domenica 24 gennaio 2016

Ester Monachino, “Dieci variazioni intorno ad una rosa”




Impossibile sarebbe cercare di riassumere (dal Roman de la Rose e dal controverso Fiore di un giovane Dante, dove la rosa è oggetto agognato di conoscenza ma anche, concretamente, quasi ferocemente, di desiderio carnale, alla luminosa sublimazione mistica della “candida rosa” del Paradiso, alla cosmica e insieme sensuale corrispondenza barocca tra “sole in terra” e “rosa in cielo”, microcosmo e macrocosmo - fino alla “rosa di nulla, rosa di nessuno” di Paul Celan, quasi condensazione ed emblema di una novecentesca ontologia del nulla e della nullificazione) i diversi, variati, quasi infiniti valori, le sfaccettate e contrastate risonanze, che la Rosa ha assunto nel corso dei secoli - quasi ribollente athanor, ricettacolo di luce e di mistero, depositaria del ciclo eterno di disfacimento, trasformazione, rinascita in altre forme.
Con una potenza di visione quasi ovidiana, da carmen perpetuum,

giovedì 31 dicembre 2015

Postulati per una topologia del testo letterario come spazio semantico




I

Dati un testo letterario, o una porzione di testo letterario di ragionevole ampiezza e in sé semanticamente compiuta, la temporalità di ciascuno dei vettori semantici (intesi come sequenze di parole pertinenti al medesimo campo semantico, o a campi semantici limitrofi o metaforicamente o metonimicamente interconnessi) che lo attraversano sarà determinata dalla media dei valori numerici attribuiti a ciascuna parola sottraendo dal numero di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che (all'interno della porzione di testo prescelta) la precede quello di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che la segue. Qualora debba essere comparata la temporalità

martedì 29 dicembre 2015

Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”



Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).

lunedì 2 novembre 2015

"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio





Don’t you know what’s so utterly sad about the past?
It has no future. The things that came afterwards have
all been discredited. 
Jack Kerouac, The Town and the City 





Nella primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse di «esporsi», come preferisce dire. In seguito abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno, ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva (valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che contestualmente le ispira e le comprende.

sabato 24 ottobre 2015

Giselda Pontesilli, "Per Rosario Assunto (nel centenario della nascita)"





Rosario Assunto è, con Fedele d'Amico, il  professore che ho amato   ̶ che ho incontrato  all'Università:  entrambi, in gioventù, si comportarono in  modo  -a mio avviso-  "vociano", cioè con quel  fervore d'azione e  comprensione che molti, Carlo Martini (1) e Carlo Bo (2) per esempio, con parole indimenticabili, hanno cantato cantando la "Voce":  la prima, quella di Prezzolini, Slataper,   Jahier.
Rosario Assunto infatti ha condiviso da giovane il fervore d'azione e  comprensione di Adriano Olivetti, e firmato con lui, nel 1953,  il Manifesto, la Dichiarazione politica del Movimento Comunità; Fedele d'Amico, pochi anni prima (1943-'44),  ha  diretto il settimanale «Voce Operaia», organo del  Movimento Cattolici Comunisti.

mercoledì 29 luglio 2015

Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"


«Eterno in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti, neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva, se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

Anche queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del transeunte.
La morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)

1

Eterno in me il tuo viso
d’ultima estate terrigna,
quando a colli e falde arroventate
ferite membra cosparge d’ebbro sale
un verde temporale.

Impenna all’aria smossa
dai ricordi, triste pavana,
la tua pelle che fronteggia bruna morte,
le sere che un cielo dal respiro ferace
si spegneva in luce.

2

Andavi, è vero, come d’aria una folata
gelida a stemperare il ventre caldo
d’estati afose, ognuna già sprecata –

ma la voce t’increspava in un pianto
(solo adesso mi pare averlo inteso)
che riallacciava in te un legame infranto.

Ora non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte mani più bianche a salutare
nel primo buio, alla notte in bordo.

3

Un’ultima estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e cantavi nei silenzi
spiegazzati dentro i vecchi cortili

come se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per tenebra rifonda –
e immobile restavi ai secchi colpi

d’un libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei pianori appartati
dove il fieno stende ad asciugare.

Pause hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono, lieve manto,
il sapore di tristezza delle more.

C’è pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva dei piedi
il correre nudo, le piaghe più atroci.

4

Nell’erbata dove slomba, in torme sfinite,
l’orda lucida dei cinghiali, fa notte nera
il vento che viene ansando da smosse rive
di torrente: il rigagnolo anche sommerge
la pietra bianca con su incisi date e nomi.

Ai rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato a morsi, del raponzolo dorato
una lebbra di corolla, e tremando all’aria
è ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che ora sfumano l’uguale, immenso nulla.

5

Scottano al sole di luglio gli ocracei stagni
dove innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto, smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano tacendolo tra sedie e altalene
ogni canto di cicala, singhiozzo nell’erba.

Sulle pietre del greto salmastre ombre allunga
al centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’ allegro vociare in questa immota tristezza
delle ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).

6

Luna scioglie nel lago –
fa paura a ridirsi quel vuoto
che sparendo hai creato.

La terra, tu gli manchi
ed eri acqua nella stagione secca,
eri lucida vita.

Oscura la collina –
di stelle non conosco pietà
per continuo dolore.

Le bestie, tu gli manchi
ed eri amica nelle lunghe sere
di screpolata estate.

7

Spengono i rumori della strada, a sera
(nei tuoi occhi si venava madreperla) –
ho atteso di guardare i voli delle cince
nascosto tra il cordame di vitalba secca -

o le macchie che luna lascia sui prati,
contate da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro dei castagni, se anche giugno
se ne andava senza riportarti dal nulla.

8

Stavi tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva le acquate che rimontavano forte.

Piangevi per le piccole volpi nascoste al folto
dei tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando i cani scioglievano la corsa disperata
e tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.

9

In neve di luce crollava il giorno
e della tua festa rimase fermo
nell’aria scossa dal riverbero di lune
un nastro che ora al buio s’ inviola.

L’orma cancella ai tocchi della mezza,
i denti spezzati delle innumeri ore
dentro gli ombrosi giardini (quel sole…)
in calma attesa di un lento tuo gesto.

Di fronde risuona, risacca, ogni mattino
una diversa voce: è il ricordo del mondo
in alto riverso, rami divenuti gli scogli
del cielo più blu, quell’autentico mare -

o i cadenti colli di verde grondanti,
argine al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava uno per uno i corpi appesi
al crepuscolo triste, ingorgo di rovi.

10

Nell’agosto che a stento s’allumava
ogni sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra che sei emergeva da acque ceree –

il biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai spento ha il cribrare questi miei giorni –
se nuova pena all’alba cruentava più lontano.

11

Una morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

12

Slavata dai canti -
l’afa candida del mezzogiorno,
cenere imbianca il cuore
delle cose –
un’ora di silenziosa mancanza.
Tu vieni dai morti
alle pianure bruciate in solleone,
con te porti
profumo di spezie e lacrime, o pioggia –
da pinete di porpora, i passi blu
nelle sere impalpabili di luce.
Ma tu vieni dai morti
e ad ogni alba ci ritorni.

Luigi Arista, "Sull'idea di provincia letteraria"

Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.

                                     Luigi Arista