domenica 6 aprile 2014

Ringkomposition. Massimo Sannelli, a un anno dall’abiura

Ad un anno dalla sua pubblica abiura dei suoi libri di versi sente di aver fatto un passo avanti? O indietro, a seconda di cosa veramente intendeva lasciarsi alle spalle?

R. Molto più di un solo passo. Comunque un passo avanti, questo è certo. Ma il passo deve anche ridere, se no si cade nel personaggio tragico: che non deve esistere, perché il tragico non può resistere. Nello stesso tempo, non volevo (e non voglio più) agire solo umanisticamente, fuori tempo e snervato: un libero retore in una libera rete non fa paura neanche a Berlusconi.

Potrebbe dirci qualcosa in merito alla sua attività svolta in questi ultimi tempi per le pagine di «Trentino Libero»? Ne emerge un opinionista sui generis, un umanista infedele a quella linea che tende a smarcarsi dall’espressione viva, ritmica, musicale più che concettuale…

R. È la costruzione ironica e ringhiante di un nuovo tipo di autore. Lì provo uno stile che sintetizza molti stili. Il progetto è una freccia. È un proietto e va bene. È un proiettile, e così via. E niente dóxa, là dentro, non più; ma una cosa: un lamento che si realizza e poi si rende irrealizzabile – attenzione –, si dissolve (in risate e in silenzio) e poi si realizza di nuovo. Ora le svelo un mistero buffo: io scrivo musica, di solito, ma nessuno lo sa. Il mondo cerca solo idee, per ripeterle, e la prosa è brava a sembrare il carro delle idee.

Sapevo che lei avesse compiuto studi musicali approfonditi, ma non che scrivesse musica. Che genere di musica compone? Ho detto male “genere” e di sicuro anche “compone”, questo lo so. Forse musica mentale, astratta, non pensata per alcuno strumento in particolare, un po’ come l’Arte della fuga di Bach? Anche la poesia del resto è musica humana, non musica instrumentis constituta, musica ineseguibile se non con il pensiero. Ma lei tende ad asservire il pensiero alla dimensione musicale, e con tutta probabilità sbaglio anche in questo caso. Il suo mistero insomma non è affatto buffo…

R. Ho fatto musica elettronica, a volte. In realtà adesso si tratta di scrittura, cioè del presente. Questo presente è molto tecnico: sono fogli elettronici, sullo schermo, come ora. La musica di questo foglio è una serie di parole e sperimento, sempre – quindi anche ora, anche qui –, la potenza di alcune espressioni. Non sul piano del timbro e dell’altezza, che saranno realizzate dal performer, a modo suo. No: i testi sono esperienze ritmiche, perché gli accenti non sono modificabili e l’ordine delle parole è dato, qui, nella partitura. Ecco il punto: non scrivo per esprimermi ma per esprimere, quindi è sempre un atto teatrale e dedicato all’apparenza. Voglio rappresentare fisicamente il messaggio, che è una presenza: da un lato. Dall’altro: voglio fare e dare la partitura degli esperimenti sonori. In generale: non sopporto di essere un portatore di messaggi, anche se è inevitabile portare un messaggio. Per questo amo lo show, la mostruosità del lavoro, il silenzio. E la musica arriva per soffocare la presunzione e il senso, da un lato; dall’altro: unità di tempo, luogo e azione, va bene, ma la tripla unità deve avere anche l’unità di intenzione, quindi di vita. Il canto deve essere sincronizzato con la sensazione, che è mentale, quindi il canto deve essere sincronizzato con la mente; ma la mente è nel corpo, quindi il canto deve essere sincronizzato con il corpo; ma il corpo è in un luogo – e cambia molti luoghi, in cui sente caldo o freddo, fame o sete, pace o dolore – quindi il canto deve essere sincronizzato con il luogo, in cui avvengono le sensazioni. C’è un altro punto: la vita non è perfettamente solitaria, perché ci sono rapporti e nodi, quindi il canto deve essere sincronizzato anche con la socialità e con l’asocialità. Io sono solo apparentemente un poeta, cioè mi rappresento come poeta: la musica che faccio ha solo l’apparenza occasionale dei versi. E quindi? Io scrivo una musica verbale che è – nella mia intenzione – il doppio del corpo, del tempo, del luogo e dell’azione. Questa musica verbale non deve essere intesa come un messaggio, anche se porta messaggi; deve essere intesa come una rappresentazione. Ecco: chi mi legge, legge me. Dove non mi riconosco più, riscrivo me.

Nei suoi testi dal “tempo breve” che escono in forma aperiodica su «Trentino Libero» le sue cognizioni estetiche si intrecciano a ragioni etiche, alla polemica quasi mai esplicita. Tuttavia, sembra inoltre passarvi qualcosa della sua vita privata, magari per interposta persona…

R. Non è vita privata. È un concetto disgustoso, per me. Ne ho abbastanza, della mia vita privata. Negli articoli – e non solo negli articoli – ci sono alcune percezioni, ma non ci sono più i fatti. In generale, in realtà, io non voglio privacy, ma voglio silenzio, per lavorare. E naturalmente faccio tutta la vita pubblica possibile, perché apparire è un modo per stare quasi sempre in silenzio. Può piacere o no, ma io vivo e lavoro così. Il silenzio riguarda l’uomo intimo, che è il segreto assoluto. Questo silenzio pratico e pubblico, sotto l’apparenza della voce ripetuta, è come la musica in prosa: c’è, può essere anche amata, si vede e sente, ma nessuno lo sa.

Queste informalissime “terze pagine” andranno a finire in un libro, come molti suoi lettori, tra cui me, si augurano?

R. Disprezzavo la dispersione o no? Sì. Penso sempre ad un secondo corpo: il corpo loricato, una bibliografia-portami via, una bibliografia-amore della mia vita. Penso sempre alla forma del libro, perché è la forma dell’unione.

Con quale spirito affronta le sue Lecturae Dantis?

R. Montando e smontando qualche piccolo gioco: la selva-vasel, la vagina delle membra di Marsia, e altro. Si può ridere anche di questo magistero del romanzo-in-versi, con il suo ritmo cantilenante. Dante regge bene una dissacrazione tenera, anche perché ha fatto un discreto scempio del suo entourage. E così tollera le punture del Narciso-Attore.

Ripensa mai a Scuola di poesia? Con nostalgia? Con indulgenza verso quello che lei era, o con soddisfazione? O come?

R. No, non ci penso mai. Non ci penso più, perché il libro è fatto. La gravità è sgravata e grava – vaga, vaghissima – su altre e altri, se ci sono i lettori. Nessuna nostalgia, mai. E neanche la soddisfazione, se non per certi giri di prosa – cioè: musica – che sono il mio lavoro (la «parte migliore»).
Quale delle sue varie attività sembra maggiormente gratificarla? Lei mi risponderà che ogni azione comprende tutte le altre, che nulla è settoriale o sufficiente a sé, e che dunque la mia domanda non ha senso…

R. No, ha senso. E penso questo: la soddisfazione è una cosa del corpo, prima di tutto. Non posso essere scettico, in generale, quando si tratta di corpi. E il corpo deve manifestarsi. La soddisfazione è in questo: poter essere artistici senza essere grammatici. Quindi: essere verbale – è quasi un obbligo – e anche non verbale, nello stesso tempo e nella stessa azione. Il cinema dà – è – soddisfazione, soprattutto quando non c’è parola: chi cerca prova (e fa esperimenti, ma non in vitro, non a freddo).

Come si lega al suo lavoro il suo ultimo film da attore, Tempo di vita di Aleksandr Balagura?

R. Il film è una ricostruzione di vari livelli del passato: la ragazza al mercato, gli intellettuali ex-sovietici, una coppia, le fotografie (il cane nella neve, la coppia che salta, la slitta). La mia parte è quella del Poeta. All’inizio parlo con un fotografo tedesco, a caso, ed è apparsa la voce stanca dell’intellettuale che dice «noi decadenti»; è apparsa senza studio, come una cosa naturale, e lo era, per un senso di disagio (lo ammetto, lo ammetto); poi c’è un monologo sul cinema, in solitudine, davanti al mare. Come si lega questo lavoro a tutto il lavoro? Si lega per un atto di volontà e basa: perché la volontà lega tutto. E si lega perché il monologo fu improvvisato sul momento, quindi non era conoscenza (lo ammetto, lo ammetto): con ironia e con volontà di lodare Genova, il cinema, Guerra, Resnais, Godard. L’esaltazione più forte sussurrava una frase semplice – «io vivo qui». – e la dissi, da dentro a fuori.

«La voce stanca dell’intellettuale che dice “noi decadenti” »… Non è così nel film, ma dette così le sue parole sanno un po’ di snobismo, di quell’atteggiarsi che ormai abbiamo un po’ tutti sgamato in quanto ad autenticità, e Jep Gambardella ci ha messo il suo carico, urbi et orbi. Finalmente. O no?

R. C’è un fatto politico. La politica mi colpisce solo se ha dei caratteri tra l’eroico e il perverso, il performativo e il disperato: fermo restando che i mostri sono mostri (e sono quasi tutti mostri). Non vedo alcuna morale nella politica – lo Stato non può essere morale, essendo una rappresentazione – ma ci vedo una serie di sensazioni, anche poetiche, quasi sempre deliranti, come nelle prime pagine delle Vergini delle rocce di d’Annunzio. Il mondo è un’altra cosa. Meglio così. L’estetica non è solo nell’arte. Meglio così. E le idee di Gheddafi sul teatro e sullo sport occidentale potrebbero anche non essere tanto assurde. Noi paghiamo le rappresentazioni, paghiamo per le rappresentazioni, amiamo essere intrattenuti, a pagamento, ed essere ritratti, sempre a pagamento. La grande bellezza ritrae un certo mondo romano. Bene: Roma è piena di Jep, e di finzioni sgamate da Jep, chi la conosce lo sa. Quanto alla decadenza: in realtà, non c’è tutto questo bisogno di essere italiani. Con un po’ di delicatezza, con una sensazione privata, quasi onirica, io – forse – so che (forse) si romperà tutto il perimetro dell’istituzione (della rappresentazione, che è momentanea).

Ha ancora un senso – artisticamente, non commercialmente – il cinema tradizionale secondo lei? O avevano ragione Guy Debord o Carmelo Bene a dire che il cinema può ormai esistere soltanto come distruzione, decostruzione, distorsione, negazione del cinema tradizionalmente inteso come storia rappresentata?

R. Tutto questo può valere nell’Occidente, finché dura. E adesso dirò una cosa sgradevole: Carmelo Bene è adorabile – sempre e in tutto –, ma lo è da Lisbona a Praga. Bene dice cose essenziali sull’uomo, ma non può dirle a tutti: è universale ma è localizzato, se no che italiano sarebbe? Un’opera filmica non può essere semplicemente un buon centauro, cioè una mescolanza tecnica di tecniche e felice di essere come è? E può evitare di opporsi, ma fare, fare le cose e basta?

Greenaway afferma che il cinema è una cosa troppo importante per lasciarla ai narratori. È vero?

R. Greenaway è stato anche più chiaro: «If you want to be a storyteller, be an author, be a novelist, be a writer, don’t be a film director. Cinema is not the greatest medium for telling stories. It is too specific, leaves so little room for the imagination to take wing other than in the strict directions indicated by the director». Ecco il punto. Lo Zoo di Venere può essere un modo di praticare la precisione e – anche – di usare la musica, per piegarla e coinvolgerla; e per irretirla o credere di farlo nelle «direzioni indicate dal regista». Il Director dirige le Direzioni, come uno stratega.

Il cosiddetto cinema di poesia non tende forse di per sé a cessare di essere cinema comunemente inteso, a divenire, chiasticamente, il poema filmico teorizzato da Pasolini?

R. Se «il cinema comunemente inteso» è un racconto ordinato, il cinema di poesia deve diventare un poema filmico, è chiaro. Ma attenzione a Pasolini. Uno come Pasolini non parla mai di cose diverse da sé. Quanto a noi – il pubblico, gli intellettuali, i diretti dal Director non storyteller e molto sadico –, noi cerchiamo idee ed interpretazioni dove ci sono solo specchi personali. Ora, Pasolini non si interpreta, ma chiede un rapporto gerarchico, perché si è posto automaticamente fuori dall’umano, praticando l’Opera e il Sesso, due forme di eccesso. Oggi citare Pasolini è affascinante – per forza di cose: è un pezzo unico –, ma noi sbagliamo sempre la premessa: vogliamo interpretare il massimo livello della solitudine, che è un fatto religioso, come se la solitudine fosse un messaggio da capire, una disgrazia da compatire, e non un ruolo che ti taglia fuori. Se io sono solo, ti voglio solo come pubblico, capisci? Nessuno lo capisce. Il cinema di poesia è un atto superbo e sublime, nello stesso tempo: puro narcisismo di Narciso, rifatto sempre. E il regista non può essere molto dolce, comunque: la direzione non è mai delicata, per statuto.

Che cosa pensa del film La grande bellezza?

R. È bellissimo. Compresa la parte tagliata con Giulio Brogi. Apparire non è il contrario di essere, è un’ingenuità dirlo, è ingenuo sostenerlo, ma bisogna farlo, se no non esisti, e apparire – in opere, quindi in lavoro – non è male, e mondano non è immondo, ma che cosa lo dico a fare? Mondano e monaco possono essere simili, in un certo senso. È bello così e basta, tutto qui.

Di Genova – quale sfondo del soggiorno ligure di Shelley, Keats, Byron – Roberto Mussapi scriveva che la città per sopravvivere «deve guardare il mare». «Genova non può voltare il capo alle spalle, dove un muro la chiude e condanna, non può volgersi e quindi interrogarsi, scrivere meditando la propria avventura, può solo viverla, consumandola sulle onde. Per questo non fonda una tradizione d’immagini, un mito. Scrive la sua storia sulle acque, e ne affida l’appercezione, l’intermittente e rapsodica memoria alla luce della Lanterna. Solo una luce sul mare, un segnale di vita lanciato nel buio, sarà il suo monumento e il suo emblema. Conquista i mercati e il controllo delle banche, ma conia la sua moneta sui raggi gettati all’acqua. Va avanti, non conosce pietre miliari ma rotte evanescenti, le sue imprese si cancellano sulla superficie del mare fondo e senza memoria. Come se tutta la sua vita fosse una partenza, se ogni sua azione fosse mossa dal vento». Qual è la sua Genova, quella granitica, labirintica e ombrosa, oppure quella ariosa, trasognata e solare di Giorgio Caproni? O quella segreta che lei tende a ricostruire, sia documentalmente che attraverso impressioni e impronte lievi, relativa al passaggio a Genova di alcune figure della storia? Meritano insomma un discorso a parte i raffinati volumi da lei curati con Vittorio Laura, Una rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria, e il più recente Filippo V di Spagna a Genova, o trasmettono anch’essi qualcosa di essenziale del corrente umore della città?

R. La descrizione di Mussapi è troppo, in tutti i sensi: troppe parole e troppa retorica. Basta un livello normale: Genova è ruvida e nervosa, imperfetta, ma non ignorante. Io la vedo come uno stimolo, continuo, continuamente riveduto e scorretto, perché questa è anche la Città Barbara, parola di Caproni. Oggi, di fronte alla Barbara, io non sono uno storico locale, anche se ogni tanto mi occupo di storia locale. Lo faccio in nome di una strana fede, che è questa: gli eventi del 1702 (Filippo V) o del 1893 (Elisabetta d’Austria, Sissi) non sono storia locale, ma azioni di una poesia e di un teatro – vitale e vero – che provo a riscrivere, perché c’è stato. Lo giuro: c’è stato. E non mi interessano tanto i dati storici, quanto le situazioni e le sensazioni. Il luogo mi sembra glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza: tutto quello che accade qui deve essere glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza. Mi interessa lo statuto di Genova, cioè ogni conferma dello stile ricco e barbaro, senza noia. Quando accade, prendo nota.


                                                                                                                                   5 aprile 2014

(a cura di Elisabetta Brizio)

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