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lunedì 25 novembre 2013

Ricordo di Susana Chávez, una poetessa contro il femminicidio


«Ni una mujer más», «Mai più una donna uccisa»: questo il proclama che anima gli attivisti di Ciudad Juarez, i quali tentano invano di arginare il fenomeno degli assassinî, atroci quanto inspiegabili, di donne povere e smarrite in quella piccola città perduta nel deserto messicano, a pochi chilometri dal confine con gli Stati Uniti, terra promessa che in quelle regioni aride e amare molti sognano come meta di fuga e luogo di riscatto.
Susana Chávez, la poetessa che aveva creato quel motto, nella notte fra il cinque e il sei gennaio 2011, non ancora quarantenne, è caduta a sua volta, con tragica ironia, vittima di quell'anonima e misteriosa crudeltà. Ritrovata con una mano mozzata e la testa avvolta in un sacco: come a dire che non avrebbe dovuto scrivere, e che non avrebbe dovuto parlare.
Era l'esponente forse più significativa del movimento poetico di Ciudad Juarez, di quella cerchia (basti qui ricordare Elegía en el desierto di Micaela Solís: «Irretita nelle sue strade, la città, / sospende impavida la morte / alla profondità del suo silenzio. / Irretiti, le sue ore e i suoi giorni / nelle perfide menzogne della luce / alba esausta dell'ultimo naufragio») di idealisti, di artisti o di illusi che tentano di contrapporre la forza disarmata della parola alla ferocia dei trafficanti e degli assassini. Autrice di versi accesi e visionari, d'intensa passione, che fanno pensare, a tratti, a Neruda. Nel testo di séguito riportato (che doveva far parte del libro Primera tormenta, troncato dalla morte) vi è quasi un oscuro presagio del proprio destino, oltre al forte, ostinato e disperato attaccamento all'identità femminile. (M. V.)

SANGRE NUESTRA

Sangre mía,
de alba,
de luna partida,
del silencio.
de roca muerta,
de mujer en cama,
saltando al vacío,
Abierta a la locura.
Sangre clara y definida,
fértil y semilla.
Sangre incomprensible gira,
Sangre liberación de sí misma,
Sangre río de mis cantos,
Mar de mis abismos.
Sangre instante donde nazco adolorida,
Nutrida de mi última presencia.
 

SANGUE NOSTRO

Sangue mio,
d'alba,
di luna lacerata,
del silenzio,
di pietra morta,
di donna in una stanza,
che si getta nel vuoto.
Aperto alla follia,
Sangue chiaro e scolpito,
fertile e seme.
Sangue indecifrabile fluisce,
Sangue liberazione di se stesso,
Sangue amaro dei miei canti,
Mare dei miei abissi.
Sangue istante da cui nasco addolorata,
Nutrita della mia estrema presenza.





venerdì 15 ottobre 2010

POESIE DI GABRIELLA GAROFALO

Era, paradossalmente, proprio una delle più note scrittrici femministe a dar l'impressione di avvalorare, quando affermava che "una donna che scrive poesie e sa / di essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere", l'antico e non sempre fondato stereotipo che vedrebbe nella "poesia femminile" un'espressione quanto si vuole limpida, autentica, potente, ma priva del necessario spessore culturale e di un'adeguata coscienza stilistica. L'esatto contrario sembra avvenire nella migliore poesia femminile degli ultimi decenni - quella che cresce, perlopiù, nell'ombra della "stanza tutta per sé", lontana dalle luci mediatiche e dai clamori ideologici e propagandistici, ed è, proprio per questo, meditata, autocosciente, assorta, culturalmente e formalmente avveduta.
E' proprio il caso di Gabriella Garofalo, le cui sillabe cesellate, colme, risonanti, sicure, quasi predestinate - dietro le quali si intuisce, lontano eppure mai obliato presupposto, il paziente lavorio correttorio, il "lungo studio e 'l grande amore" che conducono alla studiata e sapiente impressione della naturalezza -, sono davvero simili a candidi, puri ciottoli immersi nel "torrente di silenzio" che li avvolge e li purifica.
E ad arginare in qualche modo, senza occultarlo, l'impulso affettivo ed extrarazionale che si manifesta come corrente elettrica ed emotiva, come fiotto di sangue caldo e tumultuoso, è l'autoallocuzione, già classica, alla propria anima, l'appello rivolto direttamente alla propria stessa coscienza esistenziale e letteraria, allo specchio limpido e fermo, finanche freddo e severo, dell'anima-ghiaccio che riflette e verifica (cioè rende vera ed autentica) se stessa, quasi come il "lac dur oublié" del mallarmeano Cygne. (M. V.)



13/07/’10

a M.


Spasimano perché il nido si ricolmi
di piccole pietre bianche, rami secchi,
foglie in sé riavvolte -

Cielo, ti sei mai chiesto
chi ridà vita a piccole pietre bianche
se le travolge corrente in silenzio
o pensi solo a schivare
nevrosi e nubi che t’imbrattano? -

cadono libri alberi comete,
il tuo segno, anima, aspetta:
finché sono tue luci pura impudenza
oltraggio al dio che insegue,
non gridino acqua e redenzione,
non serve -
meriti solo fuoco, hai rigettato inermi,
si fa terra bruciata se percorri -
in breve, di altre mani muova il cielo -
non certo per mano di una madre.


***********


09/96/’10

a M.


Non sono blu, un’occasione mancata?-

Guarda, sono soltanto fiori,
non c’entra in ansimi di creazione
il Padre se luce sborda invade
stronca peggio di un’accusa-
scherma vetri finestre, può servire,
farebbe proprio comodo la fine,
chiedi il suo desiderio -
ma guardano i muri guardano
con occhi che tu non possiedi:

Atropo braccia conserte a riposo,
l’aria sa di luce, anche i bambini -
anima, inverdichisce sole nel tuo sguardo.


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13/07/’10


a M.



Nessun problema, dicono, se perdi stanze,
se dentro ti scava nero si risveglia
mentre ti cade addosso il desiderio
a volte come roccia, a volte come foglia -
per fortuna muoiono alla svelta,
l’inverno i suoi giorni il suo tempo,
per questo li ami mentre vengono,
fermano, se ne vanno
insieme a piccoli furti,
espedienti di cielo per la sopravvivenza-
anima, che temerario progetto
sei per luce
costretta ad accettarli,
per luna se cerca di glissare
convinta che luce ti protegge,
ti nascondono nubi -
ma non è serata questa, ti ripeti,
solo strana vendetta del suo seme.


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09/01/’10


A B.

Elettricità nell’aria-
spavaldamente hai preso la sua luce-
ti arriva la mattina, lavora tutti i giorni,
orario di ufficio il suo,
vuole anima corpo grembo-
ma la città la città rimane
limbo di acquisti, svuotate parole
se stagliano nel cielo s’incontrano
tra antracite di nubi, pioggia-
forse nato di seme, forse padre
ti muove ti risponde il grembo,
ti rassicura, colora in blu lo specchio,
ha un certo fascino l’anima, ti sembra?-

Certo, ha fascino anche il ghiaccio.


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01/02/10


a B.



E’ musica, ripeti, muovere le dita
sull’albero sul corpo,
che c’entra la parola?

Pane di seconda scelta, mordono,
merce avariata, mordono -
aspetta -
fuori urge il desiderio,
ma si rivela inverno
persino più bastardo del tramonto-
e tu smetti tue arie, mia parola,
smetti pretendere risposte,
smetti l’albero il corpo,
corri a rovi, cespugli,
ramaglia e filo d’erba,
risposte che progetta in labirinto
la tua mente-
ha dignità e interesse persino il filo d’erba,
mia anima invalida a sentire.

giovedì 4 febbraio 2010

"Ruth Fainlight, la Sibilla elegante" - di Patrizia Garofalo

La poesia di Ruth Fainlight (autrice cosmopolita, capace di fondere in sé diverse identità: quella inglese e quella americana, l'eredità dello spirito ebraico, con la sua perenne ed errante ricerca di un contorno mai compiuto e sempre fluente, e la reminiscenza del mito classico, archetipo remoto e già dato, eppure ricco di sfumature e di nuove possibili riletture) compie, attraverso la parola e la scrittura, un'opera assidua di demistificazione, di ripensamento, di straniamento del quotidiano attraverso l'irruzione improvvisa ed assidua, freudiana, del perturbante, di sovversione del tempo tramite la contaminazione (retroattiva o proiettiva) del passato nel presente, della giovinezza e dell'infanzia con i loro bagliori vividi e contrastati nella luce ferma della maturità.
“Ripartorirsi”, dice la Garofalo: mito ed immagine di rigenerazione, come nel rito della primavera, della fecondazione, dello sbranamento orfico e dionisiaco a cui consegue la perenne rinascita – ma in pari tempo, nell'ottica ebraica, messianica tensione escatologica verso il compimento e la redenzione, ma in un'ottica mondana, contingente, immersa nel quotidiano, senza estasi mistiche.
Redenzione e rinnovamento del linguaggio è anche la traduzione poetica, se a compierla è (con la collaborazione di Alessandra Schiavinato) un poeta come Paolo Ruffilli, che certo trova nella Fainlight un'autrice consentanea alla propria sensibilità più recente, per la consimile tensione verso una ricomposizione degli opposti (vita e morte, passato e futuro, maternità universale ed universale condizione filiale, od orfana).
E certo il poetare si riflette sul tradurre, il poeta non manca di imprimere la propria mano sulla materia della riscrittura.
«Her lips, though still full, meet firmly in a straight hard line» diviene «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». La sentenza di Sibilla non si perde, come in Dante, "nel vento, sulle foglie lievi" - è, al contrario, pur nella sua ingannevole doppiezza (o forse proprio per rendere quella doppiezza ancor più penetrante ed insidiosa), fissata in sillabe limpidissime, nette, dure e taglienti, come diamanti.
«Into the deep stone bath of water» è, con meravigliosa concisione, «nel profondo bagno di pietra». Non si stenta a riconoscere, nella versione, la pronuncia netta, precisa, quasi tagliente, eppure dolce, musicale, melodiosa, di una levità e una sprezzatura quasi settecentesche, del poeta di Camera oscura e La gioia e il lutto.
Anche lo stile fluido, dall'apparenza sorridente, dalla sapienza dolce e mite, dall'allure al primo sguardo quasi mozartiana, è, invero, strumento di consapevolezza e di demistificazione. Stile ben consono, dunque, all'indole di una poetessa che (amica di Sylvia Plath negli ultimi, tormentati anni, prima che scendesse su di lei, sul suo affanno immedicabile, la nera pace della morte) ha cantato «womanliness, / and love, and anguish, and war», essere donna, e amore, e angoscia, e guerra, e nella poesia ha riposto la funzione, e la missione, forse impossibile, ma eroica e vivida, di sceverare l'intreccio di necessità ed imprevisto, legge indefettibile dell'esistere e mistero di ogni singola, irriducibile, vicenda esistenziale. (M. V.).

Mito e desiderio di cogliere l’eternità, pur consapevoli della caducità delle cose, trovano nella poesia vie di scampo al deterioramento del tempo; Ruth Fainlight, poetessa angloamericana (La verità sulla Sibilla, traduzione e cura di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone), attraverso la possibile verità della Sibilla e la musica di Orfeo, rinnova le stagioni e diventa, allo specchio, madre del suo essere bambina e rinnovata stagione della profezia del vivere.

La libertà della Sibilla è nella sua rinascenza in morte, quando potrà diventare «la faccia della luna – orbitando come lei / liberata dalla sua estasi oracolare / Solo una Sibilla può fissare in faccia il sole».

Non penso che l’articolo indeterminativo stia ad indicare i vari luoghi di venerazione della Sibilla, ma piuttosto una qualità; quella del poeta, che concede eternità nel coagulo di presente, passato e futuro non in successione, ma mescolati come in un gioco di carte: «Collocò l’età dell’oro nel futuro lontano / non nel passato remoto, ed era ostile / all’idolatria come un ebreo. Non cedette ad Apollo / la sua verginità, e non si mise addosso mai nessun profumo».

Come il poeta, prende le distanze dalla richiesta di chi nella menzogna le chiede di sentenziare, dalla stoltezza con cui gli uomini si appropriano di abiti non loro, alterando mente e corpo nel palcoscenico della follia, e comprende l’inutilità della parola; aspettando di prendere il posto della luna, «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». Solo quando sarà svestita si offrirà autentica al dio, alla parola, alla rinascenza, al verso, alla scarnificazione, alla catarsi dell’acqua gelida «nel profondo bagno di pietra» per ridefinirsi nuovamente bambina, donna, ebrea, madre e poeta.

La prefica piange nell’odore di primordialità, nella tensione di specchiare immagini dentro sé, nel filo di vento «che alza l’angolo del tappeto un momento/ soltanto e poi lo lascia andare come se/ non fosse successo niente ma sai che non è così».

Il tempo lascia segni, rughe, ricordi, fastidi, intemperanze, nostalgie: «È duro segnare l’inizio del complesso di scontentezza / condiviso da ogni primate metafisico /… Ci sono giorni in cui immagino, lontano nel futuro, / qualcuno che mediti sul principio e sulla fine delle cose / piangendo i morti e prendendosi cura del suo giardino».

La metafisica, come tentativo di conciliare gli opposti e di cogliere nei meandri del pensiero l’ordinario come straordinario, conduce le liriche. La poetessa con intensa fisicità vive il tempo del ricordo strappandolo alla dimenticanza e affidandolo allo specchio con l’incisiva capacità di compattare i tempi in un unicum di versi scanditi da una cadenza rituale e da molteplici rifrazioni di luci .

Il rivedere abiti usati le fa scrivere: «La fine e l’inizio / della mia giovinezza, due / manichini in vetrina / che sembrano quasi vivi». E domandare: «Ditemi amiche la verità. Sentite pure voi / talvolta una furtiva e gaia indifferenza, / o meglio ancora, momenti straordinari / in cui state salutando con gioia il nuovo / viso che si è offerto allo specchio / come una madre – non la vostra, ma quell’altra / sognata – che – sempre – avete rincorso. / Il vostro viso, se ci provate, può diventare il suo. Lo deve». Ecco, in questo ripartorirsi credo consista la chiave del libro che dolcemente accetta il rinascere delle stagioni e sente la primavera palpitare sotto il freddo dell’inverno: «…le prime foglie fresche / intatte sembrano fragili coaguli arrossati e grumi / di carne aggrappati ai ramoscelli, come se / fossero venute qui di notte le baccanti / a compiere il sacrificio rituale della primavera, / e avessero gettato i brandelli sanguinanti / delle membra di Orfeo sui rami».

Il mito vuole che la testa di Orfeo scivolasse nell’acqua e continuasse a cantare prima di diventare la costellazione della Lira vicino alla luna, proprio lì dove Ruth Fainlight vorrebbe essere per sempre.


Patrizia Garofalo