martedì 3 febbraio 2009

Elisabetta Brizio, "I sensi segreti della nebbia. Analisi della poesia 'Nebbia' di Giovanni Pascoli"

Come già si è detto, la provincia è, etimologicamente, pro-victa eppure longinqua, conquistata eppure lontana, vicina e remota, peculiare e metafisica, apparentemente conosciuta e posseduta quanto, in realtà, inquietante e sfuggente. Lo stesso si può dire dell'emblematico nido pascoliano (tanto spesso semplicisticamente irrigidito da letture critiche di stampo vuoi semiologico, vuoi psicanalitico): luogo certo domestico, tiepido, riparato, posto al sicuro dalle incertezze, dai traumi dell'esistenza con le sue feroci iniziazioni e le sue transizioni drammatiche, eppure, nello stesso tempo, esso stesso ambiguo, straniante, perturbante, denso di ombre, di ambiguità, di oscure e ferali seduzioni. La nebbia è la morte (bruma, cioè atmosfera e dimensione dei brotoi, dei mortali, simbolo, come mostra una celebre sequenza felliniana, della condizione per eccellenza ignota, oscura, enigmatica – ovvero dell'Ade, di ciò che per definizione non si può vedere e non si può conoscere).
E morte, ricettacoli e teatri del disfacimento sono anche la patria, la madre terra, la provincia - nella tragedia greca, epichorioi, patrii o indigeni sono gli uccelli che divoreranno, placata ormai ogni angustia, le spoglie delle Supplici eschilee, come in Sofocle saranno gli epichorioi, i provinciales, ad eleggere re, dopo la morte di Polibo, Edipo, indirettamente orientandolo, proprio nella sua forzosamente dimenticata o rimossa, e vanamente rifuggita, terra d'origine, verso la rivelazione che lo porterà alla rovina e all'accecamento.
Il Pascoli di Nebbia (Pascoli travagliato egli stesso dal conflitto edipico, dall'ambivalenza di attrazione e repulsione, di preservazione e distruzione, nei riguardi dell'origine, della matrice, del grembo) sembra, in questo senso, più discepolo di Carducci (del quale si sta ora via via rivelando, sulla scia del centenario, la segreta, profonda e misconosciuta modernità) di quanto non paia (penso a Nevicata, in cui affiora quel motivo, unito e duplice, del ritorno dei morti e del ritorno ai morti, dell'allontanamento e del ricongiungimento, del disfacimento che è anche reintegrazione all'origine, tanto presente nella tradizione poetica italiana da Pascoli a Montale, da Luzi a Sereni ad Orelli). Un Pascoli carducciano e, nel contempo, simbolista, insomma classico e moderno (la sua nebbia andrà forse accostata alla brume di Mallarmé - “Brouillard, montez! Versez vos cendres monotones.....” -, vista come solo, per quanto opprimente, schermo dall'angoscia della vita, dall'appello insistito e spietato che all'io rivolgono la luce, l'aria, l'azzurro).
Anche in Italy (il poemetto caro a Contini, che vi vedeva l'archetipo di tanto espressionistico plurilinguismo novecentesco) la terra (la nazione così come la “piccola patria”, la patria interiore e sperduta, del paese d'origine) è sfera da cui si proviene, da cui si viene gettati e insieme a cui si torna, per morire o per vegliare la morte - mentre la patria degli emigranti è il cielo, la sterminata “patria degli orfani”.
Uniti nel segno della morte, i due abissi si chiamano – il cielo è eco e specchio della terra, e viceversa - e all'uno come all'altra fa da risonanza il mallarmeano “plafond silencieux”, la voce muta del vuoto e del deserto.
Non lontana da questa visione sembra la lettura della Brizio, che pare rivisitare il simbolo (o l'emblema, o forse il “mito personale”) pascoliano del nido alla luce dell'estrosa, vivace, mobile (e perciò irriducibile a schemi, scuole, protocolli, e di conseguenza sostanzialmente dimenticata), semantica letteraria di Alvaro Valentini. (M. V.)



Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre

Eugenio Montale




In uno dei suoi saggi leopardiani1 Pascoli parlava, a proposito del poeta recanatese, di una eccessiva indefinitezza, di un “errore di indeterminatezza”, quasi come un limite non solo estetico della sua poetica. Un eccesso che sconfina nel falso e che condurrà Leopardi, per fare l’esempio più clamoroso, ad accomunare “rose e viole”, peraltro dopo aver semplificato tutti i fiori a rose e viole, facendo così astrazione dal particolare a favore di segni convenzionali per esprimere - pur nella loro genericità - sinteticamente e incisivamente una intuizione originaria generatrice. “L’aurea mediocritas dello stile pascoliano - scrive Edoardo Sanguineti - esige infatti in primo luogo il rifiuto della tradizionale promozione indiscriminata di ogni realtà al livello del sublime superiore”.2
Nondimeno, se Pascoli muoveva a Leopardi l’”accusa” di una impoetica indeterminatezza, è anche vero che i suoi versi paiono costantemente attraversati da echi, risonanze nascoste e sconosciute, vibrazioni indefinibili, espressioni allusive volte non solo a risignificare l’altrimenti inesprimibile vertigine cosmica, quanto la stessa instabilità del vivere e a disvelare una tonalità emotiva trascorrente e sfumata. Attraverso parole esatte eppure stranianti, sospese e indugianti, veicolanti l’appena percepibile dell’infinito mistero che avvolge la dimensione dell’esistere, per scrivere il quale è necessaria una forma poetica nuova, intessuta di accostamenti analogici e arcani, inediti e inauditi. Come Pascoli nel proprio linguaggio poetico abbia soppresso il confine tra determinato e indeterminato, tra la grammaticalità della lingua e la sua evocatività, è stato dimostrato da Gianfranco Contini nel suo magistrale studio sul linguaggio poetico pascoliano3. Nel quale il critico indica come talora una eccessiva precisione nomenclatoria sia solo apparente e al contrario sottenda una intenzione sostanzialmente evocativa, insinuante e sfuggente. In Pascoli determinatezza e indeterminatezza costituiscono i due estremi di una perpetua oscillazione e procedono dunque dialetticamente.
L’immagine-figura della nebbia - tra le più iterate lungo i versi pascoliani - è per definizione qualcosa di indefinito che ottunde l’anima e le cose, è intrasparenza e opacità, metaforico nascondere, annullamento dei contrasti; abolizione, nella misura in cui cela la distanza, e insieme - per la pascoliana volontà di distanziarsi - accentuazione della incomunicabilità del poeta con il mondo esterno.
In Nebbia l’evento atmosferico diventa simbolo di un dettato poetico che vuole significare ulteriormente, in una alternanza o invisibile legame tra determinatezza e indeterminatezza. La nebbia separa il poeta dal mondo, difende il suo “nido”, il quale a sua volta preserva il poeta dalla minaccia dell’ignoto. Pone una barriera, un margine materiale a una visibilità diretta e senza interposizioni, permette al poeta di vedere solo il proprio chiuso e rassicurante ambito familiare. Ma la nebbia si situa anche in una prospettiva temporale, come elemento che potrebbe assecondare il disperdersi dei ricordi di morte che affliggono e insieme continuano a sedurre il poeta, la cui vocazione di morte rientra nello spirito della simbologia del nido, onnipervasiva della poesia pascoliana.
Se la predisposizione simbolista di Pascoli può apparire di carattere onirico e, come tale, esprimersi in un linguaggio essenzialmente antinaturalistico (anche se in apparenza ipernaturalistico), nondimeno, per il freno esercitato dalla tradizione, Pascoli mette in opera una sperimentazione sotterranea e - scrive Elio Gioanola - “seppellisce le pulsioni profonde sotto cumuli di letterarietà (…). Ma proprio per questo sforzo di continua rimozione il suo simbolismo risulta tanto più profondo e significativo”.4
In questa pascoliana aspirazione a sottrarsi sia all’incertezza del futuro sia alla vita da vivere nel presente, sia - ma con evidente intenzione antifrastica - a voler vedere annebbiato il tempo dell’abbandono, quello dei propri morti - che peraltro vanno ben oltre la loro condizione di esseri dell’altro mondo -, la nebbia svolge la duplice funzione di creare il silenzio intorno alla memoria, di interrompere quella incessante corrispondenza con le figure del passato defunto e irrevocabile. E di circoscrivere l’orizzonte del proprio mondo. La dimensione della siepe - che non apre, leopardianamente, ma al contrario chiude, delimita - e dell’orto domestico, emblemi anch’essi di morte e di separatezza, equivale al pascoliano rifiuto della coscienza storica e al suo sogno di annullamento nel regno delle ombre, in una dimenticanza piena di ricordi, in un assorto evitamento dei presupposti stessi del desiderare.
In Nebbia - e in Pascoli - questa volontà di distanziazione pare essere incoerente, o quantomeno ambivalente: all’invocazione alla nebbia perché nasconda “le cose lontane” per una possibile apertura verso la vita si affianca la volontà del poeta a non oltrepassare la siepe, a non amare, a non andare, “a respingere la tentazione di andarsene, di patire un sentimento come rapporto”, come nota Giorgio Bàrberi Squarotti5. E nella sua incapacità di vivere al poeta non resta che la frequentazione esclusiva della morte come portatrice di oblio: l’unico suo progetto è quello di un immemore abitare entrambi i regni.
In Nebbia la dimensione dello spazio oscilla tra lontananza e vicinanza. Il desiderio di lontananza sorge sullo sgomento di fronte all'ignoto e alle minacce del mondo esterno. Ma lontananza è soprattutto quella dei ricordi che la nebbia dovrebbe adombrare, delle cose che andrebbero dimenticate in quanto ancora traumatizzanti, e soprattutto nella misura in cui inducono il poeta a uscire dal nido, lo spingono ad amare e ad andare, vale a dire a vivere la propria vita. Ma i morti pascoliani trattengono in sé le peculiarità sia della vita che della morte, assicurano e tutelano la perpetuità del proprio legame con i vivi. E sebbene gli dicano di andare e di amare la loro imprescindibile presenzialità trattiene e trascina il poeta nel loro enigmatico oltremondo. E non a caso - scrive Giorgio Agamben - “nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”6.
La vicinanza spaziale è definita da esatti ed essenziali punti di riferimento: la siepe che circoscrive, il muro che delimita e rassicura (e non, montalianamente, quale tragico diaframma che separa il fenomeno dal noumeno), due peschi, due meli, una bianca strada e un cipresso, l’orto e il cane, figura estremamente ambigua, ma alla lettera rasserenante in quanto simbolo della fedeltà. Un mondo ristretto e protetto, quello vicino, isolato da quello lontano dal muro di una nebbia che in un altro senso opera metaforicamente come il muro montaliano, limite a una conoscenza essenziale delle cose e metafisico emblema dell’umano errare “seguitando una muraglia” - impedimento non oltrepassabile - aggirandosi intorno alle cose e non poter andare più in là. L’esistenza è mistero, l’uomo è incapace di accedere a una visione d’assoluto al di là della dimora dell’effimero, perché le cose sono circondate da una spessa nebbia - o separate da un invalicabile muro - che uno sguardo umano non è in grado di travalicare. Già l’aggettivo “impalpabile” ci suggerisce l’idea della impenetrabilità delle cose e della loro evanescenza e infigurabilità.
Ma rileggiamo il testo:


Nascondi le cose lontane
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura c’ha piene le crepe
di valeriane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che voglion ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.


Alla nebbia viene affidato il compito di adombrare le cose esteriori (nello spazio) e quelle interiori (nel tempo). Esterno (il mondo, ma anche i ricordi del poeta) e interno (l’orto, il nido, la sfera del ricordo) sono in antitesi, ma alla fine convergeranno in una visione unitaria. Il ritmo del testo viene scandito da novenari interrotti al quarto verso dal trisillabo e al sesto da un senario; il primo verso si ripete in ogni strofe, rimando con l’ultimo. Le scelte metriche contribuiscono alla definizione di un ritmo spezzato, rapsodico. Ma le ripetizioni, l’alternanza delle rime, le radici interne, le figure etimologiche (“involale al volo”, “cipresso-presso”) restituiscono al testo una maggiore fluidità. Il verbo “nascondere” - che variamente declinato (“nascondi”, “nascondimi”, “nascondile”) attraversa tutte le strofe - nel primo verso potrebbe essere inteso all’indicativo presente: come a descrivere un banale evento meteorologico. Ma già nella seconda strofe si precisa come imperativo. Analogamente, si ripete dalla seconda all’ultima strofe l’espressione “ch’io veda”, di senso contrario rispetto a “nascondi”.
Pascoli rivolge la propria invocazione-preghiera-imperativo (con leggerissima anafora: “tu nebbia”, “tu fumo”) alla nebbia perché spezzi il legame con il rifugio nel proprio lutto non ancora estinto. Con l’espressione “cose lontane”, si diceva, il senso di lontananza nel corso del testo verrà a configurarsi come lontananza nel tempo. La nebbia sembra succedere ad arcane tempeste nel cielo notturno, possibile allusione alla violenza del mondo esterno; ovvero, al proprio doloroso passato che ancora si riversa - alla maniera di un franare, di un rovinare - sulla attuale sfera emotiva del poeta. La nebbia dovrebbe estraniare la memoria, dissolverla in una condizione di indistinzione, allontanare quelle tracce incancellabili che i morti lasciano nei vivi. Dovrebbe nascondere l’assenza di speranza di uno sguardo disilluso sul mondo indifferente e crudele, affinché resti solo visibile “la siepe dell’orto”, altro limite fisico che circoscrive ulteriormente lo spazio - nonché il tempo - in un microcosmo familiare e rassicurante. La nebbia è chiamata a occultare le cose “ebbre di pianto”, laddove se “ebbro” designa lo stordimento del dolore, allude anche a una sorta di voluttà, a un indulgere alla propria desolazione - una voluptas dolendi - con la quale Pascoli ha per lunghi anni educato in sé quel dolore. Il poeta vuol vedere - in ossimoro con “nascondi” - solo il muro di cinta dell’orto pieno di “crepe“ (allusione alle insanabili lesioni della vita) e “i due peschi, i due meli” e quel mondo chiuso che è il proprio rifugio dall’esterno, oltre che immagine della continuità della vita familiare.
La referenzialità della rappresentazione dell’orto è indebolita dalle implicazioni allusive che tale descrizione contiene. Pascoli nomina con esattezza gli aspetti concreti quotidiani e della natura quasi per afferrarsi a essi; e la determinatezza pascoliana - quel suo misticismo oggettivistico - talora tradisce un bisogno di eludere l’ossessiva immagine del mistero delle cose, come se nominarle esattamente - e qui anche numerarle reiteratamente - equivalga a padroneggiarle.
La nebbia deve nascondere quelle cose lontane “che voglion ch’ami e che vada”: se da un lato Pascoli respinge il richiamo della vita e del desiderio, dall’altro sono le stesse “cose lontane”, vale a dire l’attrazione verso il passato, che lo trascinano a sé perché, come s’è accennato, i morti pascoliani continuano pur in absentia a partecipare ancora - in una sorta di dimensione orfica - al proseguire della vita dei vivi, a far sentire, in un “ossessivo e accanito sentimento di possesso ancora sulle cose e sulle persone, la loro angosciante vigilanza sui vivi”7,
L’universo del poeta si restringe ulteriormente e si avvia verso la propria estrema limitazione, introdotta dall’aspirazione a vedere - e a voler percorrere - “solo quel bianco di strada”, l’invocato itinerario dell’anima verso la sepoltura, vale a dire il ristabilirsi del nido. Dirà poi Montale, in quel memorabile ossimoro - peraltro riferendosi al senso del tempo storico: “e persistenza è solo l’estinzione”.
La nebbia deve nascondere, estromettere dal desiderio (nell’accostamento paronomastico “involale al volo del cuore”) che vorrebbe rivolgersi, voltarsi verso di esse, le angosce del passato lontano. Deve allontanare dal poeta ogni tentazione di vivere la vita. L’attesa della morte come occasione per ricongiungersi ai propri familiari e la vocazione di morte che ispira tutto il testo sono oggettivati nella descrizione di un paesaggio che - scrive Mario Tropea - “senza perdere l’aspetto concreto (…) assume il volto ambivalente di attrazione e annientamento in cui si iscrivono i particolari allusivi“.8 L’avverbio “qui” viene posto in relazione con l’immediatamente precedente “là”; il quale sembrerebbe contraddire l’iniziale aspirazione del poeta a vedere nella nebbia solo una occasione per un rasserenante nascondimento, ma che invece si configura come l’esito estremo del percorso testuale e spirituale pascoliano. La regressione pascoliana non è avvertita in maniera del tutto fallimentare: da un lato esiste una corrispondenza tra il suo io attuale e quello defunto insieme alle cose che furono, ma dall’altro si insinua in lui l’inquietante consapevolezza che in questa tendenza regressiva è insita la coscienza della propria incapacità di esistere individualmente. Tutto il componimento gravita intorno a questa opposizione irredimibile tra passato e presente, vista anche la ricorsività di parole che evocano il senso della separatezza (“siepe”, “mura”, “soltanto”, “solo”, parola chiave, quest’ultima, almeno nella quinta strofe), e, di conseguenza, un sentimento di esclusione.
“Nebbia”, dunque, idealmente situata tra lo spazio vicino e quello lontano nel tempo - in una lontananza che vuole essere prossimità -, nella duplice veste spaziale di confine naturale a una visibilità dispiegata, e temporale come reificazione di un tempo a cui è delegato il compito di ottundere la memoria di un passato che comunque ancora e imperiosamente attrae il poeta verso di sé. “Nebbia” come desiderio di ritrarsi in “una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta”9. Un hic et nunc celato, segnato da un desiderio di dissolversi, di dileguare, di ricongiungersi al nido. L’idea della stanchezza, del sonno e della morte sono intimamente legate e variamente oggettivate: nell’onomatopeico “stanco don don di campane”, nell’immagine del cimitero e del cane funebre che esausto “sonnecchia” nell’orto. Quasi la dimensione della morte - consustanziale all’idea stessa del ritorno - fosse essa stessa una presenza rassicurante come quella dell’orto e del cane; o più verosimilmente, rappresenta l’eterno motivo del ritorno alla madre.
La morte in Pascoli non è antitetica alla vita ma il modo d’essere della vita, vale a dire, in una caratterizzazione orfica, dimora nella vita stessa. Vivere per Pascoli è ritornare e regredire, procedere verso un nulla che qui non ha la portata cosmica del foscoliano “nulla eterno” ma che - nel suo qualificarsi come anteriorità - contiene le immagini delle persone amate (altrove oggettivate nel simbolo della “culla” o nella rima tematica “culla-nulla”) e - temporaneamente - perdute. Come espresso nei Conviviali, in quel canto di morte dal titolo L’amore10, l’amore non si può rinnovare. Ed è il rimpianto che fa la poesia.




Elisabetta Brizio



1)Il sabato, in Prose, I, Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946.
2)E. Sanguineti, Attraverso i Poemetti pascoliani, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 23.
3)G. Contini, Il linguaggio del Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
4)E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, in Storia del Novecento in Italia, SEI, Torino 1975, p. 11.
5)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, “Lettere italiane”, 3, 1963, p. 286 sgg.
6) G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, introduzione a Il fanciullino, Feltrinelli, Milano 1982, p. 56, nota.
7)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, cit.
8)M. Tropea, Giovanni Pascoli, in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza, Roma-Bari 1978, p 47, nota.
9) E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, cit., p. 13.
10) L’ultimo viaggio, XVIII.

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