domenica 27 aprile 2014
Rileggere un silenzio. Per riscoprire Adolfo De Bosis
Nella Contemplazione della morte, D'Annunzio definisce De Bosis come «Principe del Silenzio», e contrappone il fasto debordante – fra panneggi e suppellettili, ornamenti e velami, fascinazioni visive e tattili, un po' come nella Vie des chambres di Rodenbach, nella Filosofia dell'arredamento di Poe o nel Baudelaire della Chambre double – dello sgargiante e quasi soffocante salotto, descritto fra gli altri da Diego Angeli nelle Cronache del Caffè Greco, in cui si riuniva la redazione del «Convito», al vuoto e al nudo silenzio che avrebbero invece aleggiato nella propria momentanea dimora: una quiete in cui troneggiava, fra i pochi e scarni arredi, anche un pianoforte a coda – simbolo, quasi, di una musica muta, di un'armonia potenziale e germinante, come in un quadro metafisico –, e dietro la quale, quasi a fare da controcanto, si avvertiva il «clavicembalo d'argento» del Tevere, il cui sommesso ed incessante mormorio accompagnava il fluire dei pensieri e l'inanellarsi delle sillabe.
Basta questa contrapposizione, questo contrappeso e contrappunto fra pieno e vuoto, fra Voce e Silenzio, e questa caratterizzazione alata e remota di De Bosis – un po' come di Angelo Conti nel Fuoco – quale esteta distante, pacato, diafano, quasi avulso dalla materia e dal reale, a predisporre, ad ispirare e ad intonare secondo il modo più suggestivo una rivisitazione e una rilettura di questo poeta, esteta e traduttore raffinato, elegante, a suo modo non privo di originalità, anche se in apparenza così lontano dal nostro gusto.
Una musique du silence, una sottilissima tessitura di unheard melodies (per citare due autori, Mallarmé e Keats, che grandemente contribuirono ad alimentare le poetiche del simbolismo italiano) che nascono, di per sé, intrinsecamente, dall'homo interior, dal raccoglimento e dalla quiete del pensiero; ed è, questa, una parola che al silenzio è tornata, che un silenzio quasi gnostico ha riavvolto, per una sorta di neoplatonico ritorno all'Uno; e che è, infatti, e permane, nella sua inaccessibilità, nella sua aseità marmorea, sepolta a stento in qualche vecchia e polverosa antologia, citata di rado in qualche nota erudita. Forse questo è, in generale, il destino triste o
necessario, miserabile o essenziale, eroico o vano, di ogni parola affidata alla pagina, qualora essa non si fermi alla superficie screziata e fugace delle cose e dell'uomo sotto un pretesto d'autenticità, di naturalezza o di verisimiglianza.
Ad ogni modo, è da quel silenzio, da quegli indugi fra sillaba e sillaba, come avrebbe detto De Robertis (che pure contrapponeva la musicalità a suo dire esteriore e manierata, in cui «nessuna sillaba trema per un brulichio luccicante», di De Bosis, a quella, più necessaria, consapevole, essenziale, ontologicamente fondata, di Mallarmé, che «sopra una coscienza vuota costruì una poesia grande» – mentre il Boine di Plausi e botte, pur così lontano, con il suo sentito espressionismo esistenziale, dall'estetismo di De Bosis, riconosceva dietro quest'ultimo un'esperienza di vita e una vicenda spirituale a loro modo autentiche e vibranti, degne di «uomini semplicemente vivi, che dicevan cose vive ed eterne») 1, che si sprigionano la luce e il senso di questo discorso; è in quel silenzio che ci si deve reimmergere.
La Parola racchiude in sé il Silenzio, come il Silenzio la Parola, come nel «nodo ritmico» che è, per Mallarmé, ogni anima. E l'una nasce dall'altro, e all'altro ritorna. «Trema il Silenzio in suoi tintinni d'oro». «Ella tacea, diversa, sul cuore mio vigile e solo / ora il silenzio parve trepido di parole». Il silenzio racchiude in sé, simbolicamente, semanticamente, fonicamente, il lievito e il vibrio del suono e del dire – «Une ligne, quelque vibration, sommaires et tout s'indique», come suggerisce il Mallarmé lettore di Banville, in una posizione storica simile a quella di De Bosis, il quale rivisita la classicità parnassiana di Carducci infondendovi un fluido d'inquietudini e d'echi e di brividi – «Profuse strains of unpremeditated art», «Unbodied joy whose race is just begun», come quelli dell'Allodola di Shelley, così cara a De Bosis – o la notturna musica vibrata dalle corde di «some still instrument», di un qualche indefinito strumento silenzioso, nell'Hymn to Intellectual Beauty.
«Language is a perpetual Orphic song», si legge nel Prometheus Unbound – «explication orphique de la terre» dovrebbe essere, per Mallarmé, il Libro, il fine supremo del poeta. Campana, come poi Onofri, forse anche attraverso la mediazione di De Bosis 2, dovette meditare a lungo su queste parole; e non si può escludere che proprio De Bosis possa rappresentare un anello, forse esile, ma significativo, della catena che porta l'analogismo della poesia romantica e di quella simbolista a trasfondersi e a sfociare nel grande orfismo novecentesco, in una poesia, cioè, conscia – in modo ora entusiastico, ora meditato e criticamente mediato – del proprio valore ontologico, conoscitivo ed epifanico.
Nodo interiore, vincolo – riflesso incarnato della copula mundi, della coesione macrocosmica – di Parola e Silenzio, Segno e Vuoto. In questa unità dei contrari De Bosis riuscì a far coesistere – da essa stessa alimentandole – i diversi lati della sua natura, i diversi volti della sua personalità creatrice: il poeta che seppe trasfondere, in un metro di foggia classica, ma già pervaso da alterazioni, sollecitazioni, inquietudini (del resto, Lucini teorico del verso libero vedrà proprio nelle anomalie, negli scarti e negli straniamenti della metrica barbara carducciana il presagio e il fermento del nuovo), la sensibilità e l'afflato, spirituali e musicali, dei Romantici inglesi e di Whitman (quel Whitman che, prima di lui, già Enrico Nencioni, preparando così la strada al D'Annunzio di Elettra, aveva conciliato con un senso carducciano di classicità e di sublime); il traduttore che diede veste italiana, classica e mediterranea, a Shelley, fondendo l'immagine carducciana dello «Spirito di Titano entro virginee forme» con una concezione simbolista del traduttore – come dell'artista – quale «déchiffreur», quale rivelatore, per via di suggestione e d'analogia, di un'essenza noumenica, di una parola e un'unità primigenie, celate sotto gli abbagli della diversità e del molteplice; infine, il critico e saggista che, legato strettamente al traduttore-poeta, fuse l'impegno di una ricerca rigorosa e di un'altissima divulgazione con l'impulso, tipico del critico-artista dell'estetismo, a fare della critica stessa – come della vita, dell'esistenza, delle quali la «volontà d'interpretazione», paredra, insegna il Nietzsche postumo, della «Volontà di Potenza», è parte e forza essenziale – una forma d'arte, una «critique poétique» e un «poème critique» 3.
Fu, forse, Ricciotto Canudo, un esteta eclettico, geniale e troppo presto dimenticato, ad indicare, in un articolo uscito sul «Mercure de France», nel dicembre del 1904, la chiave in cui ancor oggi possiamo accostarci alle pagine di questo prezioso inattuale.
Fu proprio la solitudine dell'artista e dell'esteta, «le leit-motif de l'égotisme conscient et dédaigneux», ad alimentare, in lui (un po' come nel Wilde di The Soul of Man under Socialism), l'amore per l'umanità, per la natura, per la vita, proprio perché quel margine di solitudine e d'autonomia gli consentì di restare al di sopra del meschino turbinìo degli affanni e degli antagonismi e delle angustie vane che marcano il divenire dei giorni. La solitudine divenne, in lui, naturalezza, e per ciò stesso sguardo universale.
Vi è, dice Canudo, nei ritmi del poeta, una «melanconia forte», un vigore etico che abbraccia e ferma e nobilita anche i momenti di ripiegamento, d'abbandono, di meditazione sconfortata. Tutti i mali dell'homme crépusculaire (si noti che Canudo scrive un decennio prima del celebre articolo di Borgese che delineò la definizione di «poesia crepuscolare») sono avvertiti da De Bosis, ma restano, nei suoi versi, «sans un nom précis».
Vaghe sono le sofferenze e i rimpianti, come vaga la speranza. Ma proprio quella vaghezza, quell'indeterminatezza, quell'indecisione fra il culto della Bellezza pura e l'impegno etico, fra il ripiegamento e il proclama, l'indugio melanconico e il disegno ideale, sono sorgente, spazio e strumento d'espressione.
Siamo davanti ad un poeta che ha nella sua debolezza la sua forza, e nella sua inattualità la sua intuizione di tempi e d'inquietudini a venire. È tale l'immagine, tale la consapevolezza che ha ispirato e motivato questo essenziale florilegio.
Matteo Veronesi
1) Cfr., su questo come su molto altro, il ben documentato studio di Giorgio Pannunzio, Cittadino del Cielo: De Bosis poeta tra modernità e tradizione, Lulu Press, Raleigh 2011 (nella fattispecie, pp. 88 e 101-103).
2) Vedi il parallelo fra La Chimera di Campana e L'invocazione di De Bosis suggerito ancora da Pannunzio, ibid., pp. 180-181; si aggiunga che, ad esempio, l'Elegia della Fiamma e dell'Ombra pare profilare diversi possibili paralleli con testi degli Orfici come il Canto della tenebra o Immagini del viaggio e della montagna; ma la possibile silente presenza di De Bosis nella poesia italiana del Novecento, dai Crepuscolari ad Onofri fino forse a Montale (presenza a volte da me accennata, sinteticamente, nelle note), dovrebbe certo essere maggiormente indagata.
3) Rinvio al mio libro Il critico come artista dall'estetismo agli ermetici, Bologna 2006.
Il Principe del Silenzio. Florilegio da Adolfo De Bosis, a cura di Elisabetta Brizio e Matteo Veronesi, Nuova Provincia, Imola 2013.
L'antologia può essere gratuitamente scaricata, come libro elettronico, da questo indirizzo:
https://archive.org/details/DeBosisLibro2Reimpaginato
Una copia cartacea può essere ordinata qui:
http://www.lulu.com/shop/matteo-veronesi-and-elisabetta-brizio/il-principe-del-silenzio/paperback/product-21342588.html
venerdì 13 dicembre 2013
Il Principe del Silenzio. Florilegio da Adolfo De Bosis
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mercoledì 2 marzo 2011
UN AMORE NELLO SPECCHIO DELLA LETTERATURA: GUIDO GOZZANO E AMALIA GUGLIELMINETTI

(ritratto di Marco Reviglione)

Riproduco, per iniziativa e con la collaborazione di
Elisabetta Brizio, una lettera
di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti,
che del poeta dei Colloqui fu amante
sfuggente, confidente finissima, in certa
misura (malgrado l'estetismo dannunziano
da cui ella, a differenza dell'amico, non
seppe mai svincolarsi del tutto) compartecipe
di un destino letterario.
Destino non solo intriso di letteratura, ma
addirittura in essa quasi integralmente
risolto, compiuto, dissolto, riflesso anche
dalle missive (esse stesse squisitamente
letterarie ed estetizzanti, ricolme di
reticenze, allusioni, ammiccamenti,
incompiuti e tronchi aneliti, tracce
vibranti eppure opache di un desiderio
affidato alla parola e alla carta nella
misura in cui, quasi lucrezianamente, non
poteva trovare pieno appagamento
nell'intreccio delle membra, nell'unione
dei respiri), le quali, quasi come in un
carteggio umanistico, non sanno mai scindere
l'autenticità (se mai vi fu) del sentimento
dalla finzione, dalla stilizzazione,
dall'infingimento, dalla posa artistica.
Si coglie l'occasione per riportare alcune
liriche della Guglielminetti, alla quale
non ha certo giovato l'etichetta di dannunziana
estetizzante, e che si rivela invece,
ad una lettura attenta e immune da preconcetti,
voce di rilievo nel panorama dell'estetismo
e del simbolismo italiani, capace
di concettualizzare e stilizzare
con notevole lucidità, nella lirica
omonima, il “silenzio”, la reticenza,
l'indicibile, il muto e raffinatissimo
velo della censura psichica, che
fascinosamente e torbidamente avvolgevano
pulsioni irrisolte, e per l'epoca
inconfessabili a chiare lettere.
In pari tempo, la fantasmagoria di gemme,
gigli, perle, veli e guanti filigranati,
il mormorio ombroso di mute armonie,
preghiere sussurrate, segreti auspici,
l'intrico ingegnoso e quasi mai goffo
delle analogie e delle metafore, gli audaci
desideri non detti, ma ancor più intensi,
amplificati, nell'indiretta e remota
evocazione, rivelano una frequentazione
non banale, e abilmente dissimulata nel
gioco allusivo, della moderna
poesia francese, da Baudelaire a Mallarmé.
GUIDO GOZZANO AD AMALIA GUGLIELMINETTI
Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non
dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.
Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra,
nel vostro salotto, con Voi.
Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo
della prima primavera, in febbraio, mettiamo.
Da molte ore io sarei con Voi; avremmo
parlato molto, avremmo esaurito ogni
pretesto non volgare di conversazione. Da qualche
istante si tacerebbe. L'ombra si
farebbe più densa. Voi vi alzereste per
accendere il lume. Io vi pregherei di no,
vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe
notte, più notte, nel quadrato della
finestra, rabescato dalle cortine, il
vostro profilo apparirebbe appena.
Solo a tratti, l'asta scintillante
d'un carrozzone elettrico illuminerebbe la
penombra per un secondo. E in quel
secondo il vostro volto apparirebbe e
scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io, che avrei le vostre mani
nelle mie mani, crederei di sognare, e
inconscio irresponsabile come in un
sogno, mi chinerei sulle vostre dita,
salirei lungo le falangi con le labbra, fino
a mordervi le vene del polso. Voi mi
sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna
indulgente: Siamo savi!
Ma, per un evento sciagurato, il mio
volto sollevandosi si troverebbe all'altezza
della vostra spalla; io, nell'ombra,
non me ne accorgerei: e credendo di
abbandonare la guancia contro la
spalliera del divano, incontrerei
invece la mollezza d'una trina o il gelo
d'una catenella. Istintivamente, sempre come
in sogno, la mia bocca si troverebbe
dietro il vostro orecchio, alla radice dei
capelli fini, e vi morderei alla nuca
(il morso è il mio vizio preferito).
Allora voi vi alzereste di scatto, accendereste
il lume: e due cose potrebbero
accadere. O mi fareste accomiatare dalla
vostra donna, come nelle commedie,
col tradizionale “accompagna il Signore”.
E resterei male.
O mi perdonereste dopo lunghe condizioni.
E resterei male, ugualmente.
(12 novembre 1907)
POESIE DI AMALIA
L'ANTICO PIANTO
Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l'altra notte mi composi.
Poiché talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.
Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a' piedi d'un Signore
che m'arse di ben vana passione.
Io piangevo così note d'amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore
e non s'avvede che nessun l'ascolta.
AL MARE
Al mare getta un dì sogni ed amori
come l'altra sua amante solitaria
gli getta fra due nubi fiori ed ori.
E ride con la sua anima varia,
mentre le spume in favolosi aprili
fioriscon gigli fatti d'acqua e d'aria.
Ella getta nel mar tutti i monili
dei quali, per piacere a sé, si para
la stoltezza dei cuori giovanili.
E ride ancora, ma con bocca amara.
Sul bene ch'ella non possiede più -
sembran le spume i fiori d'una bara
e un poco di sé stessa è ormai laggiù.
UN ADDIO
Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.
La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.
Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.
Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte
e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.
SILENZIO
Ogni pensosa vergine si cinge
del suo silenzio, come d'un velario,
e d'ombre un ondeggiar tenue e vario
con fantasia sottile vi dipinge.
O vi s'impietra, irrigidita sfinge
in muto enigma. O al suo cuor solitario
ne tesse inviolabile sudario,
fra aromati d'oblio ve lo costringe.
Grave è il sudario del silenzio, e il cuore
che vi si avvolge desiosamente
più non si desta da quel suo sopore.
Pur, se a scoprirlo, con ben caute dita,
ella s'attenti, ancor vede il dormente
gemere sangue dalla sua ferita.
sabato 25 dicembre 2010
UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'

Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio
Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.
Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.
Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.
La cultura – in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto – non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).
Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato – se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.
M. V.
Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:
La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.
Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).
Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.
(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)
Per ordinare il libro:
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=558929
lunedì 29 marzo 2010
LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO
Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.
Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.
Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.
Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.
In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.
L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.
E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.
D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.
Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.
“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.
Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.
Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.
Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.
Matteo Veronesi