martedì 29 dicembre 2015

Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”



Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).

Il dialetto, in cui Slataper s’immerge con voluttà sedendo ai tavoli della più lurida taverna di Trieste, assaporando il calore equivoco e promiscuo, quasi animale, di un’umanità degradata, è, anche nei versi di Giselda Pontesilli che ora pubblico ‒  sebbene più aggraziato, limpido, civile ‒,  il tramite di un’autentica comunione di vita, di una ritrovata verità, senza maschere, di rapporti umani, di una coralità calda, non anonima (e chi rilegga lo Slataper critico, quello della monografia su Ibsen, noterà, pur nel carattere un po’ approssimativo ed acerbo di una saggistica intesa come totalizzante e scolpito “ritratto morale”, qualcosa di questo stesso afflato: come se il testo letterario, visto non tanto come fatto stilistico, quanto come traccia, come testimonianza esistenziali e psicologiche, potesse essere il corrispettivo o l'analogo dell’incontro umano o dell’immersione nella natura quale specchio o viatico per il ritrovamento o la ridefinizione di una propria identità).
Qui, proprio in questa ricerca di un’umanità e di una comunicatività limpide, risonanti, non adulterate, autocoscienti ma non falsate, anzi spontanee proprio perché consapevoli di sé, sta il nodo che unisce l’esperienza primonoventesca della Voce a quella della cosiddetta Scuola Romana ‒ Prato pagano, Braci, Damiani, Salvia, Scartaghiande, la stessa Pontesilli ‒ nella Roma degli anni Ottanta: una naturalezza, una umana conversazione, un terreno comune d’incontro, ritrovati e ricostituiti non al di qua o al di fuori della cultura e della storia, ma precisamente attraverso di esse.  (M. V.) 



Oggi ho parlato, per la prima volta,
dialetto triestino:
come lo parlano tra loro i professori,
al liceo dove insegno
e la preside anche, familiarmente,
come lo parla la gente nei negozi
o per strada, e proprio adesso -li sento-
operai
sul tetto di questa casa,
e anche Elisa lo parla, la mia vicina
con l'architetto Cervi al quarto piano,
così anch'io l'ho parlato, finalmente:
spontaneamente, senza farci caso
ma guarda caso
con nessuno di loro mi è riuscito
solo con uno, solo, con uno solo
d'un tratto, ho parlato:
con un uomo all'antica, molto anziano

che sta seduto muto, smemorato
in un suo negozietto
piccolissimo, spoglio,
dove nessun cliente ho mai trovato

io l'ho trovato
perché devo e amo
camminare in salita

è necessario è salutare andare
per me, oggi e ogni giorno,
in questa strada ripida verso San Giusto
dove c'è il suo negozio
e correre, quando arrivo in cima,
lungo Viale della Rimembranza,
ogni giorno di più, più facilmente,
per poi fermarmi a lungo a guardare
una lapide bianca, speciale
in cui tra i tanti nomi io distinguo
tutti
con quello di Scipio Slataper.

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