Perché non scrivo nella mia lingua natale
La
mia esperienza di scrittura poetica in inglese può essere spiegata
nel migliore dei modi raccontandovi la composizione della poesia sul
divorzio dei miei genitori. In rumeno, anni fa, la intitolai
Divortul,
ossia Il
Divorzio.
Quando iniziai a sognare in inglese, e quando le parole iniziarono a
salirmi alle labbra in inglese, avvertii dentro di me una occulta
corrente di novità. Libertà e vivezza: la mia lingua pian piano si
scioglieva, e volevo vedere come tutto ciò risuonava nella mia nuova
lingua. Dapprima scrissi ciò che ricordavo della poesia in rumeno,
poi cercai di tradurlo: fu intitolata, successivamente, L'Aula,
Un
voto d'amore e
infine Il
Divorzio.
Molte delle prime versioni inglesi avevano al proprio interno troppe
spiegazioni: perché mia madre era stata costretta a divorziare,
cos'era accaduto in aula – proprio come se tutta la storia del
paese dovesse essere narrata solo perché la poesia stessa potesse
scaturire. Poi, quando divenni più radicata nella mia “terra
lontana”, appresi a condensare il racconto in immagini che
lasciassero trasparire, sullo sfondo, la molteplicità dei racconti.
E così accadde con molte altre poesie, finché la lingua inglese
cominciò a farmi vibrare in accordo con i suoi suoni,
e
le parole rumene cessarono di tornare a ritradurre le poesie. A
distanza di tempo, penso che sarebbe necessario un grande sforzo per
riversare la cultura da cui scrivo ora nella cultura rumena che avevo
abbandonato appena prima della Rivoluzione. E se ora cercassi di
scrivere in rumeno, sarebbe piuttosto come tornare a casa su una
vecchia mappa (linguistica).
Ma
c'è qualcosa di più. Mi chiedono tanto spesso perché io non scriva
in rumeno che penso a ciò lungamente e profondamente. Per prima
cosa, non voglio scrivere nella lingua in cui la mia famiglia subì
interrogatori, visite in prigione, minacce di ogni tipo. Certamente
non voglio ricordare tutte le volte che ci scrivemmo e bruciammo le
nostre parole: fummo sorvegliati ventiquattr'ore al giorno negli
ultimi cinque anni che ho trascorso nel mio paese, e tutto ciò che
dicevamo fu registrato da microfoni disposti intorno alla casa.
Odiavo sottintesi, menzogne, la paura delle parole. Ora faccio parte
di coloro che scrivono in una lingua appresa.
E faccio parte di coloro che si sforzano di definire le proprie
responsabilità come persone che, nate in un paese, vivono, di
propria volontà, in un altro. Questa potrebbe apparire a molti una
di quelle condizioni che si riesce facilmente a superare. Ma la
ragione per la quale si scrive nella propria lingua natia,
dall'esilio, è che la lingua natia ha in sé bellezza e verità. I
poeti scrivono nella loro lingua natia per ricordare il calore di
casa, gli usi della città e del villaggio, la giovinezza felice.
Vogliono ricreare un senso di casa, un bozzolo tiepido intorno
all'esperienza raggelata dell'esilio. Ma il mio esilio è il mio
bozzolo. Preferisco esprimermi in inglese che ricordare i bambini che
mi chiamavano “figlia di un criminale” nella mia lingua natia:
quella non ebbe mai suono di sicurezza, di bene o di casa. Quando
smisi di guardarmi le spalle per vedere se qualcuno mi stesse
seguendo per farmi del male, smisi di cercare di scrivere poesia
nella mia lingua natale. Credo che le poesie stesse facciano apparire
la mia scelta meno stridente o meno impertinente. Nella mia
situazione non è così male stare sulla sponda della dimenticanza.
(da
“Poetry Magazines”
http://www.poetrymagazines.org.uk/magazine/record.asp?id=16765)
Da Vent'anni dopo: riflessioni su Esilio e Lingua
Sono
giunta ad odiare la lingua in cui sono nata. Non è un giudizio, è
un'emozione che dura da vent'anni; sono assolutamente certa di non
essere sola in quest'esperienza. Ma questo fenomeno è anche un
simbolo fortissimo di sopravvivenza: come l'acqua, se le parole sono
arrestate da una diga, continueranno a vagare e proromperanno in un
altro luogo – in
un'altra lingua. In inglese, per un po', mi sentii con la lingua
annodata, ma dopo aver imparato la lingua potei parlare con
franchezza di ciò che era successo a noi e a me. Non appena ciò
iniziò ad accadere iniziai a dominare me stessa, ad avere e ad
esprimere le mie opinioni, a scrivere poesia senza temerne le
conseguenze. Divenni libera e proclamai il mio Salut
au monde con
la stessa intensità con cui Walt Whitman proclamava nella sua poesia
che ognuno di noi è invincibile, con i propri diritti di uomo o di
donna sopra questa terra. Così mi gettai con furia nella lingua
inglese e nella vita: danzai per le strade nel cuore della notte
senza temere le tenebre, appesi le mie poesie agli alberi nel campus
universitario ad Ann Arbour quando ero studentessa, trovai i
documenti su mio padre nella biblioteca universitaria e divenni fiera
che gli altri sapessero che i miei genitori non avevano chinato il
capo, non si erano venduti a una dittatura, e che eravamo
sopravvissuti a tutto con cuori e spiriti intatti. Infine, fui io a
bandire la lingua rumena dalla mia poesia. Non c'era spazio per lei
in questa luce, nel dire la verità, nel potente sforzo di vivere
come un essere umano felice dall'altra parte del mondo. Non tornai
più in Romania, tranne che per una visita di una settimana nel 1995,
quando diedi l'ultimo addio a mia nonna che stava morendo di cancro,
perché quando mio padre pose la propria vita e le nostre vite in
pericolo per abbattere il regime di Ceausescu, nessuno lo seguì. La
gente accorse per vederlo, lo vide e poi si nascose, terrorizzata,
dove poteva.
(da
After
Twenty Years: Reflections on Exile and Language
«interLitQ.org»
http://www.interlitq.org/issue10/carmen_bugan/job.php)
Tutte
le poesie edite di Carmen Bugan appariranno, con traduzione a fronte,
presso l'editore Kolibris (http://kolibris.wordpress.com).
Questi i libri già editi: http://www.amazon.co.uk/Carmen-Bugan/e/B0034PBSMM
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Qui un profilo biografico: http://poetrytranslation.net/carmen-bugan
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