I componimenti che ho il piacere di presentare, al di là del loro valore poetico, sono, si può dire, una forma di poetica in atto, di applicazione sperimentale di un'idea di lingua e di poesia; e non possono essere scissi dall'assiduo, audace quanto affascinante, lavoro di ricerca (http://www.magiedizioni.com/documenti/origine-idee-e-parole_1.pdf) che l'autore, neurologo, conduce da anni, a partire da osservazioni compiute sulle abissali ed epifaniche agnizioni provenienti dall'apparente vaniloquio (in realtà, forse, sapiente glossolalia?) degli alienati mentali, intorno al valore fonosimbolico primario, originario, universale proprio perché prerazionale, racchiuso nei suoni fondamentali (o meglio nei fonemi, nelle sostanze concettuali e psicologiche soggiacenti alle manifestazioni esteriori che si odono e si scrivono) che vanno a comporre, con un'ars combinatoria non sempre facile da razionalizzare, quelle baluginanti ed enigmatiche spie del profondo che sono le parole.
Si potrebbero citare le celebri Voyelles di Rimbaud, o magari le ricerche compiute da René Ghil nel mondo francofono, da Chlebnikov in Russia ‒ o, ancóra, da noi, i forse troppo dimenticati esperimenti di Guido Ballo alla ricerca di una poesia che trasformasse le consonanze e gli accostamenti etimologici in occasione, etimo e sorgente di creazione.
Ma, qui, la ricerca del valore fonosimbolico della parola non si traduce in indiscriminata autonomia del significante, o in cieco automatismo, o viceversa in cervellotica ricerca ad ogni costo dello scarto dalla norma e della distruzione del senso condiviso. Al contrario, la fusione di suono e senso, la motivazione, anche fonico-evocativa, della parola, cercano di superare l'arbitrarietà del segno linguistico, e di fare della parola poetica Verbo incarnato nel senso più pieno e più alto.
Le singole lettere hanno un preciso valore espressivo, o meglio una vasta e versicolore gamma di possibili sfumature, che vengono poste in luce dai loro accostamenti e dalle loro interazioni.
Non è casuale che, nella tessitura fonica dei testi di Rizzini, paia prevalere la R, suono che evoca, secondo gli studi dell'autore, la “ripetizione infinita”, la tessitura del tempo che si eleva e si protrae al di là della contingenza, che diviene, nel proprio stesso reiterarsi e tornare su se stesso, immagine dell'eterno.
Sorriso aurora paradiso amore ora speranza eterne raggio... La tramatura fonica delle R, quasi come il filo o la nervatura di una rete neurale, unisce e fa splendere, da un testo all'altro, una nitida costellazione semantica, tesa fra il tempo e l'eterno.
E, infine, forse non senza un richiamo a simbologie iniziatiche, massoniche o rosacrociane, i passi del poeta divengono danza, e il suo incedere si avvia, oltre il grigiore della materia, oltre l'oscurità dell'oppressione sociale e dogmatica, verso una sorta di nuovo Templum Salomonis; verso la dimora di una sovrastorica, universale fratellanza umana, di cui proprio la comune origine delle lingue (rispecchiata dal valore evocativo e simbolico originario dei suoni, riportato alla luce dalla poesia non meno che dalla scienza) si fa testimone e garante. (M. V.)
Il tuo sorriso era la gioia, il canto
della tua voce fioriva l’aurora
nel paradiso del tuo amore e l’ora
del mio riposo stava nel tuo incanto.
Piccolo nel tuo cuore amato tanto
mi cullavo nel ritmo, ancora e ancora:
non ti fermare mai, cuore d’allora,
anche se il bene mio s’è volto in pianto.
Nomade culla in arido deserto,
tra fredde stelle, batte ancora il suono,
da infinita distanza, dell’amore,
ed io son fitto al suolo ed il perdono
invano forse imploro, fatto esperto,
dal trascendente bene, del mio errore.
********
Una parola buona… ed il sorriso
della tua infanzia ti riscuote. Ancora
sei quello amato da tua madre, allora,
con la sciocca speranza impressa in viso.
Il diaframma del tempo, che ha deriso
la timida innocenza, si scolora:
sei stato amato dentro la tua spora,
e il mondo freddo, no, non ti ha diviso.
Sii calmo e osserva: una parola buona
rinnova in te quello sdegnoso amore
ch’è la sostanza del tuo cuore antico
e lo riporta là, dove risuona
il ritmo consueto, come un fiore
aperto e mosso da respiro amico.
********
Montagne eterne, i vostri rivi sono
come la bocca della donna amata:
intensi e puri. E stendono il perdono,
nell’alba bianca, sulla terra ambrata.
Ascolto i boschi modulare un suono
alto e frequente all’onda, alla ventata.
Ed ecco tra le guglie il sole buono
Inoltrarsi nel ciel di sua giornata.
E sfiorare col raggio luminoso
la cima, là dove lo sguardo cede
tra il vorticoso azzurro e il verde ghiaccio.
Tocca il tuo cielo, astro tempestoso,
sciogli l’antico ghiaccio, e la mia sete
d’acqua soddisfa col divino raggio.
********
Tempeste e neve, ghiaccio, luce e sole,
squallide lame di nevai lontani,
baite piombate in malghe ed in pantani,
rivi rodenti rocce, e prati, e viole,
e sconfinate strade, dove, sole,
sfrecciano le marmotte o serpi strani,
alti silenzi in mezzo agli altopiani
cantatemi armonie senza parole.
Tra cappelle affrescate è bello andare,
balzanti fuor da spopolate ville
coi color forti dell’età di mezzo.
Un pozzo accanto, e un santo da pregare
ogni cappella ostenta, e sono mille
le favole istoriate che accarezzo.
********
Vedrò l’aurora di giornata eterna
dopo la nebbia e il cieco camminare.
Udrò la voce un nome pronunciare
che mi riscuota dalla notte inferna.
E ciò che accade sarà storia esterna:
la serie degli errori naufragare,
disciogliersi nell’infinito mare
dove promessa eterna si discerna.
I crucci e l’odio, il mistero dei cuori,
tutto esposto sarà. Cammineremo
sopra un viale d’alti alberi ombreggiato.
Deposta ogni speranza nel passato,
finalmente a quei rami appenderemo
nomi e sentenze dei perduti amori.
***
Nacqui nel sangue, uscito da una goccia
di sperma. Nei torrenti della luce,
tra il rombo dei cannoni, mi conduce
l’invincibile tempo ad una loggia
aggettante sul mare, incisa in roccia,
dove l’eterno orizzonte traluce
di schiere d’astri, e in quell’oceano adduce
il movimento uman, piccola roggia.
Dal balcone alto il Savio giudicare
costellazioni e rivoluzioni
può certo, e il pianto di colui ch’è nato.
Io più non piango e resto giù, a imparare
sciacquio d’onde, e del vento le canzoni:
le sillabe che m’ hanno perdonato.
***
Bianca città, fulgente in mezzo agli orti,
potrò contare mai i perduti passi
degli abitanti tuoi sui lisci sassi,
e gli echi delle voci nelle corti?
Anch’io compongo i miei segnali ai morti
infiniti che occhieggiano tra i massi,
e cammino nei vicoli e nei bassi,
su catacombe in cerca di risorti.
Nel tuo grembo è fetore, eppure splende,
incontrastata impudicizia al cielo,
la gioventù di vivido cristallo.
E il passo, e la parola che l’accende,
io descrivo, indossato un bianco velo,
e, nel suo sinuoso vezzo, ballo.
giovedì 9 giugno 2016
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