venerdì 16 gennaio 2009

LA PROVINCIA, RILKE E LO SPAZIO DELLA LONTANANZA

Una certa “lontananza” riesce ad emancipare lo scrittore dall’effimero e dalla tentazione della letteratura mercificata. Quanti scrittori metropolitani di successo vale veramente la pena di leggere?

La provincia potrà essere anche una occasione di fuga o di rifugio, ma soprattutto costituisce lo spazio ideale per un possibile impegno, per una visione più autentica delle cose. Tanto che spesso si parla di uno sguardo “distaccato” e “a distanza” per alludere a una maggiore attitudine a vedere quello che il caotico centro impedisce di vedere, o impone di non vedere. Per percepire adeguatamente le cose nel tempo è necessario che questo tempo abbia un senso.

La provincia culturale conserva inoltre una propria peculiare identità: lo scrittore pare essere più originale, più assorto, più se stesso nella propria riflessione - “quieta”, “defilata” e “indugiante”, come è stato già detto in queste colonne. Neppure la globalizzazione riuscirà a sopprimere la provincia letteraria: un lettore virtuale attento sa distinguere la qualità delle proposte a prescindere dall’intervento del potere editoriale.

Il destino del libro nell’epoca del sans papier - il cui spazio è “l’immaterialità”, la “fluida e liquida impermanenza dello spazio virtuale” - è paragonabile, precisamente, all’“anticamera” di una dissoluzione che costituisce lo statuto stesso della poesia. È la provincia che assiste a questa morte nella vita, a questa montaliana “morte che vive”, e alla provincia “si torna” per poter intravedere infine un al di là delle pseudocertezze o delle visioni che assolutizzano – o al contrario stigmatizzano - il caos, per rinvenire un senso ultimo e autentico.

Perché, come dice Rilke, malgrado tutte le esperienze rassicuranti e le illusioni della nostra vita, al proprio destino, a quello che venne prima di noi, non si sfugge. Un destino che, per l'artista, come si legge nelle Elegie di Duino (nate lontano dal cuore tentacolare di Parigi, fra la pace di Duino e quella di Muzot), sta nel rivelare alle “cose che non sanno la morte” - e attraverso di esse, per via di proiezione simbolica, agli uomini - il loro destino ultimo, la verità semplice e tremenda della precarietà e della dissoluzione (laddove la temporalità meccanizzata del moderno, comprimendo lo spazio e la durata fin quasi a farli implodere, sembra dare, nel suo “immoto andare” che è in realtà, dice ancora Montale, “delirio d'immobilità”, un'artificiosa, surrogata illusione di perenne e d'eterno).


Elisabetta Brizio

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