Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.
Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.
Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.
Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.
Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.
Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.
Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).
*
Senza solchi
Senza divisioni, senza spaccature
infinite. Un mondo finalmente
senza solchi.
Se non quelli che tocchi
sulla pelle, fra le rughe.
*
A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano
Dormi
e sogna le cose
che possono raccontarti i tuoi sogni
o il cielo dentro i miei occhi.
Dormi
fra le nuvole delle mie parole
e raccontale ancora agli angoli
bagnati dal mare, alle mani
che ti stringeranno, ai giorni nuovi
quando, senza saperlo prima, conoscerai
la vita
e sarai finalmente grande,
un pezzo di sale e di aria
che gira e batte col mondo.
*
Nubi ad agosto (A M.)
Si accavallano basse le nubi
sulla tua casa,
sul giardino che aprivi con fatica
ostinata nella sabbia, mettendo
palme, iris, siepi di oleandro,
e fra le rocce
piante grasse o più comuni.
Chissà se adesso guardi questo piccolo
universo che continua il suo corso
senza di te nel liquido andare
delle stagioni.
Chissà
con che animo lo fai, se ancora
curvi sulla schiena i capelli biondi
e selvaggi, e hai la gioia
di vedere il verde di una macchia
quasi mediterranea
persino qui,
sulle rive che tocca l’Adriatico.
La tua sfida era anche col vento freddo
da nord-est, con le gelate ricorrenti
e un clima avverso:
ma da lontano posso dirti
che l’hai vinta,
che resiste il tuo giardino
sulla via che attraversa tutto il paese,
arrivando ora fino al porto,
alle radici dell’acqua.
In questo pomeriggio
un libeccio sgarbato, sai,
batte e confonde gli uomini e le cose,
li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,
si increspano
già le onde e le prime foglie cadute
si rincorrono o si perdono nell’aria.
Ma non basta:
vado fra le case e il tempo,
vedo qui e dentro,
e così da questa terra
che si è aperta come il tuo giardino
chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.
*
Col rosso si fermano
Mi hanno già ucciso,
anche se non hanno
usato cemento o pallottole.
Non hanno spostato un capello.
Ma i morti
oggi respirano, col rosso si fermano,
vanno al supermercato, leggono,
leggono libri e giornali.
E dentro le stanze,
non c’è un momento preciso,
la tastiera si invola,
scava ombre e lettere, un movimento
a sfumare,
un gesto in marcia
verso un crinale sempre più parallelo,
dipinto, senza tunnel, senza
crune.
Io sono il filo
che non passa,
il sangue deviato
come acqua sulle antiche pianure,
sulle dune,
sono nel vuoto
del tempo che passa sul video,
puoi toccarmi
con le dita se le accosti alla luce,
puoi vedermi, sentirmi per ore,
non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,
sono un uomo e un dio trasparente,
un’immagine
che corre dentro le case,
infila i tuoi pensieri,
è un fascio di notte radente.
(Per ogni angelo che cammina
coperto di luce e fuliggine)
*
Senza partire
Le cose hanno sempre
un loro sapore,
se le avvicini alle parole
vivono però un altro tempo,
hanno un altro passo,
come la nave che solca
leggera il canale, punta
di uomini e speranze
che taglia senza disordine
il porto, rondine
rovesciata dal cielo,
bolla di sottile armonia.
Ora passi anche tu,
il tuo vivere
fra giorni che nascondono
queste rive, questa
memoria che ti riporta
improvvisamente qui,
parlavamo sulle cose
che dopo rimangono,
qui, senza partire.
*
Nel fondo aperto degli occhi
Ti ho lasciato con un segno della mano,
che andassi avanti, senza fermarti
quaggiù dove le strade sono giorni
e i sogni a stormi vanno veloci
come aerei alti sopra le città,
piccole mappe ormai,
cerchi ripetuti di ombre e pietre.
Non ho mai pensato a un tuo ritorno,
nemmeno per lo spazio
lungo un dito
che ora mi separa dal pensarti.
Nemmeno al limite delle case, un battito
prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.
Ma sulle rive battute dalle gru
e dal tormento
l’onda di luce che il faro a Marina
scaglia tutte le notti a pescare nel cielo
sorprende un vento nuovo
umano e non umano.
E la sera tardi adesso
mi sporgo spesso
dall’universo stretto della mia stanza,
vedo le case, nuvole e fumo in aria,
e lampi, lampi di auto o baionette.
Così,
grande Padre, figlio abbandonato,
chiodo arrugginito e cercato,
vieni
dentro le ore colate come vernici
e diventi preghiera
nel fondo aperto degli occhi.
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