domenica 8 febbraio 2009
Adriano Padua, Poesie sparse
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)
il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da
tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente
nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria
regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera
nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre
dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze
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unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono
nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario
il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente
il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità
con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine
lo scarto che si situa nel momento
appena successivo
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A K.
(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)
Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole
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Amen
risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso
disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive
sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati
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Canto (febbrile)
la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione
e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia
le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde
da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano
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Roma- 15/08/2005
ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia
tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire
scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive
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dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza
la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene
si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio
qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina
oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno
ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni
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nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso
invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza
martedì 3 febbraio 2009
Elisabetta Brizio, "I sensi segreti della nebbia. Analisi della poesia 'Nebbia' di Giovanni Pascoli"
E morte, ricettacoli e teatri del disfacimento sono anche la patria, la madre terra, la provincia - nella tragedia greca, epichorioi, patrii o indigeni sono gli uccelli che divoreranno, placata ormai ogni angustia, le spoglie delle Supplici eschilee, come in Sofocle saranno gli epichorioi, i provinciales, ad eleggere re, dopo la morte di Polibo, Edipo, indirettamente orientandolo, proprio nella sua forzosamente dimenticata o rimossa, e vanamente rifuggita, terra d'origine, verso la rivelazione che lo porterà alla rovina e all'accecamento.
Il Pascoli di Nebbia (Pascoli travagliato egli stesso dal conflitto edipico, dall'ambivalenza di attrazione e repulsione, di preservazione e distruzione, nei riguardi dell'origine, della matrice, del grembo) sembra, in questo senso, più discepolo di Carducci (del quale si sta ora via via rivelando, sulla scia del centenario, la segreta, profonda e misconosciuta modernità) di quanto non paia (penso a Nevicata, in cui affiora quel motivo, unito e duplice, del ritorno dei morti e del ritorno ai morti, dell'allontanamento e del ricongiungimento, del disfacimento che è anche reintegrazione all'origine, tanto presente nella tradizione poetica italiana da Pascoli a Montale, da Luzi a Sereni ad Orelli). Un Pascoli carducciano e, nel contempo, simbolista, insomma classico e moderno (la sua nebbia andrà forse accostata alla brume di Mallarmé - “Brouillard, montez! Versez vos cendres monotones.....” -, vista come solo, per quanto opprimente, schermo dall'angoscia della vita, dall'appello insistito e spietato che all'io rivolgono la luce, l'aria, l'azzurro).
Anche in Italy (il poemetto caro a Contini, che vi vedeva l'archetipo di tanto espressionistico plurilinguismo novecentesco) la terra (la nazione così come la “piccola patria”, la patria interiore e sperduta, del paese d'origine) è sfera da cui si proviene, da cui si viene gettati e insieme a cui si torna, per morire o per vegliare la morte - mentre la patria degli emigranti è il cielo, la sterminata “patria degli orfani”.
Uniti nel segno della morte, i due abissi si chiamano – il cielo è eco e specchio della terra, e viceversa - e all'uno come all'altra fa da risonanza il mallarmeano “plafond silencieux”, la voce muta del vuoto e del deserto.
Non lontana da questa visione sembra la lettura della Brizio, che pare rivisitare il simbolo (o l'emblema, o forse il “mito personale”) pascoliano del nido alla luce dell'estrosa, vivace, mobile (e perciò irriducibile a schemi, scuole, protocolli, e di conseguenza sostanzialmente dimenticata), semantica letteraria di Alvaro Valentini. (M. V.)
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre
Eugenio Montale
In uno dei suoi saggi leopardiani1 Pascoli parlava, a proposito del poeta recanatese, di una eccessiva indefinitezza, di un “errore di indeterminatezza”, quasi come un limite non solo estetico della sua poetica. Un eccesso che sconfina nel falso e che condurrà Leopardi, per fare l’esempio più clamoroso, ad accomunare “rose e viole”, peraltro dopo aver semplificato tutti i fiori a rose e viole, facendo così astrazione dal particolare a favore di segni convenzionali per esprimere - pur nella loro genericità - sinteticamente e incisivamente una intuizione originaria generatrice. “L’aurea mediocritas dello stile pascoliano - scrive Edoardo Sanguineti - esige infatti in primo luogo il rifiuto della tradizionale promozione indiscriminata di ogni realtà al livello del sublime superiore”.2
Nondimeno, se Pascoli muoveva a Leopardi l’”accusa” di una impoetica indeterminatezza, è anche vero che i suoi versi paiono costantemente attraversati da echi, risonanze nascoste e sconosciute, vibrazioni indefinibili, espressioni allusive volte non solo a risignificare l’altrimenti inesprimibile vertigine cosmica, quanto la stessa instabilità del vivere e a disvelare una tonalità emotiva trascorrente e sfumata. Attraverso parole esatte eppure stranianti, sospese e indugianti, veicolanti l’appena percepibile dell’infinito mistero che avvolge la dimensione dell’esistere, per scrivere il quale è necessaria una forma poetica nuova, intessuta di accostamenti analogici e arcani, inediti e inauditi. Come Pascoli nel proprio linguaggio poetico abbia soppresso il confine tra determinato e indeterminato, tra la grammaticalità della lingua e la sua evocatività, è stato dimostrato da Gianfranco Contini nel suo magistrale studio sul linguaggio poetico pascoliano3. Nel quale il critico indica come talora una eccessiva precisione nomenclatoria sia solo apparente e al contrario sottenda una intenzione sostanzialmente evocativa, insinuante e sfuggente. In Pascoli determinatezza e indeterminatezza costituiscono i due estremi di una perpetua oscillazione e procedono dunque dialetticamente.
L’immagine-figura della nebbia - tra le più iterate lungo i versi pascoliani - è per definizione qualcosa di indefinito che ottunde l’anima e le cose, è intrasparenza e opacità, metaforico nascondere, annullamento dei contrasti; abolizione, nella misura in cui cela la distanza, e insieme - per la pascoliana volontà di distanziarsi - accentuazione della incomunicabilità del poeta con il mondo esterno.
In Nebbia l’evento atmosferico diventa simbolo di un dettato poetico che vuole significare ulteriormente, in una alternanza o invisibile legame tra determinatezza e indeterminatezza. La nebbia separa il poeta dal mondo, difende il suo “nido”, il quale a sua volta preserva il poeta dalla minaccia dell’ignoto. Pone una barriera, un margine materiale a una visibilità diretta e senza interposizioni, permette al poeta di vedere solo il proprio chiuso e rassicurante ambito familiare. Ma la nebbia si situa anche in una prospettiva temporale, come elemento che potrebbe assecondare il disperdersi dei ricordi di morte che affliggono e insieme continuano a sedurre il poeta, la cui vocazione di morte rientra nello spirito della simbologia del nido, onnipervasiva della poesia pascoliana.
Se la predisposizione simbolista di Pascoli può apparire di carattere onirico e, come tale, esprimersi in un linguaggio essenzialmente antinaturalistico (anche se in apparenza ipernaturalistico), nondimeno, per il freno esercitato dalla tradizione, Pascoli mette in opera una sperimentazione sotterranea e - scrive Elio Gioanola - “seppellisce le pulsioni profonde sotto cumuli di letterarietà (…). Ma proprio per questo sforzo di continua rimozione il suo simbolismo risulta tanto più profondo e significativo”.4
In questa pascoliana aspirazione a sottrarsi sia all’incertezza del futuro sia alla vita da vivere nel presente, sia - ma con evidente intenzione antifrastica - a voler vedere annebbiato il tempo dell’abbandono, quello dei propri morti - che peraltro vanno ben oltre la loro condizione di esseri dell’altro mondo -, la nebbia svolge la duplice funzione di creare il silenzio intorno alla memoria, di interrompere quella incessante corrispondenza con le figure del passato defunto e irrevocabile. E di circoscrivere l’orizzonte del proprio mondo. La dimensione della siepe - che non apre, leopardianamente, ma al contrario chiude, delimita - e dell’orto domestico, emblemi anch’essi di morte e di separatezza, equivale al pascoliano rifiuto della coscienza storica e al suo sogno di annullamento nel regno delle ombre, in una dimenticanza piena di ricordi, in un assorto evitamento dei presupposti stessi del desiderare.
In Nebbia - e in Pascoli - questa volontà di distanziazione pare essere incoerente, o quantomeno ambivalente: all’invocazione alla nebbia perché nasconda “le cose lontane” per una possibile apertura verso la vita si affianca la volontà del poeta a non oltrepassare la siepe, a non amare, a non andare, “a respingere la tentazione di andarsene, di patire un sentimento come rapporto”, come nota Giorgio Bàrberi Squarotti5. E nella sua incapacità di vivere al poeta non resta che la frequentazione esclusiva della morte come portatrice di oblio: l’unico suo progetto è quello di un immemore abitare entrambi i regni.
In Nebbia la dimensione dello spazio oscilla tra lontananza e vicinanza. Il desiderio di lontananza sorge sullo sgomento di fronte all'ignoto e alle minacce del mondo esterno. Ma lontananza è soprattutto quella dei ricordi che la nebbia dovrebbe adombrare, delle cose che andrebbero dimenticate in quanto ancora traumatizzanti, e soprattutto nella misura in cui inducono il poeta a uscire dal nido, lo spingono ad amare e ad andare, vale a dire a vivere la propria vita. Ma i morti pascoliani trattengono in sé le peculiarità sia della vita che della morte, assicurano e tutelano la perpetuità del proprio legame con i vivi. E sebbene gli dicano di andare e di amare la loro imprescindibile presenzialità trattiene e trascina il poeta nel loro enigmatico oltremondo. E non a caso - scrive Giorgio Agamben - “nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”6.
La vicinanza spaziale è definita da esatti ed essenziali punti di riferimento: la siepe che circoscrive, il muro che delimita e rassicura (e non, montalianamente, quale tragico diaframma che separa il fenomeno dal noumeno), due peschi, due meli, una bianca strada e un cipresso, l’orto e il cane, figura estremamente ambigua, ma alla lettera rasserenante in quanto simbolo della fedeltà. Un mondo ristretto e protetto, quello vicino, isolato da quello lontano dal muro di una nebbia che in un altro senso opera metaforicamente come il muro montaliano, limite a una conoscenza essenziale delle cose e metafisico emblema dell’umano errare “seguitando una muraglia” - impedimento non oltrepassabile - aggirandosi intorno alle cose e non poter andare più in là. L’esistenza è mistero, l’uomo è incapace di accedere a una visione d’assoluto al di là della dimora dell’effimero, perché le cose sono circondate da una spessa nebbia - o separate da un invalicabile muro - che uno sguardo umano non è in grado di travalicare. Già l’aggettivo “impalpabile” ci suggerisce l’idea della impenetrabilità delle cose e della loro evanescenza e infigurabilità.
Ma rileggiamo il testo:
Nascondi le cose lontane
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura c’ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che voglion ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
Alla nebbia viene affidato il compito di adombrare le cose esteriori (nello spazio) e quelle interiori (nel tempo). Esterno (il mondo, ma anche i ricordi del poeta) e interno (l’orto, il nido, la sfera del ricordo) sono in antitesi, ma alla fine convergeranno in una visione unitaria. Il ritmo del testo viene scandito da novenari interrotti al quarto verso dal trisillabo e al sesto da un senario; il primo verso si ripete in ogni strofe, rimando con l’ultimo. Le scelte metriche contribuiscono alla definizione di un ritmo spezzato, rapsodico. Ma le ripetizioni, l’alternanza delle rime, le radici interne, le figure etimologiche (“involale al volo”, “cipresso-presso”) restituiscono al testo una maggiore fluidità. Il verbo “nascondere” - che variamente declinato (“nascondi”, “nascondimi”, “nascondile”) attraversa tutte le strofe - nel primo verso potrebbe essere inteso all’indicativo presente: come a descrivere un banale evento meteorologico. Ma già nella seconda strofe si precisa come imperativo. Analogamente, si ripete dalla seconda all’ultima strofe l’espressione “ch’io veda”, di senso contrario rispetto a “nascondi”.
Pascoli rivolge la propria invocazione-preghiera-imperativo (con leggerissima anafora: “tu nebbia”, “tu fumo”) alla nebbia perché spezzi il legame con il rifugio nel proprio lutto non ancora estinto. Con l’espressione “cose lontane”, si diceva, il senso di lontananza nel corso del testo verrà a configurarsi come lontananza nel tempo. La nebbia sembra succedere ad arcane tempeste nel cielo notturno, possibile allusione alla violenza del mondo esterno; ovvero, al proprio doloroso passato che ancora si riversa - alla maniera di un franare, di un rovinare - sulla attuale sfera emotiva del poeta. La nebbia dovrebbe estraniare la memoria, dissolverla in una condizione di indistinzione, allontanare quelle tracce incancellabili che i morti lasciano nei vivi. Dovrebbe nascondere l’assenza di speranza di uno sguardo disilluso sul mondo indifferente e crudele, affinché resti solo visibile “la siepe dell’orto”, altro limite fisico che circoscrive ulteriormente lo spazio - nonché il tempo - in un microcosmo familiare e rassicurante. La nebbia è chiamata a occultare le cose “ebbre di pianto”, laddove se “ebbro” designa lo stordimento del dolore, allude anche a una sorta di voluttà, a un indulgere alla propria desolazione - una voluptas dolendi - con la quale Pascoli ha per lunghi anni educato in sé quel dolore. Il poeta vuol vedere - in ossimoro con “nascondi” - solo il muro di cinta dell’orto pieno di “crepe“ (allusione alle insanabili lesioni della vita) e “i due peschi, i due meli” e quel mondo chiuso che è il proprio rifugio dall’esterno, oltre che immagine della continuità della vita familiare.
La referenzialità della rappresentazione dell’orto è indebolita dalle implicazioni allusive che tale descrizione contiene. Pascoli nomina con esattezza gli aspetti concreti quotidiani e della natura quasi per afferrarsi a essi; e la determinatezza pascoliana - quel suo misticismo oggettivistico - talora tradisce un bisogno di eludere l’ossessiva immagine del mistero delle cose, come se nominarle esattamente - e qui anche numerarle reiteratamente - equivalga a padroneggiarle.
La nebbia deve nascondere quelle cose lontane “che voglion ch’ami e che vada”: se da un lato Pascoli respinge il richiamo della vita e del desiderio, dall’altro sono le stesse “cose lontane”, vale a dire l’attrazione verso il passato, che lo trascinano a sé perché, come s’è accennato, i morti pascoliani continuano pur in absentia a partecipare ancora - in una sorta di dimensione orfica - al proseguire della vita dei vivi, a far sentire, in un “ossessivo e accanito sentimento di possesso ancora sulle cose e sulle persone, la loro angosciante vigilanza sui vivi”7,
L’universo del poeta si restringe ulteriormente e si avvia verso la propria estrema limitazione, introdotta dall’aspirazione a vedere - e a voler percorrere - “solo quel bianco di strada”, l’invocato itinerario dell’anima verso la sepoltura, vale a dire il ristabilirsi del nido. Dirà poi Montale, in quel memorabile ossimoro - peraltro riferendosi al senso del tempo storico: “e persistenza è solo l’estinzione”.
La nebbia deve nascondere, estromettere dal desiderio (nell’accostamento paronomastico “involale al volo del cuore”) che vorrebbe rivolgersi, voltarsi verso di esse, le angosce del passato lontano. Deve allontanare dal poeta ogni tentazione di vivere la vita. L’attesa della morte come occasione per ricongiungersi ai propri familiari e la vocazione di morte che ispira tutto il testo sono oggettivati nella descrizione di un paesaggio che - scrive Mario Tropea - “senza perdere l’aspetto concreto (…) assume il volto ambivalente di attrazione e annientamento in cui si iscrivono i particolari allusivi“.8 L’avverbio “qui” viene posto in relazione con l’immediatamente precedente “là”; il quale sembrerebbe contraddire l’iniziale aspirazione del poeta a vedere nella nebbia solo una occasione per un rasserenante nascondimento, ma che invece si configura come l’esito estremo del percorso testuale e spirituale pascoliano. La regressione pascoliana non è avvertita in maniera del tutto fallimentare: da un lato esiste una corrispondenza tra il suo io attuale e quello defunto insieme alle cose che furono, ma dall’altro si insinua in lui l’inquietante consapevolezza che in questa tendenza regressiva è insita la coscienza della propria incapacità di esistere individualmente. Tutto il componimento gravita intorno a questa opposizione irredimibile tra passato e presente, vista anche la ricorsività di parole che evocano il senso della separatezza (“siepe”, “mura”, “soltanto”, “solo”, parola chiave, quest’ultima, almeno nella quinta strofe), e, di conseguenza, un sentimento di esclusione.
“Nebbia”, dunque, idealmente situata tra lo spazio vicino e quello lontano nel tempo - in una lontananza che vuole essere prossimità -, nella duplice veste spaziale di confine naturale a una visibilità dispiegata, e temporale come reificazione di un tempo a cui è delegato il compito di ottundere la memoria di un passato che comunque ancora e imperiosamente attrae il poeta verso di sé. “Nebbia” come desiderio di ritrarsi in “una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta”9. Un hic et nunc celato, segnato da un desiderio di dissolversi, di dileguare, di ricongiungersi al nido. L’idea della stanchezza, del sonno e della morte sono intimamente legate e variamente oggettivate: nell’onomatopeico “stanco don don di campane”, nell’immagine del cimitero e del cane funebre che esausto “sonnecchia” nell’orto. Quasi la dimensione della morte - consustanziale all’idea stessa del ritorno - fosse essa stessa una presenza rassicurante come quella dell’orto e del cane; o più verosimilmente, rappresenta l’eterno motivo del ritorno alla madre.
La morte in Pascoli non è antitetica alla vita ma il modo d’essere della vita, vale a dire, in una caratterizzazione orfica, dimora nella vita stessa. Vivere per Pascoli è ritornare e regredire, procedere verso un nulla che qui non ha la portata cosmica del foscoliano “nulla eterno” ma che - nel suo qualificarsi come anteriorità - contiene le immagini delle persone amate (altrove oggettivate nel simbolo della “culla” o nella rima tematica “culla-nulla”) e - temporaneamente - perdute. Come espresso nei Conviviali, in quel canto di morte dal titolo L’amore10, l’amore non si può rinnovare. Ed è il rimpianto che fa la poesia.
Elisabetta Brizio
1)Il sabato, in Prose, I, Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946.
2)E. Sanguineti, Attraverso i Poemetti pascoliani, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 23.
3)G. Contini, Il linguaggio del Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
4)E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, in Storia del Novecento in Italia, SEI, Torino 1975, p. 11.
5)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, “Lettere italiane”, 3, 1963, p. 286 sgg.
6) G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, introduzione a Il fanciullino, Feltrinelli, Milano 1982, p. 56, nota.
7)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, cit.
8)M. Tropea, Giovanni Pascoli, in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza, Roma-Bari 1978, p 47, nota.
9) E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, cit., p. 13.
10) L’ultimo viaggio, XVIII.
giovedì 22 gennaio 2009
Luciano Benini Sforza, "Oltre la città" (poesie inedite)
Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.
Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.
Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.
Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.
Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.
Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.
Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).
*
Senza solchi
Senza divisioni, senza spaccature
infinite. Un mondo finalmente
senza solchi.
Se non quelli che tocchi
sulla pelle, fra le rughe.
*
A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano
Dormi
e sogna le cose
che possono raccontarti i tuoi sogni
o il cielo dentro i miei occhi.
Dormi
fra le nuvole delle mie parole
e raccontale ancora agli angoli
bagnati dal mare, alle mani
che ti stringeranno, ai giorni nuovi
quando, senza saperlo prima, conoscerai
la vita
e sarai finalmente grande,
un pezzo di sale e di aria
che gira e batte col mondo.
*
Nubi ad agosto (A M.)
Si accavallano basse le nubi
sulla tua casa,
sul giardino che aprivi con fatica
ostinata nella sabbia, mettendo
palme, iris, siepi di oleandro,
e fra le rocce
piante grasse o più comuni.
Chissà se adesso guardi questo piccolo
universo che continua il suo corso
senza di te nel liquido andare
delle stagioni.
Chissà
con che animo lo fai, se ancora
curvi sulla schiena i capelli biondi
e selvaggi, e hai la gioia
di vedere il verde di una macchia
quasi mediterranea
persino qui,
sulle rive che tocca l’Adriatico.
La tua sfida era anche col vento freddo
da nord-est, con le gelate ricorrenti
e un clima avverso:
ma da lontano posso dirti
che l’hai vinta,
che resiste il tuo giardino
sulla via che attraversa tutto il paese,
arrivando ora fino al porto,
alle radici dell’acqua.
In questo pomeriggio
un libeccio sgarbato, sai,
batte e confonde gli uomini e le cose,
li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,
si increspano
già le onde e le prime foglie cadute
si rincorrono o si perdono nell’aria.
Ma non basta:
vado fra le case e il tempo,
vedo qui e dentro,
e così da questa terra
che si è aperta come il tuo giardino
chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.
*
Col rosso si fermano
Mi hanno già ucciso,
anche se non hanno
usato cemento o pallottole.
Non hanno spostato un capello.
Ma i morti
oggi respirano, col rosso si fermano,
vanno al supermercato, leggono,
leggono libri e giornali.
E dentro le stanze,
non c’è un momento preciso,
la tastiera si invola,
scava ombre e lettere, un movimento
a sfumare,
un gesto in marcia
verso un crinale sempre più parallelo,
dipinto, senza tunnel, senza
crune.
Io sono il filo
che non passa,
il sangue deviato
come acqua sulle antiche pianure,
sulle dune,
sono nel vuoto
del tempo che passa sul video,
puoi toccarmi
con le dita se le accosti alla luce,
puoi vedermi, sentirmi per ore,
non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,
sono un uomo e un dio trasparente,
un’immagine
che corre dentro le case,
infila i tuoi pensieri,
è un fascio di notte radente.
(Per ogni angelo che cammina
coperto di luce e fuliggine)
*
Senza partire
Le cose hanno sempre
un loro sapore,
se le avvicini alle parole
vivono però un altro tempo,
hanno un altro passo,
come la nave che solca
leggera il canale, punta
di uomini e speranze
che taglia senza disordine
il porto, rondine
rovesciata dal cielo,
bolla di sottile armonia.
Ora passi anche tu,
il tuo vivere
fra giorni che nascondono
queste rive, questa
memoria che ti riporta
improvvisamente qui,
parlavamo sulle cose
che dopo rimangono,
qui, senza partire.
*
Nel fondo aperto degli occhi
Ti ho lasciato con un segno della mano,
che andassi avanti, senza fermarti
quaggiù dove le strade sono giorni
e i sogni a stormi vanno veloci
come aerei alti sopra le città,
piccole mappe ormai,
cerchi ripetuti di ombre e pietre.
Non ho mai pensato a un tuo ritorno,
nemmeno per lo spazio
lungo un dito
che ora mi separa dal pensarti.
Nemmeno al limite delle case, un battito
prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.
Ma sulle rive battute dalle gru
e dal tormento
l’onda di luce che il faro a Marina
scaglia tutte le notti a pescare nel cielo
sorprende un vento nuovo
umano e non umano.
E la sera tardi adesso
mi sporgo spesso
dall’universo stretto della mia stanza,
vedo le case, nuvole e fumo in aria,
e lampi, lampi di auto o baionette.
Così,
grande Padre, figlio abbandonato,
chiodo arrugginito e cercato,
vieni
dentro le ore colate come vernici
e diventi preghiera
nel fondo aperto degli occhi.
mercoledì 21 gennaio 2009
NADIANI FRA PROSA E POESIA
Il binomio di prosa italiana e poesia in dialetto non deve qui far pensare alla consueta, classica concezione, da Alfieri a Leopardi, della prosa “nutrice del verso”, o ad un'espressione poetica intesa come sublimazione e idealizzazione di un dato reale che la prosa rappresenterebbe, invece, nella sua crudezza, nella sua aspra concretezza, nella sua pretesa e presunta “oggettività”.
In Nadiani, al contrario, tanto la poesia quanto la prosa, tanto il romagnolo (nella forma dei versi come in quella, allucinata, visionaria, deformante, divisa fra realtà e delirio, dei monologhi, che possono far pensare a un altro grande dialettale, Baldini) quanto l'italiano sono, in eguale misura, strumenti dello straniamento, tramiti di una deformazione critica e spiazzante, di una calcolata e lucidissima, quasi kafkiana, alterazione o sovversione della percezione e dell'esperienza consuete, pacifiche, ormai per così dire reificate dall'ordinarietà e dalle convenzioni.
E la provincia, l'angulus, il microcosmo locale o addirittura domestico, la dimensione circoscritta, soffocante, oppressa ed opprimente, dell'oikos divengono non il tiepido nido, il quieto e rassicurante rifugio, bensì il teatro frammentario ed allucinato della sofferenza, della dissociazione, della follia, della perdita – o dell'alterazione – del rapporto, di per sé tanto spesso sottile, ambiguo, precario, fra l'io e il mondo, fra il Sé e le cose, o lo spazio ontologico di una nuda e patente rivelazione (intesa come “svelamento”, come non-nascondimento) dell'essere-per-la-morte, della caducità di ogni cosa, della perpetua e irresolubile senescenza che innerva ed intride il “mondo della vita”.
Si potrebbe richiamare, di fronte alle prose concise, taglienti, “esatte” di Nadiani (che ben poco hanno da spartire con il lirismo evasivo, e a volte compiaciuto, lezioso, oleografico, insito nella tradizione del poème en prose, del “frammento”, della “prosa d'arte“), tanto lo chosisme, la scrittura netta, delineata, marcata di un Ponge quanto la “microscrittura” di Robert Walser, modello di quel filone germanico della Kurzprosa al quale Nadiani, per spirito e formazione, si avvicina.
Ma, in Nadiani, la microscrittura, il discorso che prende forma, si snoda e si sdipana sui margini, o negli interstizi e nelle intercapedini, della realtà come del libro, nelle sottili nervature che solcano tanto la superficie del linguaggio e della pagina quanto quella della natura e del paesaggio, non indulgono ad alcuna idealizzazione o stilizzazione idillica dello scenario naturale. Essi sono, piuttosto (potremmo dire con Minkowski o con Binswanger), l'espressione e il riverbero di una percezione morbosa, coscientemente e criticamente (la letteratura come “critica della vita”) alterata, dello spazio e del tempo, non più vissuti e rappresentati nel loro libero, liricamente e serenamente disteso, ma proprio per questo spesso edulcorato e mistificato, fluire – non riposti e placati nell'uniforme, stoltamente ridente, respiro della percezione ordinaria, della quotidianità pigra ed irriflessa, del “vivere inautentico” -, ma al contrario còlti nel momento della loro traumatica frantumazione o, viceversa - ma i due aspetti sono strettamente interrelati: si pensi a Montale, all'”immoto andare”, e insieme al “delirio di immobilità”, di Arsenio -, della stasi, della cancrena, della stagnazione, della paralisi esistenziale.
Schematicamente, I bu di Guerra rappresentavano, violentemente, con un brusco strappo rispetto alla tradizione spallicciana (che andrebbe pur riscoperta e riletta, anche nei suoi esponenti minori e nei suoi dignitosi emuli, quali un Nettore Neri, come peculiare esempio, se così si può dire, di classicismo e di umanesimo vernacolari), l'avvento e l'esplosione della modernità industriale, il subentrare dell'agricoltura meccanizzata che spazza via ciò che restava del mondo arcaico, rurale, patriarcale, con il suo patrimonio orale, con la sua collettiva e condivisa “enciclopedia” di archetipi, miti, ingenue care consolanti fole.
Nadiani è invece poeta del postmoderno, della smaterializzazione, dell'informatizzazione, della compressione spazio temporale, della memoria e dei messaggi disincarnati e volatilizzati in un evanescente pulviscolo di codici e serie numerici e di quanti d'informazione, sul quale grava sempre il pericolo della dispersione, del decadimento, dell'indecifrabilità.
Non sembra, nella folle corsa di una globalizzazione caotica, contaminante, per tanti aspetti selvaggia ed iniqua, sopravvivere nemmeno più la consolazione borghese, proustiana del tempo ritrovato, del passato risorto in un profumo d'infanzia carpito nella fuga precipite del treno. E si resta felicemente sorpresi nel constatare come il dialetto (idioma in origine - come il latino del resto - così vicino alla terra, così strettamente vincolato al concreto, all'immediato, al corposo, al tangibile) riesca mirabilmente ad esprimere visioni filosofiche (del resto esse stesse ancorate ad un doloroso vissuto esistenziale, prima ancora che scaturite dalla riflessione speculativa) come il male di vivere, l'Angst, la “malattia mortale”, il senso e la percezione del vuoto, del nulla, dell'Abgrund - in una parola, la sofferenza e il disagio filtrati ed illuminati dalla coscienza artistica, ed elevati a materia e forma dell'arte: la “nebbia” pascoliana, che nasconde le cose lontane nell'ambiguità dell'enigma, della morte-vita, nella dolcezza terribile della cecità e dell'annullamento – o l'heideggeriana “nebbia nera” che avvolge e imbeve le cose, e alla quale il soggetto (si vedano le due prose qui riportate, pervase da una carnalità e da una corporeità provocatorie, esibite, quasi tondelliane o bukowskiane) contrappone la sua disperata e lucidissima, fallica e dionisiaca, volontà di vivere e creare. Questa volontà ostinata e cieca, e pur determinata, questa pertinace e paradossale speranza sono riposte, e deposte, nella scrittura, che se ne fa testimonianza e strumento. (M. V.)
*
nó ch’a sen ned
o carsù int e’ stes pöst
ch’a s’cnunsegna tot
inmânch d’vesta
una burghêda d’cvatar ca
un paes un cvartir
una piaza una paròchia
o sól che bar sora e’ parcheg…
nó a s’sen pirs d’vesta
dè par dè
un pô a la vólta
ognon par la su strê
dasend sól pet dal vólt par sghet
a chijcadon
senza arcnosal pröpi da bon
o imparend par ches
da cla burdëla ch’a lè dnenz a te
cl’infarmira o cl’impieghêda
ch’l’è la fiola ad cla tu filarèna
za morta d’un mêl cativ
e che t’a n’é vest mai piò d’alóra…
e donca
e’ stêr a e’ mond
l’è tot a cvè
tra l’aviês d’int un pöst
senza ch’u s’n’adega incion
e turnêr int un pöst
senza arcnosar piò incion
senza che incion
u s’arcurda piò gnît
d’incion…
noi che siamo nati / o cresciuti nello stesso posto / che ci conoscevamo tutti / almeno di vista / una borgata di quattro case / un paese un quartiere / una piazza una parrocchia / o soltanto quel bar sul parcheggio…noi ci siamo persi di vista / giorno per giorno / un po’ alla volta / ognuno per la sua strada / incontrando solo qualche volta per fortuna qualcuno / senza riconoscerlo davvero / o venendo a sapere per caso / che quella ragazza lì di fronte a te / quell’infermiera o impiegata / è la figlia di quella a cui facevi il filo / già morta di un tumore / e che non hai mai più rivisto da allora…// e dunque / lo stare al mondo è tutto qui / tra abbandonare un posto / senza che se ne accorga nessuno / e tornare in un posto / senza riconoscere più nessuno / senza che nessuno/ si ricordi più nulla / di nessuno…
*
nó cun i finistren avirt
ins al tangenziêl in corsa
a n’s’n’adesen brisa
che e’ marug l’è in fiór…
cl’udór ch’e’ pr un sgond
u s’infila int e’ nöstar nês
ch’u s’invurnes
u s’fa vultê la tësta
dlà de’ gvardreil d’lamira
e a n’a saven brisa
d’in do’ ch’u s’vegna
u s’pé sól d’arcurdês
nó da basterd
una séra d’maz
schelz pr e’ fiôn…
e alóra u s’pé d’sintì
che la vita
l’è tota a lè
in cl’udór
ch’a j aven incóra int e’ nês
e ch’a n’saven piò
d’in do’ ch’u s’vegna…
noi coi finestrini aperti / sulle tangenziali in corsa / non ce ne accorgiamo / che l’acacia è in fiore… // quel profumo che per un secondo / s’ infila nel nostro naso / che ci inebria / ci fa voltare la testa / oltre il guardrail di lamiera / e non sappiamo / da dove venga / ci sembra solo di ricordare / noi da ragazzi / una séra di maggio / scalzi lungo il fiume… // e allora ci pare di sentire / che la vita / è tutta lì / in quel profumo / che abbiamo ancora nel naso / e che non sappiamo più / da dove provenga…
*
stason
…cvânti ór che a j avé za pasê a cvè
a l’ ôra sbusanêda dal foi de’ cocal
int l’óra tevda ch’la s’perd ’t e’ vent
tra dal nuval smaridi ch’a n’al sa
d’pêrt ciapês pr andêr invel…
…istê dop a istê in sdé a cvè stuglê
cun e’ nes insó ciucend un pô d’cafè
butendas un oc ch’rideva senza dî gnît
u n’i n’era pröpi brisa bsögn
’tânt che agli idei al daseva drì al parôl
d’un livar fasend nesar un étar livar
d’lètar nôvi d’idei frustiri tra i basterd
a zughêr int e’ sabion ad armisclê al parôl
cun e’ sabion impastêli s-sciazêli
int un stampin e tra i rug svarsêli…
…e pu un dè al parôl al s’è livêdi
da e’ sabion letra par letra da par ló
a gl’à tolt só acsè cvasi a la mota
senza salutêr incion al s’è amulêdi
par la su strê e adës e’ pê cvasi che l’istê
la s’épa da finì tot ’t una vólta
e nó a s’abrazen par nö sintì ste vent giazê
ch’a n’saven d’in dov ch’u s’vegna
e da i tu oc e’ cmenza a piovar un’acva
ch’l’avularà par sèmpar sta stason…
stagione
…quante ore abbiamo già passato qui / all’ombra bucata delle foglie del noce / nell’ora tiepida che si perde nel vento / tra nuvole smarrite che non sanno / da che parte prendere per arrivare in nessun posto… // …estate dopo estate qui distesi / col naso in su sorseggiando un po’ di caffè / buttandoci l’un l’altro uno sguardo senza dire nulla / non ce n’era affatto bisogno / mentre le idee inseguivano le parole / di un libro facendo nascere un altro libro / di lettere nuove di idee forestiere tra i ragazzi / a giocare nella sabbia a mescolare le parole / con la sabbia / impastarle schiacciarle / in uno stampino e tra le grida rovesciarle… // …e poi un giorno le parole si sono alzate / dalla sabbia lettera per lettera da sole / se ne sono andate così quasi all’improvviso / senza salutare nessuno sono partite / per la loro strada e adesso sembra quasi che l’estate / debba finire di colpo / e noi ci sbracciamo per non sentire questo vento gelido / che non sappiamo da dove venga / e dai tuoi occhi comincia a piovere una pioggia / che seppellirà per sempre questa stagione…
*
…me a n’a so mo chi ch’al sa pu
l’è fadiga savê d’in dov ch’u s’vegna
e’ mêl in dov ch’e’ nesa e’ cresa
fena a ciapê pröpi te brisa un étar
savê parchè un s-ciân un dè
u s’amêla int la tësta e u n’è piò lò…
d’acôrd e’ mêl de’ mond l’è un étar cvel
e’ mêl d’stêr a e’ mond nö me a n’degh
e’ mêl d’un s-ciân za in partenza cundanê
a e’ dulór piò grând da cvând ch’e’nes
cl’ingiustezia mai finida ch’l’è murì
tirê i zampet tra i fil d’un let ’t e’bsdêl
o sbrislês d’böta tra al pigh d’un gvardreil
me a m’cmend ste mêl ch’ u t ciapa d’dentar
ch’u n’s’ved brisa e incion u s’n’adà
la malincuneia de’ zarvël par l’istê finida
d’una vita cun e’ mêl dentar a e’ stên ben…
// …io non lo so ma chi lo sa poi / è fatica sapere da dove provenga / il male dove nasca e cresca / fino a prendere proprio te non un altro / sapere perché una persona un giorno / si ammala dentro la testa e non è più la stessa… / d’accordo il male del mondo è un’altra cosa / il male di stare al mondo no io non dico / il male di un uomo già in partenza condannato / al dolore più grande da quando nasce / quella ingiustizia mai finita che è morire / tirare le cuoia nel letto di un ospedale / o sbriciolarsi di colpo tra le pieghe d’un guardrail / io mi chiedo questo male che ti prende dentro / che non si vede e nessuno se ne accorge / la malinconia del cervello per l’estate finita / di una vita col male dentro allo stare bene… //
*
…e’ pê che t’épa gnicosa cun i dè ch’s’arves
int e’ sól ros sóra l’autostrê ch’starloca
chi va zo la séra ’t e’ ros dal machin lostri
sóra i chemp d’grân sfraghê da e’ vent
a disignê cun un pastël ’t e’ fond dagli ór
e’ sbalinê celest dal tër di mont in dov
ch’un dè a v’s’i incuntrê a v’s’i scambiê
al lèngv in boca par ciapê sól una strê
sól una vós a rispirêr insen e’ spud
di fiul lutê par tirêi sò parché i n’seia
fiul de’ mond savend stêr a e’ mond
chi vega nenca lô par la su strê
e avânti incóra insen fena a cla matèna
i fiur ch’d’acvivta i n’è piò lô j à pers l’udór
i n’t’dà piò la vós a j avì smes d’scorar
e che sól ros ch’u s’elza l’è sèmpr insclì
un candlot d’giaz d’istê a furêt e’ côr
a piantês int e’ zarvël a fêt un bus
un fös u n’i cor piò gnît l’è vut
u s’j infila e’ mêl de’ gnît
e’ gnît ch’u t’mâgna
t’a n’sent piò gnît
t’si gvent un gnît
un vut d’ gnît
gnît vut
vut
gnît…
…sembra che tu abbia ogni cosa con i giorni che si aprono / nel sole rosso sopra l’autostrada che riluccica / giorni che scendono alla séra sul rosso delle macchine luccicanti / sui campi di grano accarezzati dal vento / a disegnare con un pastello nel fondo delle ore / il lampeggiare celeste delle distese dei monti dove / un giorno vi siete incontrati vi siete scambiati / le lingue in bocca per prendere un’unica strada / un’unica voce a respirare insieme la saliva / dei figli lottare per allevarli perché non siano / figli del mondo sapendo stare al mondo / che vadano anche essi per la loro strada / e avanti ancora insieme fino a quella mattina/ / / i fiori che innaffiavi non sono più gli stessi hanno perso il profumo / non ti chiamano più avete smesso di parlare / e quel sole rosso che si alza è sempre freddo / un candelotto di ghiaccio in piena estate a forarti il cuore / a piantarsi nel cervello a farti un buco / un fosso non ci corre più nulla è vuoto / vi si infila il male del nulla / il nulla che ti mangia / non senti più nulla / sei diventato un nulla / un vuoto di nulla / nulla vuoto / vuoto / nulla… //
*
Luce
La sveglia non aveva suonato: si era svegliato da solo.
Rimase lì ancora lunghi minuti tra le lenzuola a sfregarsi l’uccello duro, a cercare di ricordare l’ultimo sogno fatto.
Inutilmente.
Di colpo, un raptus, quasi, scalciò in alto l’imbottita: nudo, si alzò scalzo sulle piastrelle gelide e fece per andare alla finestra: lo fermò per un attimo l’ombra di un dubbio. Ripartì, l’uccello sempre dritto che tirava verso l’alto.
Spalancò gli scuri: era già giorno fatto e non si vedeva nulla, il nulla avvolto nella bambagia di nebbia padana.
- Vieni dentro, brutta puttana, se hai del coraggio, vieni ad abbracciarmi, che ti disfo col mio calore!
*
Lavoro sporco
Una dolce mattina di maggio: il termometro del cruscotto segna 19.5°. Il finestrino abbassato, Giona fermo al semaforo di Viale Roma: cielo tersissimo, aria pulita: immagine ingannevole, tra le fronde un verde in orgasmo di particolato. Sorride con indolenza tra sé: farla finita. È deciso.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso: se la vita, stando all’amato Flaiano, è tutta un errore privo di senso, che stilla solo noia, è ora di finirla: per sempre.
Bisogna seppellirla.
Sotto una risata.
Se l’ironia è vivere l’irrisolto mistero dell’antitesi, l’unica soluzione può essere soltanto abbandonare definitivamente il solito muso mostrato alla vita e al mondo ogni mattino con la sveglia, al nero del porsi attimo dopo attimo il prossimo incombente problema, anzi precederlo, evocarlo. Di conseguenza, star male per l’irresolutezza del contingente. Basta. Il muso. Abbandonarlo.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso. Reciso.
D’ora in poi avrebbe diretto i muscoli facciali non più al ghigno sarcastico, ma al sorriso, al riso espanso dello humour assoluto, della comicità irrefrenabile della sua condizione.
Non è certo che a ciò basti un gesto della volontà, forse bisogna averlo innato questo settimo senso – si dice. Ma, appunto, è questo a cui lui si deve assolutamente abbandonare: semplicemente rientrare nell’alveo dell’atteggiamento di fondo della famiglia d’origine, tornare a ricordarselo dopo decenni di oblio infatuati, annebbiati da quanto aveva provato per una persona d’altra lingua e d’altra cultura.
La caotica famiglia d’origine: i vecchi semianalfabeti affogati giorno per giorno nei debiti e nel lavoro per consentire a sé, forse, ma in particolare ai figli di riuscire a galleggiare, non certo a nuotare, a volare, a riemergere dai flutti tetri della miseria e relativa ignoranza mantenendo la dignità dell’onestà. Una lotta improba, attraversata dallo sconforto, da continue, inevitabili incazzature – è il lavoro, bellezza – con grida, urla, improperi d’accompagnamento, in cui riuscire però a far balenare anche nel momento più critico il lato comico: la speranza irridente del proprio piccolo io portata in dote a lui e ai fratelli dai geni di quei due genitori dai poverissimi trascorsi e dalle umilissime origini, per giunta orfani entrambi di padre, così diversi tra loro, ma in ciò così simili seppure in modalità diverse.
Quel lato comico e tollerante verso sé e verso il mondo e il mistero dell’esistenza, quella leggerezza da cattolicesimo popolare di campagna che li avvicinava stranamente a una qualche famiglia ebraica di uno shtetl di uno sperduto villaggio dell’Europa orientale: il tutto senza la benedizione del rabbino, dei preti del loro paese a cui l’ironia era stata estirpata all’entrare in seminario a nove anni, e per i quali il riso poteva essere soltanto il ghigno perverso del demonio.
Era questo atteggiamento di fondo che doveva riconquistare per non farsi travolgere dall’amatissima moglie nordica divorata da quella sua assurda malattia, che affondava, seppur labilmente, le punte di alcune radici, se non nella severità, nella seriosità luterana di una famiglia che, sì, qualche volta sapeva ridere ma soltanto nelle circostanze più favorevoli, ma che mai si era presa alla leggera come i suoi vecchi gli avevano mostrato, pur consci del dramma dell’esistere: Ingmar Bergman dietro l’angolo.
Finita! Basta!
Da adesso in poi, pur non potendo rimuovere l’inclinazione, anche questa incisa sui geni dal padre, alla facile incazzatura per un nonnulla e relativo sfogo vocalico in decibel, tutto fumo in realtà, smorzantesi nel giro di pochi minuti, avrebbe cercato di abbandonarsi all’altra inclinazione, sempre tenuta a freno: ridere della circostanza avversa, anche solo sommessamente oppure in pubblico: una risata che gli inondasse tutta la mente fino a comparire sulla bocca e a rispecchiarsi negli occhi. L’unico antidoto al dramma del quotidiano per galleggiare ancora un po’ sulle torbide terre di quella sua contemporaneità, per non farsi divorare il fegato dall’assurdità: la sentiva, la viveva con ogni poro la comica discrepanza del suo essere uomo rispetto all’ordine dell’universo.
Non più la noia degli pseudocomici guitti-imbonitori televisivi clonati fin nella più vieta Sagra della pera volpina delle sue lande, ma la dolce levità di una sorridente, tenera, lenta e protratta scopata con la vita, finché dura, finché è duro…
Il semaforo scatta sul verde. Giona ingrana la marcia e lancia il lettore CD: di Bruce: It takes a redheaded woman to get a dirty job done…
venerdì 16 gennaio 2009
La serpe nel cristallo. Su "L'idea fissa" di Paul Valéry
L'”idea fissa” a cui Valéry intitolava questo immaginario, pacato dialogo (intrecciato sulla riva del mare, con un medico a fare da fittizio interlocutore) è un pensiero assiduo e iterato, un inesauribile rovello intellettuale e conoscitivo (simile, per usare un'immagine cara all'autore, alla coquille dalle molteplici, intorte volute) che tornando ripetutamente su se stesso finisce quasi per logorare e disgregare il soggetto e la coscienza, e a dissolversi, espressamente (come in Cioran e in Camus, ma con un razionale e classico equilibrio a frenare la deriva nichilistica), nell'assurdo: un assurdo sempre in agguato, che sembra essere diluito ed esorcizzato dal “tempo infinito” che il mare, con il suo assiduo moto, instancabilmente “produce e produce” (e si ricordi, qui, la bergsoniana “mer toujours récommencée” del Cimetière marin, il cui sciabordio sommesso e persistente si farà sentire anche in Montale).
Con il suo implexe (la sua tensione raccolta e concentrata, il suo abbraccio che avvolge se stesso) e la sua omnivalence, la sua apertura volta ad afferrare il tutto (a far proprio ed esprimere, si direbbe, l'Unomnia, l'Uno-Tutto, dei neoplatonici), il pensiero razionale ed immaginoso, argomentativo e insieme metaforico e poetico, di Valéry si protende fino al ciel-seuil, al cielo-soglia, al limite estremo dell'Ignoto in cui già era naufragata, nel suo désastre obscur, la parola del maestro Mallarmé.
Ma, infine, di analogia in analogia, di somiglianza in somiglianza, con una sorta di mise en abyme affine a quella dell'amico Gide, il pensiero poetante arriva ad un fondamento primo che è (quasi come negli esistenzialisti o, ancora, in Mallarmé, ma entro una sorta di spazio limpido, lucido, chiuso ad ogni tragica irrazionalità) Vide, Néant, abisso, assenza di fondamento.
Il fondo di tutte le cose non somiglia a nulla, è solo se stesso, chiuso nella sua individualità ineffabile; e, allora, “tutte le similitudini svaniscono”, ogni dire e ogni canto tendono alla condizione del silenzio.
Questa piccola e squisita edizione adelphiana è impreziosita dalla traduzione e dalla postfazione di Valerio Magrelli, che in veste sia di critico che di poeta ha già lungamente meditato sul movimento esistenziale e gnoseologico del soggetto che si specchia, si riflette, si ridona a se stesso (come un revenant, immagine replicata ma anche simulacro, larva, fantasma) attraverso il multiforme cristallo della parola, fino a scorporarsi e dissolversi in puro sguardo, a divenire null'altro che visione disincarnata, assoluta (quasi come la “pura visione” di Plotino). Non per nulla (come lo stesso Magrelli rammentava altrove), il Valéry pensatore aurorale e chiaroveggente dei Cahiers sognava di potersi “spogliare di tutto, fuori che dello sguardo”, cioè della facoltà più pura e limpida, più teoretica ed incorporea, che sia data alla sensibilità ed al pensiero.
In questa occasione, il poeta-critico di Vedersi vedersi e di Ora serrata retinae ravvisa in Valéry un esempio di quell'eclisse della figura e dell'oggetto che contraddistingue la modernità più intellettuale e rarefatta.
Lo stile della versione riesce a restituire, con naturalezza, quella quasi miracolosa commistione di illuministica clarté e analogismo barocco e simbolista che pervade la prosa di Valéry. E – si direbbe – Magrelli consegue quest'arduo risultato facendosi, in certo modo, da parte, mettendo fenomenologicamente (e dunque in modo voluto e studiato) “fra parentesi” ogni invadenza e ogni possibile arbitrio dell'individualità interpretante: eclissando, quasi, anche se stesso nello svanire delle similitudini e delle figurazioni, per far parlare (per fare, direbbe Blanchot, risuonare) il testo con la sua voce definitiva e pura – parificata, per citare Mallarmé, “au silence égal”.
La più felice chiave di lettura dell'opera è forse offerta dai versi di Góngora evocati da Valéry in esergo (si tratta, per la precisione, dell'esordio della Toma de Larache: “En roscas de cristal serpiente breve”). Il pensiero e la scrittura sono un fiume-serpente come quello inseguito dalla parola immaginosa del poeta secentesco, che avanza dibattendosi e torcendosi su se stesso fino a dissolversi nell'Oceano dell'assoluto o, forse, del nulla (nella “pureté du non-être” di cui il poeta francese parla, appunto, nell'Ébauche d'un serpent). La parola e il pensiero sembrano infine regredire verso il Nulla originario, pur disperatamente schermato e rimosso – verso la regione oscura, remota, preconscia (anch'essa ostinatamente rigettata dalla razionalità creatrice insita nel moderno “classicismo” di Valéry) giacente e dimorante, come dice il nostro dialogo, prima del linguaggio, prima del Verbo (e dunque, evangelicamente, prima del “Principio”).
Matteo Veronesi
LA PROVINCIA, RILKE E LO SPAZIO DELLA LONTANANZA
La provincia potrà essere anche una occasione di fuga o di rifugio, ma soprattutto costituisce lo spazio ideale per un possibile impegno, per una visione più autentica delle cose. Tanto che spesso si parla di uno sguardo “distaccato” e “a distanza” per alludere a una maggiore attitudine a vedere quello che il caotico centro impedisce di vedere, o impone di non vedere. Per percepire adeguatamente le cose nel tempo è necessario che questo tempo abbia un senso.
La provincia culturale conserva inoltre una propria peculiare identità: lo scrittore pare essere più originale, più assorto, più se stesso nella propria riflessione - “quieta”, “defilata” e “indugiante”, come è stato già detto in queste colonne. Neppure la globalizzazione riuscirà a sopprimere la provincia letteraria: un lettore virtuale attento sa distinguere la qualità delle proposte a prescindere dall’intervento del potere editoriale.
Il destino del libro nell’epoca del sans papier - il cui spazio è “l’immaterialità”, la “fluida e liquida impermanenza dello spazio virtuale” - è paragonabile, precisamente, all’“anticamera” di una dissoluzione che costituisce lo statuto stesso della poesia. È la provincia che assiste a questa morte nella vita, a questa montaliana “morte che vive”, e alla provincia “si torna” per poter intravedere infine un al di là delle pseudocertezze o delle visioni che assolutizzano – o al contrario stigmatizzano - il caos, per rinvenire un senso ultimo e autentico.
Perché, come dice Rilke, malgrado tutte le esperienze rassicuranti e le illusioni della nostra vita, al proprio destino, a quello che venne prima di noi, non si sfugge. Un destino che, per l'artista, come si legge nelle Elegie di Duino (nate lontano dal cuore tentacolare di Parigi, fra la pace di Duino e quella di Muzot), sta nel rivelare alle “cose che non sanno la morte” - e attraverso di esse, per via di proiezione simbolica, agli uomini - il loro destino ultimo, la verità semplice e tremenda della precarietà e della dissoluzione (laddove la temporalità meccanizzata del moderno, comprimendo lo spazio e la durata fin quasi a farli implodere, sembra dare, nel suo “immoto andare” che è in realtà, dice ancora Montale, “delirio d'immobilità”, un'artificiosa, surrogata illusione di perenne e d'eterno).
Elisabetta Brizio
giovedì 15 gennaio 2009
Mon âme est une infante en robe de parade. Fondamenti del crepuscolarismo in Sergio Corazzini
Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.
Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.
Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:
Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”
(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).
Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.
La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:
Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo
(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);
dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.
Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange
(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),
e Palazzeschi:
Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia
(Chi sono?, in Poemi),
e Moretti:
Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),
e Gozzano, esemplarmente:
Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!
(La Signorina Felicita, in I colloqui).
Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.
In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.
La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.
Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.
La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).
Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.
Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.
Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.
Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:
Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare
(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),
Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…
(Dopo, in Piccolo libro inutile),
Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze
(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);
l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:
non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare
(Il fanciullo, in Le aureole),
in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia
(Alla serenità, in Le aureole);
il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:
Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare
(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),
Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta
(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),
Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),
il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia
(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);
il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:
Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio
(Desolazione del povero poeta sentimentale);
l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:
Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli
(Amore e morte, in Poesie sparse),
dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti
(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),
l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie
(Sonetto d’autunno);
le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:
Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza
(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),
L’abbandono del nostro sole!
(Il ritorno, in Poesie sparse);
la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:
quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana
(Il ritorno);
il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:
Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro
(La morte di Tantalo),
stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…
(La villa antica, in Poesie sparse),
qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
(Toblack).
La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.
Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.
L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:
Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.
In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.
A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:
Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene
(Sonetto, in Le aureole).
In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:
E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?
Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.
Elisabetta Brizio
Macerata, ottobre 2008
NOTE
1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.