venerdì 16 gennaio 2009

La serpe nel cristallo. Su "L'idea fissa" di Paul Valéry

(articolo apparso a stampa su "Poesia", XXII, n. 234, gennaio 2009, p. 67)


L'”idea fissa” a cui Valéry intitolava questo immaginario, pacato dialogo (intrecciato sulla riva del mare, con un medico a fare da fittizio interlocutore) è un pensiero assiduo e iterato, un inesauribile rovello intellettuale e conoscitivo (simile, per usare un'immagine cara all'autore, alla coquille dalle molteplici, intorte volute) che tornando ripetutamente su se stesso finisce quasi per logorare e disgregare il soggetto e la coscienza, e a dissolversi, espressamente (come in Cioran e in Camus, ma con un razionale e classico equilibrio a frenare la deriva nichilistica), nell'assurdo: un assurdo sempre in agguato, che sembra essere diluito ed esorcizzato dal “tempo infinito” che il mare, con il suo assiduo moto, instancabilmente “produce e produce” (e si ricordi, qui, la bergsoniana “mer toujours récommencée” del Cimetière marin, il cui sciabordio sommesso e persistente si farà sentire anche in Montale).

Con il suo implexe (la sua tensione raccolta e concentrata, il suo abbraccio che avvolge se stesso) e la sua omnivalence, la sua apertura volta ad afferrare il tutto (a far proprio ed esprimere, si direbbe, l'Unomnia, l'Uno-Tutto, dei neoplatonici), il pensiero razionale ed immaginoso, argomentativo e insieme metaforico e poetico, di Valéry si protende fino al ciel-seuil, al cielo-soglia, al limite estremo dell'Ignoto in cui già era naufragata, nel suo désastre obscur, la parola del maestro Mallarmé.

Ma, infine, di analogia in analogia, di somiglianza in somiglianza, con una sorta di mise en abyme affine a quella dell'amico Gide, il pensiero poetante arriva ad un fondamento primo che è (quasi come negli esistenzialisti o, ancora, in Mallarmé, ma entro una sorta di spazio limpido, lucido, chiuso ad ogni tragica irrazionalità) Vide, Néant, abisso, assenza di fondamento.
Il fondo di tutte le cose non somiglia a nulla, è solo se stesso, chiuso nella sua individualità ineffabile; e, allora, “tutte le similitudini svaniscono”, ogni dire e ogni canto tendono alla condizione del silenzio.

Questa piccola e squisita edizione adelphiana è impreziosita dalla traduzione e dalla postfazione di Valerio Magrelli, che in veste sia di critico che di poeta ha già lungamente meditato sul movimento esistenziale e gnoseologico del soggetto che si specchia, si riflette, si ridona a se stesso (come un revenant, immagine replicata ma anche simulacro, larva, fantasma) attraverso il multiforme cristallo della parola, fino a scorporarsi e dissolversi in puro sguardo, a divenire null'altro che visione disincarnata, assoluta (quasi come la “pura visione” di Plotino). Non per nulla (come lo stesso Magrelli rammentava altrove), il Valéry pensatore aurorale e chiaroveggente dei Cahiers sognava di potersi “spogliare di tutto, fuori che dello sguardo”, cioè della facoltà più pura e limpida, più teoretica ed incorporea, che sia data alla sensibilità ed al pensiero.

In questa occasione, il poeta-critico di Vedersi vedersi e di Ora serrata retinae ravvisa in Valéry un esempio di quell'eclisse della figura e dell'oggetto che contraddistingue la modernità più intellettuale e rarefatta.

Lo stile della versione riesce a restituire, con naturalezza, quella quasi miracolosa commistione di illuministica clarté e analogismo barocco e simbolista che pervade la prosa di Valéry. E – si direbbe – Magrelli consegue quest'arduo risultato facendosi, in certo modo, da parte, mettendo fenomenologicamente (e dunque in modo voluto e studiato) “fra parentesi” ogni invadenza e ogni possibile arbitrio dell'individualità interpretante: eclissando, quasi, anche se stesso nello svanire delle similitudini e delle figurazioni, per far parlare (per fare, direbbe Blanchot, risuonare) il testo con la sua voce definitiva e pura – parificata, per citare Mallarmé, “au silence égal”.

La più felice chiave di lettura dell'opera è forse offerta dai versi di Góngora evocati da Valéry in esergo (si tratta, per la precisione, dell'esordio della Toma de Larache: “En roscas de cristal serpiente breve”). Il pensiero e la scrittura sono un fiume-serpente come quello inseguito dalla parola immaginosa del poeta secentesco, che avanza dibattendosi e torcendosi su se stesso fino a dissolversi nell'Oceano dell'assoluto o, forse, del nulla (nella “pureté du non-être” di cui il poeta francese parla, appunto, nell'Ébauche d'un serpent). La parola e il pensiero sembrano infine regredire verso il Nulla originario, pur disperatamente schermato e rimosso – verso la regione oscura, remota, preconscia (anch'essa ostinatamente rigettata dalla razionalità creatrice insita nel moderno “classicismo” di Valéry) giacente e dimorante, come dice il nostro dialogo, prima del linguaggio, prima del Verbo (e dunque, evangelicamente, prima del “Principio”).


Matteo Veronesi

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