Il sole del
pomeriggio era la frazione del giorno preferita da Kavafis. Da un
lato, abbiamo una luce che poteva essere goduta sotto il cielo,
girovagando, com’era sua abitudine, per il centro storico di
Alessandria dopo le ore di lavoro. La stessa luce, incidente e non
riflessa, diviene implacabile se penetra negli interni, dove, per la
sua inclinazione, nulla assorbe o lascia in ombra, mette-a-fuoco
(incendia) fino i minimi contorni nel chiuso e nel profondo delle
stanze. Il sole del pomeriggio (il cui declinare viene effigiato
nello sfumare dei caratteri nel titolo di copertina) è la memoria
che procura ricordi riafferrati come presenze nette («l’emozione
d’amore ancora intatta»), di specie amorosa in particolare, con
tutti i loro dettagli più o meno significativi. Dall’altro, il
declinare della luce del pomeriggio favorisce l’irrompere della
nostalgia sia per «le candele spente» del tempo che per le voci che
«ci parlano nei sogni», voci che intercettano e restituiscono il
ricordo insieme alla mancanza del suo oggetto nella solitudine della
sfatta luminosità della sera.
Il
sole del pomeriggio presenta un florilegio da
Costantino Kavafis introdotto da Paolo Ruffilli, e da lui tradotto
con Tino Sangiglio, dedicatario del volume insieme a Filippo Maria
Pontani, già interprete e traduttore del poeta greco per i tipi
della Mondadori. Nella sua introduzione Ruffilli focalizza alcuni
punti fondamentali per una rilettura della poesia di Kavafis.
Riconsidera anzitutto «il mito dell’ellenismo» come capitolo
decisivo della modernità, canone-anticanone di una poesia
caratterizzata da un mutamento di grado e ormai non più finalizzata
alla celebrazione o alla valorizzazione di istanze etiche e civili.
Una poesia che da tempo ha assunto un’accezione meditativa e
riflessa, che ha spostato quasi esclusivamente all’interno la
propria indagine, e che qui si avvale di toni epigrammatici ed
elegiaci.
«La
genialità di Kavafis – Montale osservava – consiste nell’essersi
accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo
Europaeus di oggi; e nell’essere riuscito
ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro» – e sarebbe
interessante far reagire, giustapporre e mettere a confronto e a
contrasto la luce più sfumata e intrisa d’ombre del meriggio di
Kavafis con quella nietzschiana dei meriggi montaliani, che invade e
penetra il paesaggio immobilizzandolo, calcinandolo fin quasi a
dissolverlo.
L’ellenismo è ricostituito da Kavafis fondendo
eloquio comune e tradizionale purezza del linguaggio poetico. Una
scelta che attenua le intense emozioni di cui la sua poesia si nutre,
smorza la tensione sentimentale e la sua effusione, gli affetti
d’amore per proibiti corpi efebici, per figure remotissime,
perlopiù d’invenzione «nel vagheggiamento di una Storia superiore
(Eurione, Lanis, Endimione)», Ruffilli dice, inquadrate entro una
sonorità contratta, contenuta nei margini di un alessandrinismo
versale circoscritto ma non cristallizzato.
La
lingua greca, usata ormai marginalmente (percepita, paradossalmente,
quasi come lingua minore, mentre in origine fu, com’è evidente,
teatro espressivo del maggiore codice culturale dell’identità
europea, grande crogiolo e filtro del carattere mediterraneo, tra
matrice afrosemitica e fantasma indoeuropeo), diviene lo strumento
per tutelare quell’esigenza di separatezza e di riservatezza che
Kavafis perseguiva. Inoltre, quella greca si offriva come lingua
ignara di censure. Logos, allora, congeniale al fine di «cedere ai
Desideri» senza che «alcuna virtù ti dissuada», di dare libero
sfogo anche al dato tangibile di una sensualità che rivive nella
memoria («la memoria dei corpi», Ruffilli la chiama) e che si
ricrea nell’attenzione del lettore. Perché il corpo d’amore
passa, Kavafis dice, «per le sublimi contrade di Poesia», non
soltanto quando l’amante è anzitempo rapito dalla morte.
Attraverso la ripetizione il tempo subisce un arresto, e
la sospensione, Ruffilli osserva, è una strategia estetica che
promuove una «trasposizione romanzesca», ottenuta anche con
l’intercalarsi di prima e terza persona, dunque nella unificazione
dell’elemento biografico e di quello dei motivi unanimi. Ruffilli
dà insomma l’impressione di cogliere meglio di altri l’essenza
del sempre asserito, più che documentato, ellenismo di Kavafis: la
rilettura del microcosmo della lirica e dell’epigramma greci
nell’ottica di un tempo sospeso, in chiave sì, appunto,
epigrammatica, lirica, idillica, ma anche con risvolti orfici e
iniziatici. Sotto questo riguardo, più che a Penna e a certe cose
dell’ultimo Saba, cui verrebbe spontaneo accostarlo, Kavafis può
apparire più vicino di quanto non sembri alla linea simbolista ed
ermetica (che in fondo segnò, attraverso l’influsso, del resto più
olimpico che alessandrino, più solenne che intimistico, del grande e
oggi quasi dimenticato Sikelianós, i suoi esordi, come quelli di un
Seferis).
Elisabetta Brizio
Costantino
Kavafis, Il sole del pomeriggio,
trad. di Tino Sangiglio e Paolo
Ruffilli (Biblioteca
dei Leoni, Castelfranco Veneto 2014)
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