domenica 28 febbraio 2016
"Perché tu mi dici: poeta?" Nota per "Intendyo" di Massimo Sannelli
Questa non è una recensione, ma una storia. Facciamo preliminarmente un’ipotesi fantastica, la meno italianistica e filosofica di tutte le ipotesi possibili. Immaginiamo un uomo, europeo, nato tra il 1890 e il 1910. Potrebbe anche essere orientale, ad esempio un giapponese, ma pratico dell’Europa.
Immaginiamo che questo autore, molto borghese e molto colto, passi i primi anni della sua vita oscillando tra collegi e grandi viaggi, tra biblioteche e sport. Naturalmente veste bene e altrettanto bene parla, scrive molto, forse, ma non pubblica, o pubblica poco e distrattamente. In politica è ambiguo: detesta la normalità piccolo-borghese ma trova impraticabile il popolo; se è fascista è un fascista mistico; se invece è comunista, lo è con grandi sfumature mistiche, come Cesare Pavese.
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domenica 24 gennaio 2016
Ester Monachino, “Dieci variazioni intorno ad una rosa”
Impossibile sarebbe cercare di riassumere (dal Roman de la Rose e dal controverso Fiore di un giovane Dante, dove la rosa è oggetto agognato di conoscenza ma anche, concretamente, quasi ferocemente, di desiderio carnale, alla luminosa sublimazione mistica della “candida rosa” del Paradiso, alla cosmica e insieme sensuale corrispondenza barocca tra “sole in terra” e “rosa in cielo”, microcosmo e macrocosmo - fino alla “rosa di nulla, rosa di nessuno” di Paul Celan, quasi condensazione ed emblema di una novecentesca ontologia del nulla e della nullificazione) i diversi, variati, quasi infiniti valori, le sfaccettate e contrastate risonanze, che la Rosa ha assunto nel corso dei secoli - quasi ribollente athanor, ricettacolo di luce e di mistero, depositaria del ciclo eterno di disfacimento, trasformazione, rinascita in altre forme.
Con una potenza di visione quasi ovidiana, da carmen perpetuum,
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giovedì 31 dicembre 2015
Postulati per una topologia del testo letterario come spazio semantico
I
Dati un testo letterario, o una porzione di testo letterario di ragionevole ampiezza e in sé semanticamente compiuta, la temporalità di ciascuno dei vettori semantici (intesi come sequenze di parole pertinenti al medesimo campo semantico, o a campi semantici limitrofi o metaforicamente o metonimicamente interconnessi) che lo attraversano sarà determinata dalla media dei valori numerici attribuiti a ciascuna parola sottraendo dal numero di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che (all'interno della porzione di testo prescelta) la precede quello di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che la segue. Qualora debba essere comparata la temporalità
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martedì 29 dicembre 2015
Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”
Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).
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lunedì 2 novembre 2015
"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio
Qui la versione in pdf, che si legge meglio: http://www.youblisher.com/p/1252546-L-Es-empio-Il-caso-Massimo-Sannelli-a-cura-di-Elisabetta-Brizio/
Don’t
you know what’s so utterly sad about the past?
It
has no future. The things that came afterwards have
all
been discredited.
Jack
Kerouac, The
Town and the City
Nella
primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di
scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse
di «esporsi», come preferisce dire. In seguito
abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è
l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il
referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú
opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da
tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo
piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che
questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo
lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno,
ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva
(valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto
un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo
eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita
per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera
vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita
dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è
interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come
ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro
all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame
organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza
del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che
contestualmente le ispira e le comprende.
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sabato 24 ottobre 2015
Giselda Pontesilli, "Per Rosario Assunto (nel centenario della nascita)"
Rosario Assunto è, con Fedele d'Amico, il professore che ho amato ̶ che ho incontrato all'Università: entrambi, in gioventù, si comportarono in modo -a mio avviso- "vociano", cioè con quel fervore d'azione e comprensione che molti, Carlo Martini (1) e Carlo Bo (2) per esempio, con parole indimenticabili, hanno cantato cantando la "Voce": la prima, quella di Prezzolini, Slataper, Jahier.
Rosario Assunto infatti ha condiviso da giovane il fervore d'azione e comprensione di Adriano Olivetti, e firmato con lui, nel 1953, il Manifesto, la Dichiarazione politica del Movimento Comunità; Fedele d'Amico, pochi anni prima (1943-'44), ha diretto il settimanale «Voce Operaia», organo del Movimento Cattolici Comunisti.
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mercoledì 29 luglio 2015
Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"
«Eterno
in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare
l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale
la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno
nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e
dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo
Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la
matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti,
neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre
dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della
lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva,
se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
Anche
queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine
Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla
morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e
soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del
transeunte.
La
morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o
meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli
archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)
1
Eterno
in me il tuo viso
d’ultima
estate terrigna,
quando
a colli e falde arroventate
ferite
membra cosparge d’ebbro sale
un
verde temporale.
Impenna
all’aria smossa
dai
ricordi, triste pavana,
la
tua pelle che fronteggia bruna morte,
le
sere che un cielo dal respiro ferace
si
spegneva in luce.
2
Andavi,
è vero, come d’aria una folata
gelida
a stemperare il ventre caldo
d’estati
afose, ognuna già sprecata –
ma
la voce t’increspava in un pianto
(solo
adesso mi pare averlo inteso)
che
riallacciava in te un legame infranto.
Ora
non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte
mani più bianche a salutare
nel
primo buio, alla notte in bordo.
3
Un’ultima
estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e
cantavi nei silenzi
spiegazzati
dentro i vecchi cortili
come
se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per
tenebra rifonda –
e
immobile restavi ai secchi colpi
d’un
libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei
pianori appartati
dove
il fieno stende ad asciugare.
Pause
hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono,
lieve manto,
il
sapore di tristezza delle more.
C’è
pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva
dei piedi
il
correre nudo, le piaghe più atroci.
4
Nell’erbata
dove slomba, in torme sfinite,
l’orda
lucida dei cinghiali, fa notte nera
il
vento che viene ansando da smosse rive
di
torrente: il rigagnolo anche sommerge
la
pietra bianca con su incisi date e nomi.
Ai
rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato
a morsi, del raponzolo dorato
una
lebbra di corolla, e tremando all’aria
è
ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che
ora sfumano l’uguale, immenso nulla.
5
Scottano
al sole di luglio gli ocracei stagni
dove
innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano
l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto,
smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano
tacendolo tra sedie e altalene
ogni
canto di cicala, singhiozzo nell’erba.
Sulle
pietre del greto salmastre ombre allunga
al
centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei
nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’
allegro vociare in questa immota tristezza
delle
ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i
sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).
6
Luna
scioglie nel lago –
fa
paura a ridirsi quel vuoto
che
sparendo hai creato.
La
terra, tu gli manchi
ed
eri acqua nella stagione secca,
eri
lucida vita.
Oscura
la collina –
di
stelle non conosco pietà
per
continuo dolore.
Le
bestie, tu gli manchi
ed
eri amica nelle lunghe sere
di
screpolata estate.
7
Spengono
i rumori della strada, a sera
(nei
tuoi occhi si venava madreperla) –
ho
atteso di guardare i voli delle cince
nascosto
tra il cordame di vitalba secca -
o
le macchie che luna lascia sui prati,
contate
da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro
dei castagni, se anche giugno
se
ne andava senza riportarti dal nulla.
8
Stavi
tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la
furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido
di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva
le acquate che rimontavano forte.
Piangevi
per le piccole volpi nascoste al folto
dei
tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando
i cani scioglievano la corsa disperata
e
tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.
9
In
neve di luce crollava il giorno
e
della tua festa rimase fermo
nell’aria
scossa dal riverbero di lune
un
nastro che ora al buio s’ inviola.
L’orma
cancella ai tocchi della mezza,
i
denti spezzati delle innumeri ore
dentro
gli ombrosi giardini (quel sole…)
in
calma attesa di un lento tuo gesto.
Di
fronde risuona, risacca, ogni mattino
una
diversa voce: è il ricordo del mondo
in
alto riverso, rami divenuti gli scogli
del
cielo più blu, quell’autentico mare -
o
i cadenti colli di verde grondanti,
argine
al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava
uno per uno i corpi appesi
al
crepuscolo triste, ingorgo di rovi.
10
Nell’agosto
che a stento s’allumava
ogni
sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra
che sei emergeva da acque ceree –
il
biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai
spento ha il cribrare questi miei giorni –
se
nuova pena all’alba cruentava più lontano.
11
Una
morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le
amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono
di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
12
Slavata
dai canti -
l’afa
candida del mezzogiorno,
cenere
imbianca il cuore
delle
cose –
Tu
vieni dai morti
alle
pianure bruciate in solleone,
con
te porti
profumo
di spezie e lacrime, o pioggia –
da
pinete di porpora, i passi blu
nelle
sere impalpabili di luce.
Ma
tu vieni dai morti
e
ad ogni alba ci ritorni.
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