domenica 14 dicembre 2025

Una poesia inedita di Paolo Ruffilli


(immagine generata da IA)


L’interrogativo si pone “in limine” come un epifonema senza possibilità di replica e che piuttosto induce a sondare la sostanza oscura della nostra presenza al mondo. Il tono, pur nella sua misura, tradisce un dato preesistente e non scelto, una tristezza ereditata, un’ombra genetica che incombe sull’orizzonte dell’io.

La “tristezza improvvisa”, descritta con il “passo suo felpato”, assomiglia a una forza quasi tattile che irrompe nella temporalità del soggetto incrinando il suo già fragile “stato d’abbandono” – forse l’abbandono all’innocenza o alla noncuranza del tempo. L’immediatezza del suo insorgere ricorda quegli istanti di rivelazione in cui la realtà risale dall’inconscio sullo schermo non contaminato della coscienza, come un’amarezza che si deposita sulle più innocenti gioie, pregiudicandole. Chi di noi non lo ha sperimentato?

E il vero dramma è il timore di una follia al momento quiescente “all’angolo / del giorno col suo spettro disperato”. Questa latenza di una minaccia pur sempre possibile rende la coscienza un coacervo di sentimenti discordi dove il soggetto non è padrone di casa, ma un ospite che si smarrisce nella percezione di “andare camminando alla deriva”. Si delinea qui la poetica ruffilliana dell’unità dei contrari: il darsi insieme di due stati – il piacere e il terrore, la coscienza e lo smarrimento – che svincolandosi dalla rete raziocinante imprimono allo sguardo la significante distorsione della realtà incoerente.

(Elisabetta Brizio)

Che dire mai della malinconia
che ereditiamo dai nostri genitori,
la tristezza improvvisa che arriva
inaspettata col passo suo felpato
ad incrinare lo stato d’abbandono
amareggiando i più innocenti
piaceri della vita, fino a temere
la follia che dorme all’angolo
del giorno col suo spettro disperato
nella coscienza ripresa poi smarrita
di andare camminando alla deriva.

(Paolo Ruffilli

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