualia, e che la trascendenza, il divino, l'indicibile, possono essere afferrati, o meglio accarezzati, da un tactus virtualis che nulla ha a che vedere con la mera empiria, con la concretezza e l'immediatezza della bruta esperienza sensoriale.
Per quanto la smaterializzazione, la volatilizzazione del testo provocate dalle scritture in rete (scritture lontane dalla stabilità rassicurante, dalla presunta perennità, infine dal millenario, quasi magico prestigio, propri del Libro) possano creare in molti umanisti (si vedano ad esempio le perplessità avanzate di recente da intellettuali come Umberto Eco o Giuseppe Conte) un non del tutto ingiustificato senso di smarrimento, e quasi l'impressione di una deriva, di una dissoluzione, di un naufragio nel vuoto e nell'infondato, insomma di una perdita di centri, di coordinate, di punti di riferimento, non è forse del tutto impossibile che proprio la smaterializzazione, l'evaporazione, per così dire, nella purezza immateriale, nella volatilità incorporea ed inafferrabile delle cifre e dei codici digitali rappresentino l'esito estremo, il compimento ultimo e più coerente, del dire poetico e letterario: un dire di per sé fatto, come affermava Contini commemorando Spitzer, di materiali che non durano, e svaporano (di «tinte», per citare il Montale più mallarmeano, in cui la carne -̶ l'«incarnat léger» delle Ninfe dell'Après-Midi d'un Faune ̶- si dissolve, e che trapassano, «si esauriscono» e si spengono le une nelle altre, in una catena di dissolvenze, in un iridato inanellarsi di progressivi annullamenti); dal che deriva infine la sublimata, platonica, tutta estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici.
Certo, la forma digitale e virtuale dei testi rappresenta l'anticamera della dissoluzione, della smaterializzazione, della solutio dei contenuti dal mezzo, dell'anima dal corpo -̶ insomma la soglia, a ben vedere, della morte ̶- ed era ancora Eco, nel suo pacato ed illuminante dialogo con il Cardinale Martini, a suggerire la pensabilità dell'anima immortale proprio attraverso il paragone con gli «immateriali algoritmi» della comunicazione elettronica.
D'altro canto la poesia, lingua morta per definizione, non aspira forse a risolversi e dissolversi nella «pura morte» dei simbolisti, nella «nouvelle mort / plus précieuse que la vie», di cui parlava Valéry -̶ non è lo scrittore, diceva ancora Kafka nelle lettere a Milena, «già morto in tutta la sua vita», votato ad una vita «più dolce di quella degli altri» e, insieme, ad una morte «tanto più spaventosa»?
E la provincia è, ancora una volta, il regno della morte in vita, delle «fiabe defunte» (per i Crepuscolari così come per molte delle più mature e consapevoli fra le giovani esperienze narrative, su tutte quella di Simona Vinci). Tale era già per gli scrittori della tarda antichità (così simile a questa nostra era di “tardo capitalismo” e di imperi in declino, a questo nostro ̶- per riprendere una citazione abusata ̶- «Impero alla fine della decadenza»), quando Sant'Ambrogio contemplava incupito i «cadavera urbium» disseminati nella Padania, Rutilio Namaziano le fortezze ridotte a «loca diruta» ̶- diruti, decaduti e frammentati, come il sapere in quest'era digitale e wikipediana ̶- come la scienza, diceva Eliot e ripete oggi Morin, persa nel sapere, e il sapere frantumato in miriadi di conoscenze irrelate, centrifughe, in se stesse, forse, prive di senso.
Poco prima, Traiano e Plinio il Giovane potevano ancora illudersi di decantare la «perpetua quies» della provincia -̶ un'«infanzia minimale», dice Zanzotto, poeta di paesaggi arcadici e insieme martoriati, obliati eppure presenti e vissuti, «che sfuma nella intrauterinità», e che è «ambigua» e «terrificante», «ferma, lontana, pericolosa, bloccata» -, l'avvolgente, acquatico, materno e insieme ferale, grembo della terra che si raggiunge dopo aver abbandonato il centro e alla quale infine, più ancora che alla madrepatria, si torna, dopo tante peregrinazioni, per rendere alla natura ciò che è suo -̶ per ricomporsi nell'ultima pace, spentesi ormai ogni storia e ogni voce.
Matteo Veronesi
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