Ad
un anno dalla sua pubblica abiura dei suoi libri di versi sente di
aver fatto un passo avanti? O indietro, a seconda di cosa veramente
intendeva lasciarsi alle spalle?
R.
Molto più di un solo passo. Comunque un passo avanti, questo è
certo. Ma il passo deve anche ridere, se no si cade nel personaggio
tragico: che non deve esistere, perché il tragico non può
resistere.
Nello stesso tempo, non volevo (e non
voglio
più) agire solo
umanisticamente, fuori tempo e snervato: un libero retore in una
libera rete non fa paura neanche a Berlusconi.
Potrebbe
dirci qualcosa in merito alla sua attività svolta in questi ultimi
tempi per le pagine di «Trentino Libero»? Ne emerge un opinionista
sui
generis,
un umanista infedele a quella linea che tende a smarcarsi
dall’espressione viva, ritmica, musicale più che concettuale…
R.
È la costruzione ironica e ringhiante di un nuovo tipo di autore. Lì
provo uno stile che sintetizza molti stili. Il progetto è una
freccia. È un proietto e va bene. È un proiettile, e così via. E
niente dóxa,
là dentro, non più; ma una cosa: un lamento che si realizza e poi
si rende irrealizzabile – attenzione –, si dissolve (in risate e
in silenzio) e poi si realizza di nuovo. Ora le svelo un mistero
buffo: io scrivo musica, di solito, ma nessuno lo sa. Il mondo cerca
solo idee, per ripeterle, e la prosa è brava a sembrare il carro
delle idee.
Sapevo
che lei avesse compiuto studi musicali approfonditi, ma non che
scrivesse musica. Che genere di musica compone? Ho detto male
“genere” e di sicuro anche “compone”, questo lo so. Forse
musica mentale, astratta, non pensata per alcuno strumento in
particolare, un po’ come l’Arte
della fuga di
Bach? Anche la poesia del resto è musica humana,
non musica instrumentis
constituta,
musica ineseguibile se non con il pensiero. Ma lei tende ad asservire
il pensiero alla dimensione musicale, e con tutta probabilità
sbaglio anche in questo caso. Il suo mistero insomma non è affatto
buffo…
R.
Ho fatto musica elettronica, a volte. In realtà adesso
si tratta
di scrittura, cioè del presente. Questo presente è molto tecnico:
sono fogli elettronici, sullo schermo, come ora. La musica di questo
foglio è una serie di parole e sperimento, sempre
– quindi anche ora, anche qui
–, la potenza di alcune espressioni.
Non sul piano del timbro e dell’altezza, che saranno realizzate dal
performer,
a modo suo. No: i testi sono esperienze ritmiche,
perché gli accenti non sono modificabili e l’ordine delle parole è
dato, qui, nella partitura. Ecco il punto: non scrivo per esprimermi
ma per esprimere, quindi è sempre un atto teatrale
e dedicato all’apparenza.
Voglio rappresentare
fisicamente
il messaggio, che è una presenza: da un lato. Dall’altro: voglio
fare e
dare la partitura
degli esperimenti sonori. In generale: non sopporto di essere un
portatore di messaggi, anche se è inevitabile portare un messaggio.
Per questo amo lo show, la mostruosità del lavoro, il silenzio. E la
musica arriva per soffocare la presunzione e il senso, da un lato;
dall’altro: unità di tempo, luogo e azione, va bene, ma la tripla
unità deve avere anche l’unità di intenzione,
quindi di vita.
Il canto deve essere sincronizzato
con la sensazione,
che è mentale, quindi il canto deve essere sincronizzato
con la mente;
ma la mente è nel corpo, quindi il canto deve essere sincronizzato
con il corpo;
ma il corpo è in un luogo – e cambia molti luoghi, in cui sente
caldo o freddo, fame o sete, pace o dolore – quindi il canto deve
essere sincronizzato
con il luogo,
in cui avvengono le sensazioni. C’è un altro punto: la vita non è
perfettamente solitaria, perché ci sono rapporti e nodi, quindi il
canto deve essere sincronizzato
anche con la socialità e con l’asocialità.
Io sono solo apparentemente un poeta, cioè mi rappresento come
poeta: la musica che faccio ha solo l’apparenza occasionale dei
versi. E quindi? Io scrivo una musica verbale che è – nella mia
intenzione
– il doppio del corpo, del tempo, del luogo e dell’azione. Questa
musica verbale non deve essere intesa come un messaggio, anche se
porta messaggi; deve essere intesa come una rappresentazione.
Ecco: chi mi
legge, legge me.
Dove non mi
riconosco più, riscrivo
me.
Nei
suoi testi dal “tempo breve” che escono in forma aperiodica su
«Trentino Libero» le sue cognizioni estetiche si intrecciano a
ragioni etiche, alla polemica quasi mai esplicita. Tuttavia, sembra
inoltre passarvi qualcosa della sua vita privata, magari per
interposta persona…
R.
Non è vita privata. È un concetto disgustoso, per me. Ne ho
abbastanza, della mia vita privata. Negli articoli – e non solo
negli articoli – ci sono alcune percezioni,
ma non ci sono più i fatti. In generale, in realtà, io non voglio
privacy,
ma voglio silenzio, per lavorare. E naturalmente faccio tutta la vita
pubblica possibile, perché apparire è un modo per stare quasi
sempre in silenzio. Può piacere o no, ma io vivo e lavoro così. Il
silenzio riguarda l’uomo intimo, che è il segreto assoluto.
Questo silenzio pratico e pubblico, sotto l’apparenza della voce
ripetuta, è come la musica in prosa: c’è, può essere anche
amata, si vede e sente, ma nessuno lo sa.
Queste
informalissime “terze pagine” andranno a finire in un libro, come
molti suoi lettori, tra cui me, si augurano?
R.
Disprezzavo la dispersione o no? Sì. Penso sempre ad un secondo
corpo: il corpo loricato, una bibliografia-portami via, una
bibliografia-amore della mia vita. Penso sempre alla forma del libro,
perché è la forma dell’unione.
Con
quale spirito affronta le sue Lecturae
Dantis?
R.
Montando e smontando qualche piccolo gioco: la selva-vasel,
la vagina
delle membra di Marsia, e altro. Si può ridere anche di questo
magistero del romanzo-in-versi, con il suo ritmo cantilenante. Dante
regge bene una dissacrazione tenera, anche perché ha fatto un
discreto scempio del suo entourage.
E così tollera le punture del Narciso-Attore.
Ripensa
mai a Scuola
di poesia?
Con nostalgia? Con indulgenza verso quello che lei era, o con
soddisfazione? O come?
R.
No, non ci penso mai. Non ci penso più, perché il libro è fatto.
La gravità è sgravata e grava – vaga, vaghissima – su altre e
altri, se ci sono i lettori. Nessuna nostalgia, mai. E neanche la
soddisfazione, se non per certi giri di prosa – cioè: musica
– che sono il mio lavoro (la «parte
migliore»).
Quale
delle sue varie attività sembra maggiormente gratificarla? Lei mi
risponderà che ogni azione comprende tutte le altre, che nulla è
settoriale o sufficiente a sé, e che dunque la mia domanda non ha
senso…
R.
No, ha senso. E penso questo: la soddisfazione è una cosa del corpo,
prima di tutto. Non posso essere scettico, in generale, quando si
tratta di corpi. E il corpo deve manifestarsi. La soddisfazione è in
questo: poter essere
artistici senza essere grammatici.
Quindi: essere verbale – è quasi un obbligo – e anche non
verbale, nello stesso tempo e nella stessa azione. Il cinema dà –
è – soddisfazione, soprattutto quando non c’è parola: chi cerca
prova
(e fa esperimenti, ma non in
vitro,
non a freddo).
Come
si lega al suo lavoro il suo ultimo film da attore, Tempo
di vita di
Aleksandr Balagura?
R.
Il film è una ricostruzione di vari livelli del passato: la ragazza
al mercato, gli intellettuali ex-sovietici, una coppia, le fotografie
(il cane nella neve, la coppia che salta, la slitta). La mia parte è
quella del Poeta. All’inizio parlo con un fotografo tedesco, a
caso, ed è apparsa la voce stanca dell’intellettuale che dice «noi
decadenti»; è apparsa senza
studio, come una cosa naturale, e lo era, per un senso di disagio (lo
ammetto, lo ammetto); poi c’è
un monologo sul cinema, in solitudine, davanti al mare. Come si lega
questo lavoro a tutto il lavoro? Si lega per un atto di volontà e
basa: perché la volontà lega tutto. E si lega perché il monologo
fu improvvisato sul momento, quindi non
era conoscenza (lo ammetto,
lo ammetto): con ironia e con volontà di lodare Genova, il cinema,
Guerra, Resnais, Godard. L’esaltazione più forte sussurrava una
frase semplice – «io
vivo qui».
– e la dissi, da dentro a fuori.
«La
voce stanca dell’intellettuale che dice “noi decadenti” »…
Non è così nel film, ma dette così le sue parole sanno un po’ di
snobismo, di quell’atteggiarsi che ormai abbiamo un po’ tutti
sgamato in quanto ad autenticità, e Jep Gambardella ci ha messo il
suo carico, urbi et orbi.
Finalmente. O no?
R.
C’è un fatto politico. La politica mi colpisce solo se ha dei
caratteri tra l’eroico e il perverso, il performativo e il
disperato: fermo restando che i mostri sono mostri (e sono quasi
tutti mostri). Non vedo alcuna morale nella politica – lo Stato non
può essere morale, essendo una rappresentazione – ma ci vedo una
serie di sensazioni, anche poetiche, quasi sempre deliranti, come
nelle prime pagine delle Vergini
delle rocce di d’Annunzio.
Il mondo è un’altra cosa. Meglio così. L’estetica non è solo
nell’arte. Meglio così. E le idee di Gheddafi sul teatro e sullo
sport occidentale potrebbero anche
non essere tanto assurde. Noi
paghiamo le rappresentazioni,
paghiamo per le rappresentazioni, amiamo essere intrattenuti, a
pagamento, ed essere ritratti, sempre a pagamento. La
grande bellezza ritrae un
certo mondo romano. Bene: Roma è piena di Jep, e di finzioni sgamate
da Jep, chi la conosce lo sa. Quanto alla decadenza: in realtà, non
c’è tutto questo bisogno
di essere
italiani. Con un po’ di delicatezza, con una sensazione privata,
quasi onirica, io – forse – so che (forse) si romperà tutto il
perimetro dell’istituzione
(della rappresentazione, che è momentanea).
Ha
ancora un senso – artisticamente, non commercialmente – il cinema
tradizionale secondo lei? O avevano ragione Guy Debord o Carmelo Bene
a dire che il cinema può ormai esistere soltanto come distruzione,
decostruzione, distorsione, negazione del cinema tradizionalmente
inteso come storia rappresentata?
R.
Tutto questo può valere nell’Occidente, finché dura. E adesso
dirò una cosa sgradevole: Carmelo Bene è adorabile – sempre
e in tutto –,
ma lo è da Lisbona a Praga. Bene dice cose essenziali sull’uomo,
ma non può dirle a tutti: è universale ma è localizzato, se no che
italiano
sarebbe? Un’opera filmica non può essere semplicemente un buon
centauro,
cioè una mescolanza tecnica di tecniche e felice
di essere come è? E può evitare di opporsi, ma fare,
fare le cose e basta?
Greenaway
afferma che il cinema è una cosa troppo importante per lasciarla ai
narratori. È
vero?
R.
Greenaway è stato anche più chiaro: «If
you want to be a storyteller, be an author, be a novelist, be a
writer, don’t be a film director. Cinema is not the greatest medium
for telling stories. It is too specific, leaves so little room for
the imagination to take wing other than in the strict directions
indicated by the director».
Ecco
il punto.
Lo Zoo
di Venere
può essere un modo di praticare la precisione e – anche – di
usare la
musica,
per piegarla e coinvolgerla; e per irretirla o credere di farlo nelle
«direzioni
indicate dal regista».
Il Director
dirige le Direzioni, come uno stratega.
Il
cosiddetto cinema
di poesia
non tende forse di per sé a cessare di essere cinema comunemente
inteso, a divenire, chiasticamente, il poema
filmico
teorizzato da Pasolini?
R.
Se «il
cinema comunemente inteso»
è un racconto ordinato, il cinema di poesia deve diventare un poema
filmico, è chiaro. Ma attenzione a Pasolini. Uno come Pasolini non
parla mai di cose diverse
da sé.
Quanto a noi – il pubblico, gli intellettuali, i diretti dal
Director
non storyteller
e molto sadico –, noi cerchiamo idee ed interpretazioni dove ci
sono solo specchi personali. Ora, Pasolini non si interpreta, ma
chiede un rapporto gerarchico, perché si è posto automaticamente
fuori
dall’umano,
praticando l’Opera e il Sesso, due forme di eccesso. Oggi citare
Pasolini è affascinante – per
forza di cose:
è un pezzo unico –, ma noi sbagliamo sempre la premessa: vogliamo
interpretare il massimo livello della solitudine,
che è un fatto religioso, come se la solitudine fosse un messaggio
da capire, una disgrazia da compatire, e non un ruolo
che ti
taglia fuori.
Se io sono solo, ti voglio solo come pubblico, capisci? Nessuno lo
capisce. Il cinema di poesia è un atto superbo e sublime, nello
stesso tempo: puro narcisismo di Narciso, rifatto sempre. E il
regista non può essere molto dolce, comunque: la direzione non è
mai delicata, per statuto.
Che
cosa pensa del film La
grande bellezza?
R.
È bellissimo.
Compresa la parte tagliata con Giulio Brogi. Apparire non è il
contrario di essere, è un’ingenuità dirlo, è ingenuo sostenerlo,
ma bisogna farlo, se no non esisti, e apparire – in opere, quindi
in lavoro – non è male, e mondano non è immondo, ma che cosa lo
dico a fare? Mondano e monaco possono essere simili, in un certo
senso. È bello così e basta, tutto qui.
Di
Genova – quale sfondo del soggiorno ligure di Shelley, Keats, Byron
– Roberto Mussapi scriveva che la città per sopravvivere «deve
guardare il mare». «Genova non può voltare il capo alle spalle,
dove un muro la chiude e condanna, non può volgersi e quindi
interrogarsi, scrivere meditando la propria avventura, può solo
viverla, consumandola sulle onde. Per questo non fonda una tradizione
d’immagini, un mito. Scrive la sua storia sulle acque, e ne affida
l’appercezione, l’intermittente e rapsodica memoria alla luce
della Lanterna. Solo una luce sul mare, un segnale di vita lanciato
nel buio, sarà il suo monumento e il suo emblema. Conquista i
mercati e il controllo delle banche, ma conia la sua moneta sui raggi
gettati all’acqua. Va avanti, non conosce pietre miliari ma rotte
evanescenti, le sue imprese si cancellano sulla superficie del mare
fondo e senza memoria. Come se tutta la sua vita fosse una partenza,
se ogni sua azione fosse mossa dal vento». Qual è la sua Genova,
quella granitica, labirintica e ombrosa, oppure quella ariosa,
trasognata e solare di Giorgio Caproni? O quella segreta che lei
tende a ricostruire, sia documentalmente che attraverso impressioni e
impronte lievi, relativa al passaggio a Genova di alcune figure della
storia? Meritano insomma un discorso a parte i raffinati volumi da
lei curati con Vittorio Laura, Una
rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria,
e il più recente Filippo
V di Spagna a Genova,
o trasmettono anch’essi qualcosa di essenziale del corrente umore
della città?
R.
La descrizione di Mussapi è troppo, in tutti i sensi: troppe parole
e troppa retorica. Basta un livello normale: Genova è ruvida e
nervosa, imperfetta, ma non ignorante. Io la vedo come uno stimolo,
continuo,
continuamente riveduto e scorretto, perché questa è anche la Città
Barbara, parola di Caproni. Oggi, di fronte alla Barbara, io non sono
uno storico locale, anche se ogni tanto mi occupo di storia locale.
Lo faccio in nome di una strana fede, che è questa: gli eventi del
1702 (Filippo V) o del 1893 (Elisabetta d’Austria, Sissi)
non sono
storia locale, ma azioni di una poesia e di un teatro – vitale e
vero – che provo a riscrivere, perché c’è stato. Lo giuro: c’è
stato. E
non mi interessano tanto i dati storici, quanto le situazioni e le
sensazioni. Il luogo mi sembra glorioso e luminoso, nonostante tutto
e contro molta apparenza: tutto quello che accade qui deve essere
glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza. Mi
interessa lo statuto di Genova, cioè ogni conferma dello stile ricco
e barbaro, senza noia. Quando accade, prendo nota.
5 aprile 2014
(a cura di Elisabetta Brizio)
(a cura di Elisabetta Brizio)
Un saluto al caro Massimo, che è unico
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