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sabato 24 dicembre 2016

Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"




Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.

lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

martedì 12 gennaio 2010

Elisabetta Brizio, "La grigia 'povertà cogitabonda' nella poesia di Marino Moretti"

La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la sua voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.


Camillo Sbarbaro


Chinar la testa che vale?
Che vale fissare il sole
e unir parole e parole
se la vita è sempre uguale?

Marino Moretti



Oppressi dalla dannunziana mitologia del poeta-vate i crepuscolari ostentano una povertà stilistica e di contenuti, attenuano i grandi motivi decadenti e decantano la propria incapacità di sostituirli; in tutti c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur con un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è antilirica confessione della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. E il presupposto comunicativo della negazione crepuscolare è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: un disconoscimento - di secondo grado dunque - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

Della poesia i crepuscolari inverano la morte e una condizione aurorale, aspetti compresenti nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo che Giuseppe Antonio Borgese inaugurava su “La Stampa” nel 1910:

A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. (…). Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.

Marino Moretti - nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì un lunghissimo, emblematico silenzio poetico protrattosi fino a Diario senza le date, uscito solo nel 1965 - accondiscende all’atmosfera crepuscolare attraverso un impoverimento tanto delle emozioni che della valenza d’eco sia del catalogo oggettuale che dei luoghi del crepuscolarismo. In lui l’obiezione al naturalismo e allo storicismo avviene in una dimensione strenuamente ironica, nell’intrattenersi con una realtà poetabile solo per diminuzione. Non siamo nell’orizzonte della riduzione mallarmeana (pur se umanamente, tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e dunque richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale) verso la purezza, né di quella corazziniana verso l’essenzialità e l’astrazione linguistica delle ultime raccolte, nelle quali il soggetto lirico-empirico delinea l’esito di un divenire che tragicamente accede al punto d’arrivo. Con evidente intenzione mistificante - ma fino a che punto? - Moretti esibisce, come uniche emozioni, un cupo grigiore e la noia della vita. Ma sovrappone a tali referti la propria inclinazione riduzionistica vistosamente diminuendoli, e filtrandoli attraverso uno schermo che li riduce fino a rivelare della realtà la sua qualità “lillipuziana”:

Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi: la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita
è come l’arte, un gioco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, Poesie di tutti i giorni).

Il celebre morettiano “nulla da dire” potrebbe assimilarsi all’indebolimento del verlainiano “Plus rien à dire!”. Il "nulla da dire" di Verlaine (nel celebre sonetto Je suis l'Empire à la fin de la décadence) è comunque inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana (la decadenza tardo-ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui è tramata e intessuta, nella ruota dell'eterno ritorno, dei corsi-ricorsi, la storia, e in particolare di quella tardo-imperiale, che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater).

L'afasia di Moretti può invece apparire più individuale, intimistica, provinciale, marginale, perciò talora anche fastidiosa, oltreché povera di significati letterari e culturali, proprio perché scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli.

Nondimeno, che anche il non-dire possa essere paradossalmente fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna, che sta, ad esempio, alla base dell'alea musicale così come del teatro dell'assurdo - mentre il théatre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l'ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l'indugio, nella letteratura e nella musica.

Il nulla da dire invade anche i morettiani luoghi della retrospezione e si intreccia con il rammemorare, con la regressione, come in Il ricordo più lontano, posto a chiusura di Poesie scritte col lapis. E tale tendenza al regressus accomuna il poeta agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per reificarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente (scriveva parecchi anni or sono Luigi Baldacci che leggendo Moretti si avverte la sensazione che egli sia intervenuto nel momento in cui la poesia crepuscolare si era pressoché esaurita), come nella dichiarazione apertamente programmatica - e ormai non più neppure antidannunziana - della sua poesia-prosa, emblematizzata nella metafora del frutteto:

Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia

(…)

Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore
che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?

(Il giardino dei frutti).

E viene spontaneo qui l’accostamento alla più nota e fors’anche più sottile esternazione di Gozzano, contenuta in L’altro:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile di uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Rispetto al più scaltrito Gozzano, il cui prosaismo, com’ebbe a dire Montale, viene sapientemente e imprevedibilmente coniugato con “l’aulico”, con la componente della tradizione, con l’esibizione di una letterarietà travestita da dimessità che ne legittimerebbe la classicizzazione, Moretti, si diceva, sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale.

Un crepuscolarismo, quello di Moretti, eideticamente devitalizzato, deprivato di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuto di stazionare su una ontologica e poetica nihilitas nella quale l’inaridimento viene apparentemente vissuto senza ombra di pathos. Con questo, la morettiana prosa-poesia non è tuttavia esente dal coefficiente aulico: come in Gozzano, la componente letteraria viene solo accortamente dissimulata, e con loro, come poi con Montale, la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, tra “sublime inferiore e sublime superiore”, come notava Edoardo Sangiuneti, diventa eminentemente una questione tra sublime e non sublime.
La poesia di Moretti si presenta con metrica e forme chiuse, e con l’ostinazione della rima; resistente al verso libero, la sintassi morettiana mostra comunque forti spezzature (ad esempio in A Cesena), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Lo accomuna a Gozzano un’ironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio poetico, nel tentativo di decifrare il livello profondo dell’espressione. Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, ma rispetto al poeta torinese, che costantemente si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita finanche di proporsi, restando al di qua di qualsiasi affermazione:

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente!
che cosa, io non so veramente
perch’io non ho nulla da dire

(Io non ho nulla da dire, Poesie di tutti i giorni).

Che senso ha dire in poesia “io non ho nulla da dire”? È una forma di negazione della poesia in quanto tale? Verbalizzare un nulla da dire alluderebbe a un segno più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è una maniera estrema per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivarrebbe a non dire menzogne, ad astenersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due eccessi, o poli, dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, per dirla alla Gozzano, alla “rinuncia volontaria”, che talora nondimeno si esprime in forme e toni maggiormente assorti e riflessivi:

Felicità, cosa che sa d’amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce ma non uccide;

felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?

E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t’ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, infelicità?

(Cosa e parola, Il giardino dei frutti)


A Moretti, rispetto al liricissimo Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano perlomeno delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a entrare in sintonia - seppure per sottolinearne lo scarto - con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con il mistero. Così come gli è estraneo il corazziniano indulgere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty - vibrazioni e volute di puro suono, ma implicate anche negli innumerevoli simboli tratti dal mondo della natura, di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana.

Quella vicinanza, in altri termini, alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo dell’esperienza e della parola. Laddove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica espierenziale ricercatamente minimale.

Un’esperienza eminentemente grigia (“non c’è che un colore: / il grigio”, Che vale?), colore debordante nei versi di Moretti, che sottentra al bianco corazziniano, tonalità del silenzio e della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal grigiore dello spleen crepuscolare:

Voglio cantare tutte l’ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, a una gota,
mentre rivedo, piccola, un’effige

(Che malinconia!, Poesie scritte col lapis);

Non c’è né duolo, né gioia
non ci son luci, né ombre:
il grigio, il grigio che incombe
sui cuori e un tarlo, la noia!

(Che vale?, Poesie scritte col lapis)

Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare è Armonia in grigio et in silentio del più “barocco”, impressionista e coloristico Govoni), è colore che collima con la noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della “tetraggine” (“malinconia / del tuo color che non è più colore”, Ode al lapis). Un “grigio borgo” dove piove e “s’avvicina / l’ombra grigiastra” è Cesena, grigie sono le ore, “grigia è l’immensità in La domenica di Bruggia, grigio il diurno morettiano vagabondare (“lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessuno mi saluta / fuorché un cane a quando a quando”, La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire come indistinzione del segno riluttante a significare. Il girovagare, si diceva, il nulla da fare, già sottolineato da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo che non assumono il carattere crepuscolare del notturno come esperienza estetica (stando ai ricordi dei crepuscolari del cenacolo romano) o come insofferenza al vedere quanto lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo inconcludente vagabondare, nel quale il poeta sembra pago

d’una felicità fatta di cose
randagie, di brevi atti di passanti,
di ritornelli facili, di pose
vecchie d’innamorati interessanti

(A Firenze con Palazzeschi).

La poetica dell’oggetto, del proverbiale oggetto crepuscolare, antefatto letterario del montaliano correlativo oggettivo, subisce con Moretti una sensibile deviazione. Se in Corazzini l’oggetto era il compimento di una visione o la simbolizzazione di un’ossessione emotiva, ovvero l’incarnazione materiale dell’anima, in una parola, “un altro me”, deperibile e soggetto a consunzione, segno d’elezione dell’estrinsecarsi dello spirito, in una relazione paritaria con il soggetto lirico (una variazione del mondo reale dal punto di vista del soggetto), in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e sancisce tale distanza conservando una dimensione più realistica e meno astrattiva, e patisce la trasfusione di una mancanza di sentimento. In Moretti gli oggetti non paiono in alcun modo emotivamente o esistenzialmente connotati se non in modo implicito, silente, che eventualmente sarà decifrato dal lettore. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda (“Oro doro odoro dodoro”).

L’indifferenza permea e impregna, avvolge e imbeve anche lo stile di Moretti, che si qualifica come stile al grado zero, insieme alla fredda luce degli oggetti e degli ambienti, che riflettono in modo solo implicito, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero autentico stato d’animo.

Ma non alla maniera del superegotico Gozzano, riempiti di ironico rimpianto, talora sbeffeggiati, ma saturi comunque di un contenuto soggettivo, di un’aura di passato ormai cristallizzato, la sola consistenza che Gozzano riesca a padroneggiare, a fruire, oltreché l’unica a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’edificazione di una sorta di “altare del passato”: e il carattere di passato che pervade i versi gozzaniani sopperisce a una tutt’altro che metaforica vacanza di presente.

Gli oggetti di Moretti rivendicano la propria autonomia, e malgrado talora dessero l’impressione di adombrare una evasione, una qualche risonanza, hanno una dimensione univoca e inequivocabile, sono concreti e letterali, per usare la definizione che Roland Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani. Il morettiano oggetto fattuale dunque fa la cosa senza svelarne alcunché. Moretti non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né li assume, gozzanianamente, come obsoleti nella loro assoluta fissità, e neppure sono obsolescenti come le corazziniane cose “che sanno”, in una poesia dove poeta e oggetto condividono lo stesso destino in una comunione indivisa. E in Corazzini a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e della prospettiva cosale.

Inoltre, il repertorio oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal consueto catalogo crepuscolare e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni (“tutte conosci le città dei miei / sogni e paesi che non vedrò mai”), e che tanto doveva affascinare Marcel Proust, il quale diceva quanto il suo essere spirituale riuscisse - fantasticando sull’orario ferroviario - a travalicare le “barriere del visibile”, attingendo nel suo stato di reclusione a “voluttà profonde” nella “fascinosa evocazione di quei paesi di luce e di vita”.

Insieme all’orario ferroviario, l’ascensore, il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, tuttavia deprivati della loro componente usufruibile. Come accade in Ascensore (in Poesie di tutti i giorni, poi non confluita nell’edizione mondadoriana del ’49), “questa celletta piccola e imbottita / che va su che va su”, e in Telefono (anch’essa espunta dall’edizione del ’49):

Sei tu! sei tu! la voce mi giunge
da una profondità d’anima oscura:
ho paura di te, di quest’ordigno,
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirto maligno.

In Moretti non assistiamo al transfert del soggetto nell’oggetto, né a quello che sarà il montaliano passaggio dal fisico al metafisico (come superlativamente nella metafora del muro). Nondimeno, anche in Moretti si verifica uno sconfinamento nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, “la dolce anima” di La domenica di Bruggia (testo che riecheggia il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), l’”animula da nulla” di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis.

Oggetto eccentrico, il lapis (per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando a Il “lapis” di Marino Moretti di Silvio Ramat), metafora dell’indecisione e dello svaporare nell’invisibile, rispetto agli altri oggetti morettiani nei quali, si diceva, si percepisce una consistenza quasi esclusivamente letterale. Il lapis emblematizza la crepuscolare poesia in tono minore, è prossimità con la consunzione e quindi con il silenzio e il dileguare, è inattitudine a edificare alcunché di duraturo nel tempo. Quale legittimazione del nulla da dire, il lapis tratteggia una poesia preparatoria, è prefigurazione al dire, un dire embrionale in gozzaniana “perplessità”, di sostanza di attesa. Il lapis prefigura lo scolorare dell’attesa, l’evento salvifico del verbo che nondimeno è predestinato a svanire, ma non per questo a fallire:

Poi che se vane furon le parole
che ombrasti appena su le nuove carte
e non ebbero i fremiti dell’arte
perché non germinarono nel sole,

dolce mi fosti e dolce mi sarai
compagno tu nella solinga vita:
vedi, la vecchia penna è arrugginita
e non v’è inchiostro più nei calamai.

(Ode al lapis, Poesie scritte col lapis).

Condizione liminare - quello che resta dell’intenzionalità artistica -, mozione verso l’espressione e indecisione perpetua, il lapis lambisce la parola ancora da dire. Perché, scrive Moretti,

E’ triste. Credetelo, in fondo
è triste. Non essere niente!
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo!

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona!
Veder quella brava persona
imporsi un gran còmpito ingoto!


(Io non ho nulla da dire).


Dice Claudio Di Scalzo, in una delle sue iperboliche “scritture supplementari” (come La maschera funebre di Sergio Corazzini) in margine ad autori amati:

scrivere è il sonno turbato da cento scricchiolii / scrivere è una corsa lungo mura in cattiva salute / scrivere è un volo controvento convinti d’esserne sospinti / scrivere è l’ispirazione sotto vuoto spinto / scrivere è la punta della matita trattata male / scrivere è la trapunta per il velo di una sposa senza attributi / scrivere è la tortura di una penna che ti solletica il cuore / scrivere è un vestito fuorimoda rovesciato / scrivere è il passo lieve sul terreno d’altri / scrivere è rivolta con la lingua capovolta / scrivere è l’avvenire di una mosca che non ha deposto uova / scrivere è uno scivolone sui cornicioni umidi del testo / scrivere è salire una scala malferma che porta alla soffitta di tutti / scrivere é tutta la mia cattiveria (da Rigagnolo senza sorgente per l’orto di Moretti, 1978).

Scrivere dunque, anche stilando con il lapis, per demitizzare la storia e per vaticinare una presenza seppure intrisa di una “povertà cogitabonda” (L’albergo della tazza d’oro) consapevole dell’inattingibilità a una oltranza, scampata comunque sia all’inerzia che a ogni volontà di costruzione: eluso ogni compromesso sentimentale, nonché poetico, resta la libertà “irresponsabile” dell’assenza di scarto tra la vita e la poesia. Le “cognite cose”, dal canto loro, continueranno ad appartenere al mondo:

Essere sempre come un’ombra,
come un’indistinta forma di passante
fra le cognite cose, fra la gente:
essere un’ombra che, fra tante, ha un nome.

(Angolo d’hortulus, Poesie scritte col lapis).

giovedì 15 gennaio 2009

Mon âme est une infante en robe de parade. Fondamenti del crepuscolarismo in Sergio Corazzini

Laforgue diceva in una sua poesia di sentire la morte, di avvertire una irriducibile lontananza dal mondo, di avere "la provincia nel cuore". E Maeterlinck, nel Trésor des Humbles, evocava, citando Carlyle, i dispersi cittadini dell'immenso Impero del Silenzio, "épars çà et là, chacun dans sa province, pensant en silence, travaillant en silence". Questo infinito abbandono, questa sconfinata, indefinita provincia dell'essere - questo dilatato e franto margine, queste parole quasi predestinate, che sembra di avere mille volte già detto e già scritto, come se scendessero dalle nubi di un mondo altro e remoto - da certo simbolismo minore, francese e belga, trapassano, rivistati e rinnovati, nella poesia crepuscolare. Una poesia che con Corazzini (cui è dedicato questo lucido e documentato saggio di Elisabetta Brizio, nelle cui pagine sembrano echeggiare, di riflesso, la fedele sensibilità e l'estroso rigore del maestro Alvaro Valentini) approderà infine (nella Morte di Tantalo) ad un senso quasi nietzscheano di eterno ritorno dell'uguale - alla percezione di una morte sempre rinnovata e reiterata, oltre i confini del tempo e dell'umano. La vera essenza della poesia di Corazzini, osserva l'autrice, risiede forse nel suo "incessante nominare e scrivere il sensus finis", nel suo tracciare fatalmente ed instancabilmente il cerchio, sempre aperto e sempre chiuso, di una sorta di "scrivere-per-la-morte" - condizione esistenziale e insieme stilistica, esperienziale non meno che espressiva - che caratterizzerà molta della maggiore modernità letteraria e filosofica novecentesca. (M. V.)


Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
Johannes Brahms1

“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.

Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.

Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:

Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”

(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).

Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.

La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:

Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);

dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.

Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),

e Palazzeschi:

Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia

(Chi sono?, in Poemi),

e Moretti:

Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),

e Gozzano, esemplarmente:

Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!

(La Signorina Felicita, in I colloqui).

Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.

La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.

Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.

La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).

Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.

Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.

Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.

Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:

Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare

(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),

Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…

(Dopo, in Piccolo libro inutile),

Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze

(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);

l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:

non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare

(Il fanciullo, in Le aureole),

in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia

(Alla serenità, in Le aureole);

il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:

Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare

(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),

Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta

(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),

il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:

Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);

il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:

Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio

(Desolazione del povero poeta sentimentale);

l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:

Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli

(Amore e morte, in Poesie sparse),

dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti

(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),

l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie

(Sonetto d’autunno);

le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:

Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza

(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),

L’abbandono del nostro sole!

(Il ritorno, in Poesie sparse);

la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:

quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana

(Il ritorno);

il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro

(La morte di Tantalo),

stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…

(La villa antica, in Poesie sparse),

qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale

(Toblack).

La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.

Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.

L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:

Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.

A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:

Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene

(Sonetto, in Le aureole).

In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:

E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.

Elisabetta Brizio

Macerata, ottobre 2008



NOTE

1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.