È strano il
destino di certi poeti: inattaccabili in vita, diventano nemici
pubblici dopo la loro dipartita, e ridotti a semplici nomi. Peggio
ancora è quando un nome viene associato ad una certa idea di poesia
da evitare a tutti i costi, spesso senza altra giustificazione che
una presunta difficoltà.
Resta da dimostrare, credo, quale abisso insormontabile
sia possibile scavare tra un poeta che usa una certa lingua e i
lettori che comprendono anch'essi, ed ugualmente usano, quella stessa
lingua.
E'
il caso di Quasimodo, che ormai corre il rischio di essere bandito
perfino dalle trite antologie scolastiche perché troppo oscuro.
Quando sono stati resi noti gli argomenti dei temi alla maturità di
quest'anno, e si è letto il nome di Quasimodo e il titolo della sua
Ride la gazza, nera sugli aranci,
si è gridato alla blasfemia anche da parte di illustri
rappresentanti del mondo letterario. Testimonianza del ritardo
culturale della scuola italiana, è stata questa l'accusa più lieve;
e la soluzione avanzata per superare queste pecche decennali è stato
proporre di aprire il cosiddetto canone ad
autori ben più meritevoli come Sereni, Zanzotto, Caproni, Luzi.
Insomma, la poesia dovrebbe scendere dal piedistallo e tornare ad
essere alla portata di tutti, altrimenti i giovani se ne
allontaneranno.
L'unica
risposta che mi sento di dare è questa: che se ne allontanino pure,
perché se lo faranno significa che sono indegni della poesia.
Bisogna mettersi in mente che la poesia non è il calcio, non le
servono tifosi che paghino l'abbonamento, non le servono grandi arene
dove mettere in scena ridicole farse. Le servono testi validi, e
questi mancheranno finché i poeti perderanno tempo a crearsi un
personaggio all'altezza delle aspettative del pubblico (una volta una
signora si è detta contenta di un gagliardo giovanotto perché
finalmente, nel mondo della poesia italiana, c'era anche un bel
ragazzo). Ma sono i testi che possono attrarre i più giovani, e un
pubblico interessato, i testi e niente altro. Non deve passare l'idea
che alcuni poeti siano più di moda di altri: è una stupidaggine, e
se ci credessimo dovremmo bruciare tutte le copie della Divina
Commedia, del Canzoniere
del Petrarca e dei Canti
di Leopardi.
Altro grosso errore, questo ben più grave e in qualche
maniera più pericoloso, è la fede nel giudizio di alcuni cosiddetti
intellettuali che si credono investiti di un ruolo che nessuno ha
loro conferito: essi pensano di poter dire alla gente chi leggere e
chi no, quali poeti e quali no, decidendo per tutti. Siamo davanti al
germe di una dittatura letteraria.
Così sta accadendo per Quasimodo. Sento da più parti
che il siciliano è accusato di fare letteratura invece che poesia;
che mi pare proprio una distinzione inutile, questa sì legata a
preconcetti. Secondo quest'ottica, tutta la poesia antica non è
poesia, ma semplice scambio di informazioni letterarie, gioco
enigmatico di accenni per pochi eletti. Allora, perché la si legge
ancora oggi?
Ecco la colpa della poesia italiana odierna: essersi
abbassata, svilita, essere diventata prosa con la sola caratteristica
distintiva dell'andare a capo ogni tanto, e tutto questo solo per
venire incontro e piacere alla gente.
Chiedere ad un poeta di non fare letteratura, mentre fa
poesia, equivale a chiedere ad un prete di svolgere il suo ministero
senza credere in Dio.
È il
lettore, nella sua pochezza, che vorrebbe solo la polpa, di questo
frutto, senza il nocciolo e senza la buccia. Non vuole insomma
guadagnarsi nulla, tutto gli è dovuto. E chi critica Quasimodo parla
forse da lettore, prima che da letterato.
Non
capisco, a dire la verità, l'accanimento che molti dimostrano nei
confronti di questo poeta; gli rinfacciano il Nobel come immeritato,
ma su quante assegnazioni, almeno nel campo della letteratura, ci
sarebbe da ridire? Perché non rinfacciano la vittoria di Carducci,
che è poeta molto più ostico di Quasimodo, e dal loro punto di
vista molto più ''letterario''? Anche sull'indicazione di Zanzotto,
come papabile di entrare nel canone, ci sarebbe molto da ridire:
intitolare una raccolta di poesia IX Ecloghe
vuol dire fare letteratura; anzi, siamo
addirittura di fronte ad un iperletterarietà che pare non abbia
disturbato i sonni di nessuno (e senza voler parlare di certi altri
spaventosi testi di Zanzotto).
La poesia ''difficile'' non fa presa, perché spaventa
il lettore: gli mette davanti la sua scarsissima propensione alla
visione pura. Dunque scatta nel lettore un meccanismo di difesa che
assomiglia molto a quello che la volpe, nella favola di Esopo,
escogita per non perdere la faccia: dice che l'uva è acerba e non le
piace, così come il lettore scarta a priori un poeta.
La
pochezza del lettore non è un problema che debba riguardare il
poeta. Credo che Quasimodo l'abbia capito e abbia scelto di
proseguire sulla sua strada, elitaria, puramente lirica (di un
lirismo, oltre che di suono, anche e soprattutto di immagine); con
evidenti cadute, specie nelle liriche degli anni del conflitto, e
proprio quando più è sceso in
terra per venire incontro al pubblico.
Dicevamo
che il lettore è pigro e non vuole fare nessuno sforzo per
partecipare al processo di creazione. La difficoltà di un'immagine
può inficiare, prima ancora che l'uso di una lingua colta, la
ricezione di un testo. C'è un aneddoto, che riguarda la Recherche
di Marcel Proust, secondo il quale André Gide avrebbe rifiutato di
pubblicare Dalla parte di Swann
presso la Nouvelle Revue Française a
causa di una metafora che non comprese appieno perché troppo
difficile. Si tratta dell'episodio, raccontato nella prima parte,
capitolo secondo, in cui il Narratore al mattino soprende la prozia
Léonie ancora senza la sua parrucca, i cui capelli vengono
paragonati nell'ordine a vertebre, corona di spine e grani di
rosario.
Senza
scomodare troppo Proust (che per fortuna pubblicherà comunque il suo
capolavoro e farà completamente ricredere Gide), mi sembra chiaro
che il lettore può agire sul testo in un solo modo, e cioè
interpretando l'immagine che le parole concorrono a formare. Gli
manca del tutto, oggigiorno, la possibilità di agire sulle parole
(può solo leggerle, prestando la sua voce, ma non può letteralmente
cambiare una virgola); possibilità che veniva sfruttata appieno nel
medioevo, età in cui i testi erano molto più fluidi. A tal
proposito fa sorridere l'episodio, citato dal Sacchetti nel
Trecentonovelle,
CXIV, di Dante che litiga con un fabbro che, intento al lavoro, si
teneva compagnia cantando i versi del poeta, storpiandoli alla sua
maniera.
Il
lettore deve subire il dettato, la lectio.
L'interpretare l'immagine sottintende uno sforzo, una actio
che egli non vuole sobbarcarsi. Da qui il
suo essere restio nei confronti di poeti come Quasimodo, le cui
immagini ''nuove'' (ma nel senso che affondano talmente tanto
nell'immaginario antico) risultano estranee al gusto moderno.
E
infatti il suo apice lo troverà quando tradurrà i greci, con il
loro campionario di immagini lontanissime dal presente, e non quando
si allineerà agli altri, per lingua e temi, in Giorno
dopo giorno.
Nessuno ha però mosso critiche a Montale, perché la
sua lingua, per quanto ricca (e anche più letteraria di quella di
Quasimodo, almeno nella scelta del lessico), è rimasta di qua dalle
immagini che descriveva, non ha mai oltrepassato il confine. È
rimasto facilmente (più facilmente di Quasimodo) leggibile perché
la sua lingua non ha forgiato immagini nuove, difficili da
comprendere. Non ha taciuto: ha detto, descritto, ma non ha lasciato
al lettore il compito di completare l'abbozzo suggerito.
Ecco
un paio di esempi dagli Ossi,
presi da Quasi una fantasia,
nella sezione Movimenti:
Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse (vv. 1-4),
Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali (vv. 10-13).
I termini adoperati da Montale non sono quotidiani:
raggiornare, presentire, albore, frusto, listare, turgere, subissare.
È qualcos'altro che rende
digeribile anche una lingua come questa: l'immagine, semplice,
comune, alla portata di tutti. Nel primo esempio si dipinge un
risveglio, causato dalla luce del mattino che filtra dalle persiane;
nel secondo, il poeta si affaccia alla finestra spalancata sulla
città.
Ma
si legga questo verso da Falsetto:
La dubbia dimane non t'impaura (v. 22),
la
cui ascendenza leopardiana (La sera del dì
di festa, Il sabato
del villaggio), per il sentire e la pulizia
del dettato, non può sfuggire. Non è forse fare letteratura, citare
più o meno apertamente altri testi letterari? Di nuovo torniamo ad
avere a che fare con un'immagine chiara, comune, con cui tutti, più
o meno, hanno avuto o hanno a che fare. Si può ammettere che Montale
sia un poeta capace di risultare universale, un po' come Leopardi,
nei temi e nelle immagini; ma questo non significa affatto che
Quasimodo, avendo scelto una via più ardua, meno battuta, più
elitaria (e già Mallarmé considerava la poesia una cosa per
pochissimi), sia meno poeta del ligure. E' un modo diverso,
semplicemente, di intendere e realizzare la poesia.
Leggiamo
la tanto vituperata Ride la gazza, nera sugli
aranci (da Nuove
poesie, 1936-42):
Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.
Credo
che l'unico termine che uno studente mediamente colto debba andarsi a
cercare sul vocabolario sia forse zàgare,
e cioè i fiori degli agrumi (qui, verosimilmente, quelli
dell'arancio). Ma per quanto riguarda il livello iconico del testo,
siamo molto lontani da Montale: l'affastellamento degli elementi, che
sembrerebbero non avere legami tra loro, di chiara matrice
simbolista, imbroglia la ricezione e la fantasia del lettore. Egli
dovrà intendere pietà della sera non
come il sentimento cristiano, quanto come l'ufficio liturgico che si
svolge dopo i vespri (l'ultimo della giornata, insomma); da qui
scaturisce l'aggancio con l'immagine della notte e della luna, come
prima con quella dei bambini che giocano sul sagrato della chiesa. E
i ricordi (ombre
conservate nella memoria)
sospingono il poeta ad altre età, alla fanciullezza (che è forse un
richiamo universale allo stato adamitico, con l'immagine dei
fanciulli che dormono nudi), al paesaggio siciliano (l'insistenza
sull'acqua, sul mare, sulla vegetazione tipicamente insulare); che
guarda caso è il paesaggio di tradizione teocritea, anche se qui non
c'è nessun accenno diretto ad una radice letteraria ben definita.
Mentre Montale inizia un'immagine e la porta fino al suo
compimento, con un incedere lineare, leopardiano nel suo tenore
filosofico, Quasimodo sfalda l'immagine in immagini più piccole, che
poi rimonta creando echi che ad un lettore distratto diranno sempre
molto poco, a parte convincerlo che questa è poesia di difficile
lettura. Ma una logica interna sussiste anche nel collage che ne
risulta (ed è in fin dei conti la stessa tecnica che adoperano
Rimbaud e Mallarmé, altri due poeti tacciati di illeggibilità);
certo richiede, più che una preparazione letteraria vera e propria,
una sensibilità che è diventata qualità rara, specie nel lettore
moderno, distratto da troppo altre sirene.
E stupisce (o forse no?) che di questi tempi così
aperti, a parole, ad ogni forma di integrazione, ad un dialogo con
qualunque cultura, proprio nel mondo della poesia si innalzino muri
per ghettizzare un autore.
(Gabriele Marchetti)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.