Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
Johannes Brahms1
“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.
Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.
Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:
Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”
(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).
Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.
La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:
Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo
(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);
dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.
Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange
(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),
e Palazzeschi:
Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia
(Chi sono?, in Poemi),
e Moretti:
Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),
e Gozzano, esemplarmente:
Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!
(La Signorina Felicita, in I colloqui).
Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.
In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.
La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.
Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.
La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).
Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.
Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.
Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.
Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:
Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare
(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),
Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…
(Dopo, in Piccolo libro inutile),
Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze
(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);
l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:
non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare
(Il fanciullo, in Le aureole),
in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia
(Alla serenità, in Le aureole);
il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:
Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare
(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),
Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta
(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),
Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),
il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia
(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);
il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:
Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio
(Desolazione del povero poeta sentimentale);
l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:
Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli
(Amore e morte, in Poesie sparse),
dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti
(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),
l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie
(Sonetto d’autunno);
le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:
Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza
(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),
L’abbandono del nostro sole!
(Il ritorno, in Poesie sparse);
la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:
quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana
(Il ritorno);
il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:
Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro
(La morte di Tantalo),
stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…
(La villa antica, in Poesie sparse),
qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
(Toblack).
La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.
Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.
L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:
Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.
In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.
A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:
Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene
(Sonetto, in Le aureole).
In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:
E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?
Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.
Elisabetta Brizio
Macerata, ottobre 2008
NOTE
1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.
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