Di Adriano Padua, giovane poeta e massmediologo (già autore di raccolte come Frazioni, del 2007, e Le parole cadute, dell'anno successivo, e incluso da Erminia Passannanti nell'essenziale ed emblematica antologia Poesia del dissenso), ho il piacere di proporre qui alcuni testi in massima parte inediti (alcune extravaganti, si sarebbe detto un tempo, sebbene legate da una continuità e una coesione profonde), che mi sembra rappresentino un punto d'arrivo, il raggiungimento di un compiuto equilibrio espressivo e concettuale, pur senza nulla togliere alla magmatica fluidità, alla tumultuosa mutevolezza dell'esperienza esistenziale e della ricerca stilistica.
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)
il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da
tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente
nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria
regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera
nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre
dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze
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unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono
nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario
il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente
il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità
con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine
lo scarto che si situa nel momento
appena successivo
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A K.
(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)
Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole
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Amen
risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso
disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive
sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati
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Canto (febbrile)
la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione
e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia
le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde
da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano
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Roma- 15/08/2005
ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia
tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire
scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive
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dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza
la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene
si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio
qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina
oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno
ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni
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nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso
invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza
domenica 8 febbraio 2009
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