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martedì 25 settembre 2018

"Five years, no tears". Massimo Sannelli dopo Neuromelò



(con le grafiche dell’autore e una foto di Fabio Giovinazzo)
Lotta di Classico, Genova 2018, pp. 80 (non numerate)

a cura di Elisabetta Brizio


Sono già cinque anni: nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto. 

Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?

Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce, e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo lei chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica, o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo ambito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è cosí, è inutile andare avanti...

sabato 9 dicembre 2017

Moto e resistenza delle cose



 
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».   
   Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.

mercoledì 21 settembre 2016

Elisabetta Brizio, "'Compos sui. Poesie nello stile del 1940' di Massimo Sannelli"




Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.

È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.

giovedì 9 giugno 2016

Tullio Rizzini, “Sonetti”

I componimenti che ho il piacere di presentare, al di là del loro valore poetico, sono, si può dire, una forma di poetica in atto, di applicazione sperimentale di un'idea di lingua e di poesia; e non possono essere scissi dall'assiduo, audace quanto affascinante, lavoro di ricerca (http://www.magiedizioni.com/documenti/origine-idee-e-parole_1.pdf) che l'autore, neurologo, conduce da anni, a partire da osservazioni compiute sulle abissali ed epifaniche agnizioni provenienti dall'apparente vaniloquio (in realtà, forse, sapiente glossolalia?) degli alienati mentali, intorno al valore fonosimbolico primario, originario, universale proprio perché prerazionale, racchiuso nei suoni fondamentali (o meglio nei fonemi, nelle sostanze concettuali e psicologiche soggiacenti alle manifestazioni esteriori che si odono e si scrivono) che vanno a comporre, con un'ars combinatoria non sempre facile da razionalizzare, quelle baluginanti ed enigmatiche spie del profondo che sono le parole.
Si potrebbero citare le celebri Voyelles di Rimbaud, o magari le ricerche compiute da René Ghil nel mondo francofono, da Chlebnikov in Russia ‒ o, ancóra, da noi, i forse troppo dimenticati esperimenti di Guido Ballo alla ricerca di una poesia che trasformasse le consonanze e gli accostamenti etimologici in occasione, etimo e sorgente di creazione. 
Ma, qui, la ricerca del valore fonosimbolico della parola non si traduce in indiscriminata autonomia del significante, o in cieco automatismo, o viceversa in cervellotica ricerca ad ogni costo dello scarto dalla norma e della distruzione del senso condiviso. Al contrario, la fusione di suono e senso, la motivazione, anche fonico-evocativa, della parola, cercano di superare l'arbitrarietà del segno linguistico, e di fare della parola poetica Verbo incarnato nel senso più pieno e più alto.
Le singole lettere hanno un preciso valore espressivo, o meglio una vasta e versicolore gamma di possibili sfumature, che vengono poste in luce dai loro accostamenti e dalle loro interazioni.        
Non è casuale che, nella tessitura fonica dei testi di Rizzini, paia prevalere la R, suono che evoca, secondo gli studi dell'autore, la “ripetizione infinita”, la tessitura del tempo che si eleva e si protrae al di là della contingenza, che diviene, nel proprio stesso reiterarsi e tornare su se stesso, immagine dell'eterno.
Sorriso aurora paradiso amore ora speranza eterne raggio... La tramatura fonica delle R, quasi come il filo o la nervatura di una rete neurale, unisce e fa splendere, da un testo all'altro, una nitida costellazione semantica, tesa fra il tempo e l'eterno. 
E, infine, forse non senza un richiamo a simbologie iniziatiche, massoniche o rosacrociane, i passi del poeta divengono danza, e il suo incedere si avvia, oltre il grigiore della materia, oltre l'oscurità dell'oppressione sociale e dogmatica, verso una sorta di nuovo Templum Salomonis; verso la dimora di una sovrastorica, universale fratellanza umana, di cui proprio la comune origine delle lingue (rispecchiata dal valore evocativo e simbolico originario dei suoni, riportato alla luce dalla poesia non meno che dalla scienza) si fa testimone e garante. (M. V.)




Il tuo sorriso era la gioia, il canto
della tua voce fioriva l’aurora
nel paradiso del tuo amore e l’ora
del mio riposo stava nel tuo incanto.

Piccolo nel tuo cuore amato tanto  
mi cullavo nel ritmo, ancora  e ancora:
non ti fermare mai, cuore d’allora,
anche se il bene mio s’è volto in pianto.

Nomade culla in arido deserto,
tra fredde stelle, batte ancora il suono,
da infinita distanza, dell’amore,

ed io son fitto al suolo ed il perdono
invano forse imploro, fatto esperto,
dal trascendente bene, del mio errore.

********                                   

Una parola buona…  ed il sorriso
della tua infanzia ti riscuote. Ancora
sei quello amato da tua madre, allora,
con la sciocca speranza impressa in viso.
                
Il diaframma del tempo, che ha deriso
la timida innocenza, si scolora:
sei stato amato dentro la tua spora,
e il mondo freddo, no, non ti ha diviso.       

Sii calmo e osserva: una parola buona
rinnova in te quello sdegnoso amore
ch’è la sostanza del tuo cuore antico

e lo riporta là, dove risuona
il ritmo consueto, come un fiore
aperto e mosso da respiro amico.


********

Montagne eterne, i vostri rivi sono
come la bocca della donna amata:
intensi e puri. E stendono il perdono,
nell’alba bianca, sulla terra ambrata.

Ascolto i boschi modulare un suono
alto e frequente all’onda, alla ventata.
Ed ecco tra le guglie il sole buono
Inoltrarsi nel ciel di sua giornata.

E sfiorare col raggio luminoso
la cima, là dove lo sguardo cede
tra il vorticoso azzurro e il verde ghiaccio.

Tocca il tuo cielo, astro tempestoso,
sciogli l’antico ghiaccio, e la mia sete
d’acqua soddisfa col divino raggio.

********

Tempeste e neve, ghiaccio, luce e sole,
squallide lame di nevai lontani,
baite piombate in malghe ed in pantani,
rivi rodenti rocce, e prati, e viole,

e sconfinate strade, dove, sole,
sfrecciano le marmotte o serpi strani,
alti silenzi in mezzo agli altopiani
cantatemi armonie senza parole.

Tra cappelle affrescate è bello andare,
balzanti fuor da spopolate ville
coi color forti dell’età di mezzo.

Un pozzo accanto, e un santo da pregare
ogni cappella ostenta, e sono mille
le favole istoriate che accarezzo.


********


Vedrò l’aurora di giornata eterna
dopo la nebbia e il cieco camminare.
Udrò la voce un nome pronunciare
che mi riscuota dalla notte inferna.

E ciò che accade sarà storia esterna:
la serie degli errori naufragare,
disciogliersi nell’infinito mare
dove promessa eterna si discerna.

I crucci e l’odio, il mistero dei cuori,
tutto esposto sarà. Cammineremo
sopra un viale d’alti alberi ombreggiato.

Deposta ogni speranza nel passato,
finalmente a quei rami appenderemo
nomi e sentenze dei perduti amori.



***                                   

Nacqui nel sangue, uscito da una goccia
di sperma. Nei torrenti della luce,
tra il rombo dei cannoni, mi conduce
l’invincibile tempo ad una loggia

aggettante sul mare, incisa in roccia,
dove l’eterno orizzonte traluce
di schiere d’astri, e in quell’oceano adduce
il movimento uman, piccola roggia.

Dal balcone alto il Savio giudicare
costellazioni e rivoluzioni
può certo, e il pianto di colui ch’è nato.

Io più non piango e resto giù, a imparare
sciacquio d’onde, e del vento le canzoni:
le sillabe che m’ hanno perdonato.      

*** 
                                                                           
Bianca città, fulgente in mezzo agli orti,
potrò contare mai i perduti passi
degli abitanti tuoi sui lisci sassi,
e gli echi delle voci nelle corti?

Anch’io compongo i miei segnali ai morti
infiniti che occhieggiano tra i massi,
e cammino nei vicoli e nei bassi,
su catacombe in cerca di risorti.

Nel tuo grembo è fetore, eppure splende,
incontrastata impudicizia al cielo,
la gioventù di vivido cristallo.

E il passo, e la parola che l’accende,
io descrivo, indossato un bianco velo,
e, nel suo sinuoso vezzo, ballo.
     

lunedì 6 giugno 2016

Giuseppe Feola, "Schegge (II)"

I testi che presento sono una specie di fulminante sintesi di certi tratti della tradizione occidentale (ma forse anche con qualcosa delle liriche cinesi) delle forme epigrammatiche e frammentarie, dai lirici greci a Quasimodo a Ungaretti a Penna.
Nel momento stesso in cui si avvicina alla natura (in cui anzi si fa essa stessa natura, in cui la parola si fa visione ed evento, nell'immediatezza delle forme verbali, della sintassi nominale, dei "bianchi" che isolano i sostantivi come  cristalizzazioni delle sostanze appercepite, o come "idee" in senso fenomenologico), la poesia ribadisce ed accampa la propria assoluta autonomia, il proprio aurorale valore di "cosa fra le cose", di "cosa aggiunta al mondo", Leben e insieme mehr-als-Leben.
I bianchi, poi, nel momento stesso in cui paiono destrutturare il tessuto metrico del testo ritagliano ed isolano, invece, spesso, emistichi e cola, regolari. La metrica è negata nell'apparenza per essere ribadita nella sostanza profonda, nelle autentiche e radicate ragioni della ritmicità sotto o al di là del ritmo, come in un complesso gioco di entropia e neghentropia. (M. V.)



1


L’inverno – un vello
di nuvole
ricovera il giorno nel sonno:
                    è culla
del fulmine
a notte.

2


Nelle case: le lampade.
Studenti,
esistenze in attesa,
intente al
futuro.

3


Nelle pozzanghere:
la schiuma
dei giorni

‒ fumo di oggi
che esala al domani.

4


Venti taccole sui rami dell’albe-
ro stecchito: gentile cicaleccio
nero, che oscilla
di voli, nell’azzurro
inverno.

5


Alberi ancora secchi
tra campanili e case:

le loro braccia insistono al silenzio;
sulle dita, dialogo
d’uccelli:
voci primaverili della luce.

6


L’ala della libellula
canta la luce:
voracità dei
giorni, che cresce di ritmo di Sole e
sfiorisce.

7


Volo di gabbïani,
da ovest:
vista,
nel cielo
lontano,
dell’invisibile mare vicino.

8


Solitudine: un cerchio
affollato di voci;

un balcone da cui
non si affaccia nessuno.

9

.
Azzurro fosforo
di questo tramonto: si cambierà in
ceruleo e nero.
Nuvole. Bianche
ali di gabbiani che se ne vanno.

10


Crescono i cardi col lume del Sole
negli occhi:

cerulei guarda-
no la prole dell’uomo,

che passa.

11


La città vecchia immobile
nel pomeriggio del sabato estivo:
lenzuola stese nel cielo;
                risveglio
beato, sotto l’azzurro del Tutto.

12


Da undici anni
combatto
col senso da dare alla vita;
                    spenta
la sigaretta: tra i denti, la cenere
mangio; la birra,
finita.

13


Il fremito delle foglie, sfiancate
dalla calura.
            Instancabile suona,
lì in alto, la
corda della cicala.

14


Voli di corvi
e gabbïani, sul tetto di fronte;
la mezzaluna nel cielo diurno:

raduno
di azzurre, mobili vite, sul petto, nel-
l’occhio del Sole.

15


Il rombo immane
di foglie nel vento:
ode unanime al tempo
di diecimila vite
votate al-
la morte.


16


Il dono della notte a chi è solo.
La danza delle stelle:
la lontananza, il volo.

domenica 24 gennaio 2016

Ester Monachino, “Dieci variazioni intorno ad una rosa”




Impossibile sarebbe cercare di riassumere (dal Roman de la Rose e dal controverso Fiore di un giovane Dante, dove la rosa è oggetto agognato di conoscenza ma anche, concretamente, quasi ferocemente, di desiderio carnale, alla luminosa sublimazione mistica della “candida rosa” del Paradiso, alla cosmica e insieme sensuale corrispondenza barocca tra “sole in terra” e “rosa in cielo”, microcosmo e macrocosmo - fino alla “rosa di nulla, rosa di nessuno” di Paul Celan, quasi condensazione ed emblema di una novecentesca ontologia del nulla e della nullificazione) i diversi, variati, quasi infiniti valori, le sfaccettate e contrastate risonanze, che la Rosa ha assunto nel corso dei secoli - quasi ribollente athanor, ricettacolo di luce e di mistero, depositaria del ciclo eterno di disfacimento, trasformazione, rinascita in altre forme.
Con una potenza di visione quasi ovidiana, da carmen perpetuum,

lunedì 2 novembre 2015

"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio





Don’t you know what’s so utterly sad about the past?
It has no future. The things that came afterwards have
all been discredited. 
Jack Kerouac, The Town and the City 





Nella primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse di «esporsi», come preferisce dire. In seguito abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno, ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva (valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che contestualmente le ispira e le comprende.

mercoledì 29 luglio 2015

Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"


«Eterno in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti, neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva, se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

Anche queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del transeunte.
La morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)

1

Eterno in me il tuo viso
d’ultima estate terrigna,
quando a colli e falde arroventate
ferite membra cosparge d’ebbro sale
un verde temporale.

Impenna all’aria smossa
dai ricordi, triste pavana,
la tua pelle che fronteggia bruna morte,
le sere che un cielo dal respiro ferace
si spegneva in luce.

2

Andavi, è vero, come d’aria una folata
gelida a stemperare il ventre caldo
d’estati afose, ognuna già sprecata –

ma la voce t’increspava in un pianto
(solo adesso mi pare averlo inteso)
che riallacciava in te un legame infranto.

Ora non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte mani più bianche a salutare
nel primo buio, alla notte in bordo.

3

Un’ultima estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e cantavi nei silenzi
spiegazzati dentro i vecchi cortili

come se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per tenebra rifonda –
e immobile restavi ai secchi colpi

d’un libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei pianori appartati
dove il fieno stende ad asciugare.

Pause hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono, lieve manto,
il sapore di tristezza delle more.

C’è pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva dei piedi
il correre nudo, le piaghe più atroci.

4

Nell’erbata dove slomba, in torme sfinite,
l’orda lucida dei cinghiali, fa notte nera
il vento che viene ansando da smosse rive
di torrente: il rigagnolo anche sommerge
la pietra bianca con su incisi date e nomi.

Ai rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato a morsi, del raponzolo dorato
una lebbra di corolla, e tremando all’aria
è ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che ora sfumano l’uguale, immenso nulla.

5

Scottano al sole di luglio gli ocracei stagni
dove innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto, smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano tacendolo tra sedie e altalene
ogni canto di cicala, singhiozzo nell’erba.

Sulle pietre del greto salmastre ombre allunga
al centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’ allegro vociare in questa immota tristezza
delle ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).

6

Luna scioglie nel lago –
fa paura a ridirsi quel vuoto
che sparendo hai creato.

La terra, tu gli manchi
ed eri acqua nella stagione secca,
eri lucida vita.

Oscura la collina –
di stelle non conosco pietà
per continuo dolore.

Le bestie, tu gli manchi
ed eri amica nelle lunghe sere
di screpolata estate.

7

Spengono i rumori della strada, a sera
(nei tuoi occhi si venava madreperla) –
ho atteso di guardare i voli delle cince
nascosto tra il cordame di vitalba secca -

o le macchie che luna lascia sui prati,
contate da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro dei castagni, se anche giugno
se ne andava senza riportarti dal nulla.

8

Stavi tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva le acquate che rimontavano forte.

Piangevi per le piccole volpi nascoste al folto
dei tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando i cani scioglievano la corsa disperata
e tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.

9

In neve di luce crollava il giorno
e della tua festa rimase fermo
nell’aria scossa dal riverbero di lune
un nastro che ora al buio s’ inviola.

L’orma cancella ai tocchi della mezza,
i denti spezzati delle innumeri ore
dentro gli ombrosi giardini (quel sole…)
in calma attesa di un lento tuo gesto.

Di fronde risuona, risacca, ogni mattino
una diversa voce: è il ricordo del mondo
in alto riverso, rami divenuti gli scogli
del cielo più blu, quell’autentico mare -

o i cadenti colli di verde grondanti,
argine al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava uno per uno i corpi appesi
al crepuscolo triste, ingorgo di rovi.

10

Nell’agosto che a stento s’allumava
ogni sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra che sei emergeva da acque ceree –

il biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai spento ha il cribrare questi miei giorni –
se nuova pena all’alba cruentava più lontano.

11

Una morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

12

Slavata dai canti -
l’afa candida del mezzogiorno,
cenere imbianca il cuore
delle cose –
un’ora di silenziosa mancanza.
Tu vieni dai morti
alle pianure bruciate in solleone,
con te porti
profumo di spezie e lacrime, o pioggia –
da pinete di porpora, i passi blu
nelle sere impalpabili di luce.
Ma tu vieni dai morti
e ad ogni alba ci ritorni.

lunedì 23 marzo 2015

Chiara De Luca, Poesie per Ferrara


 
Come scrisse splendidamente, tempo addietro (nel n. 9, ottobre-dicembre 2003, di «Cartapesta», piccola e preziosa rivista imolese oggi defunta), Andrea Pagani,  «sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti –» ad ospitare e sollecitare la genesi della pittura metafisica. Città, proseguiva, tale da ispirare «la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose».
Lo stesso vale per questi versi di Chiara De Luca, che ho l’onore di presentare. Testi in cui vi è, certo – ma remota, privata di qualsiasi compiacimento decadente, di qualsiasi svenevolezza ed estenuazione estetizzante –, l’eco della città del silenzio dannunziana (o di quella «Ferrara la morta» di cui Corrado Govoni, ad emulazione della Bruges di Rodenbach, cercò, a inizio Novecento, di plasmare l’immagine e il mito); ma nei quali prevale un ritrovato respiro, una rinnovata ariosità, discorsività e umanità del canto, oltre, e non al di qua, di ogni tentazione di formalismo o d’intellettualismo chiusi in se stessi.
Il che non indebolisce, ma semmai rafforza, la portata simbolica, la correlatività esistenziale dei luoghi, degli ambienti, dei nomi, e dei ricordi che essi, quasi proustianamente, richiamano e ridestano.

venerdì 6 marzo 2015

Pietro Pancamo, "Gli intercalari del silenzio"

Offro ai lettori, da una raccolta inedita di Pietro Pancamo, questo prezioso esempio di poesia silenziaria che, del silenzio, esplora le varie dimensioni: tanto il lirismo quanto l'amarezza, sia la crepuscolare perplessità sentimentale che il pianto e il grido trattenuti a fatica, così il raccoglimento interiore come il sorriso, o la risata, beffardi e disgreganti.

L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.

Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.

Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.

Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.

Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.

(M. V.)

 

Filosofia

Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio

che smette, ogni tanto,

di pronunciare il vuoto.

Allora qualche indizio di materia

deforma l’aria,

descrivendo le pause del nulla

prima che il silenzio

si richiuda.

(Le mani s’infrangono

contro un gesto incompiuto)


Verande d’azzurro

I

Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza

prima di entrare nella moschea delle bocche.

II

I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine

indossano pastrani di luce.

III

Un gregge di bagliori

alle pendici dei versi

nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…

Canicola di gioia, tanfo d’allegria

negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità

negli acuti del sole

e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…

IV

Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…

Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno

intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi

festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.

Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…

V

Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.

Dal lievito nullo di rocce azzime,

paesini salgono

pioli di luce.



Poeti

Noi che visitiamo carmi di sole

brindiamo con versi e parole.

Scriviamo sorrisi

e sentimenti in codice;

insonni di vita

andiamo sposi

ai nostri occhi.



Se la tua voce

 

Se la tua voce desidera cullarsi

nel mio cuore,

troverò i sorrisi

con la mano di un giocoliere

e i miei minuti saranno il volto di acrobazie

che, da una mano all’altra,

volano fra una mano e l’altra.

Il destinorizzonte

Stracci di sonno coprono,

masticano il corpo della notte

diafano di tenerezza;

lo avvinghiano

sinuoso di buio

– flessuoso di membra stellate –

e lo attraversano d’amore.

Poi, fosforescente,

lo sguardo della nebbia,

scosso di stanchezza,

si espande lento nel cuore

come un gas di desideri

volatilizzati.

Mentre il mio destino,

guantato dalla notte,

scende nei sobborghi dell’anima:

strade oscure di pensiero

e siepi d’amore

s’intersecano nel mio nome.

Il destinorizzonte

s’attorciglia

a questa landa di tempo.

«Chi» – si domanda –

«striscerà nella roccia del canto

la gioia, turgida

come i seni di un fiore incantato?».



Parole dal silenzio


Ricorda il mistero

che fioriva in un sospiro,

dove la morte ha tessuto il nido

come una spiaggia

di parole taciute;

come un barbaglio di sogni trasparenti,

orchestra di anime perdute.


La fuga mancata

La voce trasuda parole d’accento piagato

ma è tiepido il grido del tuo respiro,

le piaghe troppo soffocanti

perché tu abbia il fiato d’urlare.

Morire da te

è una fuga troppo leggera

per avere il sollievo.

Così

un pantano di figure

nel cuore

e il giorno s’increspa

a raccogliere il tuo soffio.


Nausea


Morbido silenzio, soffice

come una preghiera del sonno.

Il buio che adora fruscii e parole:

il buio, affannato dal mio respiro,

può solo accarezzare la

nausea di questa vita.

Nel giorno,

sputo della notte,

fiori freddi

come steli di pioggia.

Un’orma di luce

imbavaglia lo spazio.

venerdì 1 agosto 2014

Gabriele Marchetti, "Apologia di Quasimodo"


 
È strano il destino di certi poeti: inattaccabili in vita, diventano nemici pubblici dopo la loro dipartita, e ridotti a semplici nomi. Peggio ancora è quando un nome viene associato ad una certa idea di poesia da evitare a tutti i costi, spesso senza altra giustificazione che una presunta difficoltà.
Resta da dimostrare, credo, quale abisso insormontabile sia possibile scavare tra un poeta che usa una certa lingua e i lettori che comprendono anch'essi, ed ugualmente usano, quella stessa lingua.
E' il caso di Quasimodo, che ormai corre il rischio di essere bandito perfino dalle trite antologie scolastiche perché troppo oscuro. Quando sono stati resi noti gli argomenti dei temi alla maturità di quest'anno, e si è letto il nome di Quasimodo e il titolo della sua Ride la gazza, nera sugli aranci, si è gridato alla blasfemia anche da parte di illustri rappresentanti del mondo letterario. Testimonianza del ritardo culturale della scuola italiana, è stata questa l'accusa più lieve; e la soluzione avanzata per superare queste pecche decennali è stato proporre di aprire il cosiddetto canone ad autori ben più meritevoli come Sereni, Zanzotto, Caproni, Luzi. Insomma, la poesia dovrebbe scendere dal piedistallo e tornare ad essere alla portata di tutti, altrimenti i giovani se ne allontaneranno.
L'unica risposta che mi sento di dare è questa: che se ne allontanino pure, perché se lo faranno significa che sono indegni della poesia. Bisogna mettersi in mente che la poesia non è il calcio, non le servono tifosi che paghino l'abbonamento, non le servono grandi arene dove mettere in scena ridicole farse. Le servono testi validi, e questi mancheranno finché i poeti perderanno tempo a crearsi un personaggio all'altezza delle aspettative del pubblico (una volta una signora si è detta contenta di un gagliardo giovanotto perché finalmente, nel mondo della poesia italiana, c'era anche un bel ragazzo). Ma sono i testi che possono attrarre i più giovani, e un pubblico interessato, i testi e niente altro. Non deve passare l'idea che alcuni poeti siano più di moda di altri: è una stupidaggine, e se ci credessimo dovremmo bruciare tutte le copie della Divina Commedia, del Canzoniere del Petrarca e dei Canti di Leopardi.
Altro grosso errore, questo ben più grave e in qualche maniera più pericoloso, è la fede nel giudizio di alcuni cosiddetti intellettuali che si credono investiti di un ruolo che nessuno ha loro conferito: essi pensano di poter dire alla gente chi leggere e chi no, quali poeti e quali no, decidendo per tutti. Siamo davanti al germe di una dittatura letteraria.
Così sta accadendo per Quasimodo. Sento da più parti che il siciliano è accusato di fare letteratura invece che poesia; che mi pare proprio una distinzione inutile, questa sì legata a preconcetti. Secondo quest'ottica, tutta la poesia antica non è poesia, ma semplice scambio di informazioni letterarie, gioco enigmatico di accenni per pochi eletti. Allora, perché la si legge ancora oggi?
Ecco la colpa della poesia italiana odierna: essersi abbassata, svilita, essere diventata prosa con la sola caratteristica distintiva dell'andare a capo ogni tanto, e tutto questo solo per venire incontro e piacere alla gente.
Chiedere ad un poeta di non fare letteratura, mentre fa poesia, equivale a chiedere ad un prete di svolgere il suo ministero senza credere in Dio.
È il lettore, nella sua pochezza, che vorrebbe solo la polpa, di questo frutto, senza il nocciolo e senza la buccia. Non vuole insomma guadagnarsi nulla, tutto gli è dovuto. E chi critica Quasimodo parla forse da lettore, prima che da letterato.
Non capisco, a dire la verità, l'accanimento che molti dimostrano nei confronti di questo poeta; gli rinfacciano il Nobel come immeritato, ma su quante assegnazioni, almeno nel campo della letteratura, ci sarebbe da ridire? Perché non rinfacciano la vittoria di Carducci, che è poeta molto più ostico di Quasimodo, e dal loro punto di vista molto più ''letterario''? Anche sull'indicazione di Zanzotto, come papabile di entrare nel canone, ci sarebbe molto da ridire: intitolare una raccolta di poesia IX Ecloghe vuol dire fare letteratura; anzi, siamo addirittura di fronte ad un iperletterarietà che pare non abbia disturbato i sonni di nessuno (e senza voler parlare di certi altri spaventosi testi di Zanzotto).
La poesia ''difficile'' non fa presa, perché spaventa il lettore: gli mette davanti la sua scarsissima propensione alla visione pura. Dunque scatta nel lettore un meccanismo di difesa che assomiglia molto a quello che la volpe, nella favola di Esopo, escogita per non perdere la faccia: dice che l'uva è acerba e non le piace, così come il lettore scarta a priori un poeta.
La pochezza del lettore non è un problema che debba riguardare il poeta. Credo che Quasimodo l'abbia capito e abbia scelto di proseguire sulla sua strada, elitaria, puramente lirica (di un lirismo, oltre che di suono, anche e soprattutto di immagine); con evidenti cadute, specie nelle liriche degli anni del conflitto, e proprio quando più è sceso in terra per venire incontro al pubblico.
Dicevamo che il lettore è pigro e non vuole fare nessuno sforzo per partecipare al processo di creazione. La difficoltà di un'immagine può inficiare, prima ancora che l'uso di una lingua colta, la ricezione di un testo. C'è un aneddoto, che riguarda la Recherche di Marcel Proust, secondo il quale André Gide avrebbe rifiutato di pubblicare Dalla parte di Swann presso la Nouvelle Revue Française a causa di una metafora che non comprese appieno perché troppo difficile. Si tratta dell'episodio, raccontato nella prima parte, capitolo secondo, in cui il Narratore al mattino soprende la prozia Léonie ancora senza la sua parrucca, i cui capelli vengono paragonati nell'ordine a vertebre, corona di spine e grani di rosario.
Senza scomodare troppo Proust (che per fortuna pubblicherà comunque il suo capolavoro e farà completamente ricredere Gide), mi sembra chiaro che il lettore può agire sul testo in un solo modo, e cioè interpretando l'immagine che le parole concorrono a formare. Gli manca del tutto, oggigiorno, la possibilità di agire sulle parole (può solo leggerle, prestando la sua voce, ma non può letteralmente cambiare una virgola); possibilità che veniva sfruttata appieno nel medioevo, età in cui i testi erano molto più fluidi. A tal proposito fa sorridere l'episodio, citato dal Sacchetti nel Trecentonovelle, CXIV, di Dante che litiga con un fabbro che, intento al lavoro, si teneva compagnia cantando i versi del poeta, storpiandoli alla sua maniera.
Il lettore deve subire il dettato, la lectio. L'interpretare l'immagine sottintende uno sforzo, una actio che egli non vuole sobbarcarsi. Da qui il suo essere restio nei confronti di poeti come Quasimodo, le cui immagini ''nuove'' (ma nel senso che affondano talmente tanto nell'immaginario antico) risultano estranee al gusto moderno.
E infatti il suo apice lo troverà quando tradurrà i greci, con il loro campionario di immagini lontanissime dal presente, e non quando si allineerà agli altri, per lingua e temi, in Giorno dopo giorno.
Nessuno ha però mosso critiche a Montale, perché la sua lingua, per quanto ricca (e anche più letteraria di quella di Quasimodo, almeno nella scelta del lessico), è rimasta di qua dalle immagini che descriveva, non ha mai oltrepassato il confine. È rimasto facilmente (più facilmente di Quasimodo) leggibile perché la sua lingua non ha forgiato immagini nuove, difficili da comprendere. Non ha taciuto: ha detto, descritto, ma non ha lasciato al lettore il compito di completare l'abbozzo suggerito.
Ecco un paio di esempi dagli Ossi, presi da Quasi una fantasia, nella sezione Movimenti:

Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse (vv. 1-4),

Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali (vv. 10-13).

I termini adoperati da Montale non sono quotidiani: raggiornare, presentire, albore, frusto, listare, turgere, subissare. È qualcos'altro che rende digeribile anche una lingua come questa: l'immagine, semplice, comune, alla portata di tutti. Nel primo esempio si dipinge un risveglio, causato dalla luce del mattino che filtra dalle persiane; nel secondo, il poeta si affaccia alla finestra spalancata sulla città.
Ma si legga questo verso da Falsetto:

La dubbia dimane non t'impaura (v. 22),

la cui ascendenza leopardiana (La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio), per il sentire e la pulizia del dettato, non può sfuggire. Non è forse fare letteratura, citare più o meno apertamente altri testi letterari? Di nuovo torniamo ad avere a che fare con un'immagine chiara, comune, con cui tutti, più o meno, hanno avuto o hanno a che fare. Si può ammettere che Montale sia un poeta capace di risultare universale, un po' come Leopardi, nei temi e nelle immagini; ma questo non significa affatto che Quasimodo, avendo scelto una via più ardua, meno battuta, più elitaria (e già Mallarmé considerava la poesia una cosa per pochissimi), sia meno poeta del ligure. E' un modo diverso, semplicemente, di intendere e realizzare la poesia.
Leggiamo la tanto vituperata Ride la gazza, nera sugli aranci (da Nuove poesie, 1936-42):

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.

Credo che l'unico termine che uno studente mediamente colto debba andarsi a cercare sul vocabolario sia forse zàgare, e cioè i fiori degli agrumi (qui, verosimilmente, quelli dell'arancio). Ma per quanto riguarda il livello iconico del testo, siamo molto lontani da Montale: l'affastellamento degli elementi, che sembrerebbero non avere legami tra loro, di chiara matrice simbolista, imbroglia la ricezione e la fantasia del lettore. Egli dovrà intendere pietà della sera non come il sentimento cristiano, quanto come l'ufficio liturgico che si svolge dopo i vespri (l'ultimo della giornata, insomma); da qui scaturisce l'aggancio con l'immagine della notte e della luna, come prima con quella dei bambini che giocano sul sagrato della chiesa. E i ricordi (ombre conservate nella memoria) sospingono il poeta ad altre età, alla fanciullezza (che è forse un richiamo universale allo stato adamitico, con l'immagine dei fanciulli che dormono nudi), al paesaggio siciliano (l'insistenza sull'acqua, sul mare, sulla vegetazione tipicamente insulare); che guarda caso è il paesaggio di tradizione teocritea, anche se qui non c'è nessun accenno diretto ad una radice letteraria ben definita.
Mentre Montale inizia un'immagine e la porta fino al suo compimento, con un incedere lineare, leopardiano nel suo tenore filosofico, Quasimodo sfalda l'immagine in immagini più piccole, che poi rimonta creando echi che ad un lettore distratto diranno sempre molto poco, a parte convincerlo che questa è poesia di difficile lettura. Ma una logica interna sussiste anche nel collage che ne risulta (ed è in fin dei conti la stessa tecnica che adoperano Rimbaud e Mallarmé, altri due poeti tacciati di illeggibilità); certo richiede, più che una preparazione letteraria vera e propria, una sensibilità che è diventata qualità rara, specie nel lettore moderno, distratto da troppo altre sirene.
E stupisce (o forse no?) che di questi tempi così aperti, a parole, ad ogni forma di integrazione, ad un dialogo con qualunque cultura, proprio nel mondo della poesia si innalzino muri per ghettizzare un autore.

(Gabriele Marchetti)