Ha visto la luce, dopo una lunga gestazione, una nuova traduzione dei Fiori del Male, nata da un assiduo, pluriennale lavoro di analisi e di raffronto delle diverse traduzioni italiane preesistenti. Mai come in questo caso, dunque, la traduzione (in specie la traduzione poetica) rivela e conferma la sua natura di atto essenzialmente critico, riflessivo ed autorifessivo, dato che non può non fondarsi su una consapevole analisi non solo del testo di partenza, ma anche dei testi d'arrivo ‒ dei metatesti ‒ cui esso ha dato adito ed occasione, e che hanno finito, sul piano della ricezione, per fondersi con esso, fino a divenirne inscindibili. Faccio riferimento all'opera di Francesca Del Moro, edita da Le Càriti (http://www.ibs.it/code/9788887657562/baudelaire-charles/fiori-del-male.html).
Qui non ci sono le "compensazioni" di cui parlava Fortini, i necessari e forzati compromessi fra la resa del senso e quella della forma (essendo del resto, la poesia, come insegna Valéry, una perpetua esitazione fra il suono e il senso).
Qui c'è davvero, direbbe Quasimodo, una resa "equilirica", una corrispondenza pressoché perfetta, che arieggia addirittura le fluide oscillazioni prosodiche - giocate sulle sineresi, le sinalefi, la presenza-assenza delle vocali mute - dell'alessandrino, quella tensione interna che dal cuore e dall'anima del verso tradizionale (si pensi a Pascoli) sprigionerà poi il "nodo ritmico", i "movimenti lirici dell'anima", che pervadono il verso libero. La poesia, dice Dante, essendo "per legame musaico armonizzata", non si può infrangere, scomporre e ricomporre, come avviene nella traduzione, senza venirne snaturata. In casi - rarissimi - come questo, invece, quel legame musaico si trasfonde e rivive, come reincarnato, nel testo d'arrivo. La traduzione non è, qui, "metapoesia analogica", né "metapoesia mimetica" (per citare una dicotomia introdotta da alcuni traduttologi), non riecheggia o rispecchia, variamente alterandoli, i contorni dell'originale, né pretende di ricalcarli esattamente, in nome del feticcio della "fedeltà »: essa è, semplicemente, poesia, ed è metapoetica ed autoriflessiva nella stessa misura, esplicita o implicita, in cui lo è il testo originale - in cui lo è forse, inevitabilmente, ogni discorso letterario o filosofico, che sempre ripensa e ridiscute se stesso, i propri mezzi e domini, i propri intenti e riverberi.
Dal volume riproduco, per gentile concessione, la traduzione di un testo straordinario, tipico esempio, sul versante poetico, di quella critique poétique, di quel poème critique, insomma di quella compenetrazione e di quella fusione fra coscienza critica e intuizione lirica, fra sensibilità e riflessione, esperienza esistenziale e consapevolezza culturale, che costituì una delle note dominanti del simbolismo europeo, fin dai suoi albori e dalla sua essenza, e che sembra invece, oggi, essere andata smarrita, in una realtà in cui la creazione letteraria pare essere nuovamente regredita al mito o al feticcio della spontaneità e della naturalezza, e la coscienza critica sembra confinata nello specialismo e nel tecnicismo accademici, o viceversa dissolta nella frivolezza effimera delle cronache cultural-mondane, senza alcuna mediazione possibile.
I Phares condensano l'impressione visiva, e insieme la caratterizzazione tematica e psicologica e lo scandaglio simbolico e semantico, tratti dalla contemplazione dei quadri, in metafore, analogie e suggestioni che spesso non trovano un esatto corrispettivo iconografico, una precisa rispondenza figurativa, ma nascono piuttosto dalla fusione, dalla sovrapposizione e dalla trasfigurazione operate dall'occhio interiore, dalla pura visione ricondotti alla loro sostanza profonda. La poetica dell'analogia agisce sul piano della critica creatrice non meno che su quello della creazione poetica, guidata da un surnaturalisme che trasfigura il dato naturale ora in preziosità e in artificio, ora in allucinazione e straniamento.
Il «grido ripetuto», l'«ardente singhiozzo» trasmessi e riecheggiati di epoca in epoca, di generazione in generazione, fino a morire e spegnersi, come in olocausto, a piedi della Divinità, indicano la perpetuità, la rivificazione assidua della creazione, della tradizione, del pensiero, e insieme, forse, la loro ultima ed estrema vanità, il loro venir meno alle soglie dell'abisso, ale frontiere dell'indicibile.
Ma nell'atto stesso della traduzione quella corrente vitale e creatrice, quell'anelito consapevole e disperato, trovano uno dei loro mille echi, delle loro innumeri metamorfosi e trasfigurazioni. Il silenzio in cui le voci e i colori dell'arte vanno infine a spegnersi tornerà a risuonare e a parlare, indefinitamente, fino a che il testo verrà riletto, reinterpretato, ritradotto. La morta vita, la voce silenziosa dell'arte persistono, per questa via, proprio grazie al lavorio dell'interpretazione e della riscrittura. (M. V.)
I FARI
Rubens, fiume d’oblio e giardino indolente,
letto di carne fresca dove non si può amare,
ma in cui la vita s’agita, fluisce eternamente,
come l’aria nel cielo ed il mare nel mare;
Leonardo da Vinci, specchio oscuro e profondo,
dove angeli incantevoli dal sorriso cortese
e misterioso appaiono in ombra sullo sfondo
dei ghiacciai e dei pini che chiudono il paese;
Rembrandt, pieno di murmuri, desolato ospedale,
d’un grande crocifisso adorno solamente,
dove prece di pianto dall’immondizia sale,
da un bagliore d’inverno trafitta bruscamente;
Michelangelo, luogo incerto dove schiere
miste d’Ercoli e Cristi vedi, e ritti levati
i fantasmi potenti che sul far delle sere
protendono le dita dai sudari strappati;
Tu che di ogni cafone la bellezza raccogli,
e la rabbia dei pugili, l’impudenza dei satiri,
uomo debole e giallo, cuore gonfio d’orgoglio,
o Puget malinconico, sovrano dei forzati;
Watteau, tu, carnevale, dove i più rinomati
cuori come farfalle, delle fiamme in balia
errano; lievi e fragili scenari illuminati
da luci che riversano sul ballo la follia;
Goya incubo pieno di cose mai sentite
e in mezzo ai sabba feti cotti nei calderoni
e vegliarde allo specchio, e bambine svestite,
che aggiustano le calze per tentare i demòni;
Delacroix, lago infesto di diavoli e di sangue,
da una selva d’abeti sempreverdi ombreggiato
dove fanfare strane sotto un cielo che langue
vanno come un sospiro di Wéber soffocato;
Queste maledizioni e lamenti di vinti,
estasi, osanna, grida, pianti, Te Deum corali,
sono echi ripetuti da mille labirinti
sono l’oppio divino per i cuori mortali!
È un grido ripetuto da mille sentinelle,
l’ordine rinviato tra mille portavoce
un faro illuminato su mille cittadelle,
dei cacciatori spersi nelle selve è la voce.
Veramente, Signore, è la testimonianza
di dignità migliore che ti possiamo offrire
quest’ardente singhiozzo che nei secoli avanza
e viene sulle sponde tue immortali a morire.
(traduzione di Francesca Del Moro)
LES PHARES
Rubens, fleuve d’oubli, jardin de la paresse,
Oreiller de chair fraîche où l’on ne peut aimer,
Mais où la vie afflue et s’agite sans cesse,
Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer;
Léonard de Vinci, miroir profond et sombre,
Où des anges charmants, avec un doux souris
Tout chargé de mystère, apparaissent à l’ombre
Des glaciers et des pins qui ferment leur pays;
Rembrandt, triste hôpital tout rempli de murmures,
Et d’un grand crucifix décoré seulement,
Où la prière en pleurs s’exhale des ordures,
Et d’un rayon d’hiver traversé brusquement;
Michel-Ange, lieu vague où l’on voit des Hercules
Se mêler à des Christs, et se lever tout droits
Des fantômes puissants qui dans les crépuscules
Déchirent leur suaire en étirant leurs doigts;
Colères de boxeur, impudences de faune,
Toi qui sus ramasser la beauté des goujats,
Grand coeur gonflé d’orgueil, homme débile et jaune,
Puget, mélancolique empereur des forçats;
Watteau, ce carnaval où bien des coeurs illustres,
Comme des papillons, errent en flamboyant,
Décors frais et légers éclairés par des lustres
Qui versent la folie à ce bal tournoyant;
Goya, cauchemar plein de choses inconnues,
De foetus qu’on fait cuire au milieu des sabbats,
De vieilles au miroir et d’enfants toutes nues,
Pour tenter les démons ajustant bien leurs bas;
Delacroix, lac de sang hanté des mauvais anges,
Ombragé par un bois de sapins toujours vert,
Où, sous un ciel chagrin, des fanfares étranges
Passent, comme un soupir étouffé de Weber;
Ces malédictions, ces blasphèmes, ces plaintes,
Ces extases, ces cris, ces pleurs, ces Te Deum,
Sont un écho redit par mille labyrinthes;
C’est pour les coeurs mortels un divin opium!
C’est un cri répété par mille sentinelles,
Un ordre renvoyé par mille porte-voix;
C’est un phare allumé sur mille citadelles,
Un appel de chasseurs perdus dans les grands bois!
Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage
Que nous puissions donner de notre dignité
Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge
Et vient mourir au bord de votre éternité!
sabato 13 aprile 2013
venerdì 29 marzo 2013
Elisabetta Brizio, "Ipotizzando, in sei gradi. Su 'Ipotesi di donna' di Patrizia Garofalo (Corbo Editore, Ferrara 1986, prefazione di Giorgio Carproni)"
Giorgio
Caproni non amava le prefazioni. Gli apparivano, come scrive in una
delle sue rarissime, quella ad Ipotesi di donna di Patrizia
Garofalo, la raccolta cui fa riferimento questa lucida lettura di
Elisabetta Brizio, simili a «maschere»
che incardinano, incasellano, e finiscono per nascondere e reprimere,
il vero volto di un poeta (come mostra Quando si è Qualcuno
di Pirandello, dove il ruolo, l'etichetta sociale di «scrittore»,
anzi di «grande scrittore», bloccano e gelano la fluidità della
corrente vitale, che può rianimarsi e ricominciare a trascorrere
solo al contatto della fresca ed innocente sensualità di una giovane
fanciulla).
Non
volle mai prefazioni per i suoi libri, e molto raramente ne concesse
ad altri poeti. Ci si può chiedere, allora, che cosa, quale segreta
e sottile affinità spirituale, lo portasse ad accostarsi proprio ai
versi della poetessa. Erano, forse, proprio la molteplicità
fascinosa, la proteiforme mutevolezza, la polivalenza danzante, di
questa “ipotesi di donna”: ipotesi, direi, proprio nel senso
etimologico, o pseudo-etimologico, di hypò-thésis, di
sub-stantia, di sostrato nascosto, latente, ma fondante, della
personalità; fondo fluttuante, traslucido e trascorrente, forse non
del tutto chiaro, evidente e perspicuo neppure all'occhio interiore
del soggetto stesso che lo racchiude in sé, ma proprio per questo
ricco di sfumature, chiaroscuri, risonanze.
«Ti
acceca un'asciutta luminosità stellare», recita il verso che più
di ogni altro affascinò il poeta ‒
«balena vivo», annotava, il «lampo» di quel verso, «di una
incisività (di una necessità) sorprendente». Meno felice gli
appariva «I corpi brillano affatto luminosi» ‒
e, non a caso, nel testo a stampa quel verso compare ritoccato ed
ampliato, in una efficace immagine: «I corpi brillano lacrimosi dopo
un incendio a fatica / spento che ha bruciato tutti in un giorno»
(con intensa eco, forse, della simbologia, cara agli ermetici,
dell'esistenza come fuoco, arsione, consunzione subitanea, «rogo»,
«alta, cupa fiamma»).
Evidentemente,
il poeta che nel Conte
di Kevenhüller
inseguiva vanamente la Bestia-Parola, l'Onoma inafferrabile, il
dantesco linguaggio-pantera di cui si coglie il profumo fuggevole, ma
di cui non si riesce ad avere pieno e perpetuo possesso ‒ il poeta
che traduceva questa sua quête
balenante e corrusca («Nel sole s'erano visti lampi / fuggenti») in
una cantabilità mossa, nervosa, complessa, ondivaga, ambigua
(tutt'altro
che “sabiana”, tutt'altro che pianamente e pacificamente
discorsiva e comunicativa, come vorrebbe certa critica) ‒ non
poteva restare insensibile ai versi di una poetessa che sentiva in sé
‒ nel suo Sé
‒ nel suo stesso corpo lacerato e scosso ‒ l'impronta e la
ferita dell'Aleph,
della lettera primigenia, del nucleo originario che di ogni cosa è
principio e fine, contenente e contenuto, dispiegamento e
ripiegamento degli orizzonti dell'Essere: «Fu allora che mi
regalarono l'Aleph; / mi dissi di averlo visto, tempo prima sul cavo
del mio tronco». (M. V.)
Preliminarmente.
Da un’esigenza del cuore, dal desiderio di un riscatto dalle
“lineae” che “desiderantur”, dà l’impressione di esser
stata concepita l’opera prima di Patrizia Garofalo, Ipotesi
di donna,
ove confluiscono testi poetici che tracciano i lineamenti essenziali
di anni che vanno dall’adolescenza all’età matura e pienamente
consapevole. Seppure risalenti a tempi diversi, i testi qui riuniti
non denotano sensibili salti di registro, se si eccettuano quello
d’esordio, dove il verso si allunga e si alterna a incisi di prosa
poetica, le sezioni contraddistinte da una partitura strofica
maggiormente estesa e flessibile, e l’epilogo (Dalle
pagine di un diario),
in cui la condizione di possibilità dei nessi tra premesse e
derivazioni viene sottoscritta dall’autrice come qualcosa da
condividere con un lettore che si sintonizzi sulla medesima onda del
condizionale. Come quanto detto, tra le altre cose, da Giorgio
Caproni in prefazione, e cioè della maniera di «rasciugare il
sentimento privato non appena minacci di trasformarsi in
sentimentalismo», la Garofalo rientra nei ranghi del suo lucido
ipotizzare tra illuminazioni, smentite e pause mediante gli asserti
più o meno lievemente marcati di ironia che immediatamente succedono
alla confessione, e, si potrebbe seguitare, con le frequenti sequenze
che enumerano – istituendo talora un climax
che incorpora l’arco discendente – e che paiono neutralizzare il
sentimentalismo fin dal suo nascere: se infatti esse focalizzano,
perlomeno discriminano, evitando la sovrimpressione di piani
differenti benché correlati, costituiscono al contempo un fattore di
sviamento dell’attenzione, nella misura in cui promuovono il
trapassare da una immagine all’altra, da un rilevamento all’altro.
Ed è significativo come questo prender le distanze ricorrendo agli
strumenti dell’ironia costituisca una chiara allusione alla
dimensione della «paura» (connotatore che ritorna spesso nel
libro), un segno, insomma, di incertezza, della problematicità nel
dare un senso univoco ai gesti e ai moti dell’esistenza. Cosa che
inibisce l’assimilazione dei «fantasmi antichi» a una simbologia
del regressivo, anzi, favorisce il suo rovesciamento, vale a dire il
progressivo approssimarsi a delle cognizioni in vista di una
reidentificazione votata tuttavia a rimanere provvisoria.
Per
ipotesi, al plurale.
«Proposizione immaginata, supposta, da cui si traggono conseguenze»,
dice la definizione della parola (http://www.etimo.it/).
Oppure, «congettura o supposizione che tende a spiegare fatti di cui
non si ha perfetta conoscenza» (DELI, Zanichelli). “Ipotesi”, in
Ipotesi
di donna,
si espone quale terminus
ad quem,
superficie temporale entro cui verificare e verificarsi. Stagione –
eminentemente, antecedenza –, allora, prorogabile, e in parte
ancora da scrivere. Da parte di una donna, le cui affermazioni
acquisiscono un duplice carattere: sono tesi, assunzioni, postulati –
anche in virtù dell’assenza di congiunzioni condizionali –
mentre lasciano un vasto margine alla fallibilità, all’idea di un
assunto presuntivo soggettivo, e come tale fallibilissimo. Da parte
di una donna che muove da antecedenze certe e nebulose («cifre
irrisolte / gesti mancati»), l’ipotesi è qui causale e si dispone
ad accertare le condizioni per le quali qualcosa è stato, divenendo
la linea-guida per una verifica delle premesse – anziché per una
glossa di carattere emotivo – in quest’arco di vita disseminate.
Di «tutte le mie ipotesi», al plurale, scrive l’autrice.
Essere
ed essere stato.
Ora, come anzidetto, “ipotesi” designa soprattutto qualcosa da
riconoscere e mettere in chiaro, e l’accertamento della eventualità
o meno di un fatto si svolge qui mediatamente e a partire dagli
effetti del tempo: sarà l’esperienza a selezionare e a stabilire
se ciò che è stato sia unicamente supposizione o previsione fondata
che ci autorizzi a dire: «– Io lo sapevo – / Oggi posso
riderne». La nozione di ipotesi viene qui a configurarsi anzitutto
nell’accezione di ipotesi dell’essere: «non individuo cosa sia
la spaccatura in cui i miei / occhi sono da tanto tempo fissi».
L’anomalia – la sfasatura – è nel mondo del poeta oppure nel
mondo? È l’esito «del male essere stata o dell’essere stata?».
L’ipotesi dell’essere si specifica allora in ipotesi dell’esser
stato, se le «carte stracciate / cercano il gesto / che le compose».
Per avere qualche riscontro a questo nodo la cosa minima, inferiore
all’apparenza, e quella somma vengono ad assumere il medesimo
rilievo, in una prospettiva in cui «si fonde l’importanza di Dio
con quella di una foglia» – là dove “Dio”, quando non è
pathos
di trascendere la drammatica
insensatezza della storia,
è indeterminata e non accessibile forza vitale. L’ipotesi di
possibilità è il metodo di sondare il già vissuto mentre, per
certi versi, esso sembra giudicarci, il che instilla in noi la
sensazione di esser destinati alla permanenza nello stato ipotetico.
Ciò sebbene lo sguardo retrospettivo della Garofalo si esima dal
porre l’enfasi sul senso dell’impermanenza («al nostro dolore è
scampo solo / la nostra presenza»), e si predisponga a pensare
l’assente come a qualcosa di non estinto. Tutto passa senza che di
esso tutto si perda: dal «silenzio limpido di un’estate» allo
«sbadiglio di un bambino», dai balli adolescenziali dei quali
restano gesti quasi rituali con la terra, «per profondo e pauroso
senso di fertilità» – e un siffatto legame con gli elementi di
una natura magica, alma
mater
e benigna sarà una dominante nella sua produzione successiva.
Essere
e coesistere.
Malgrado i contenuti veri dell’esperienza restino privatissimi, si
susseguono nell’opera – talora sovrapponendosi – alterni e
differenziali argomenti nel bisogno di un recupero cosciente del dato
pregresso. Recupero dell’assenza, in sommo grado (nelle accezioni
di estraneità, «torpore», di distratta presenza, di lontananza, di
omissione, della dimensione dei desiderata
in quanto mancanti), della incomunicabilità tra gli esseri
(«destinatario sconosciuto / rimandato al mittente»; «nessuno di
noi c’è / eppure nessuno manca / all’appuntamento»), del
passato che si è fatto consapevolezza, dell’inerte in attesa che
qualcosa di vitale promuova una reazione, dello specchio esso stesso
menzognero, «opaco», che invita a ricercare a partire dalla
«evanescenza di un’immagine», e che indica il vero spettro
nell’anonimato, nell’indifferenziato. Non unicamente nei termini
di una indifferenza tra gli esseri, ma peculiarmente in quelli di
allegoria dell’assenza di margini, la vera deriva, il disgregarsi
del soggetto convertito in una somma di automatismi in sconnessione.
Inserti vissuti si alternano a rapide evocazioni di esterni che, non
banalmente, designano l’indeterminarsi, l’inoggettivabile
non estrinseco a noi, alla maniera in cui la vita cosmica pare talora
intonarsi alla nostra. A questi motivi speculare è la struttura
dell’opera, non alludente, sotto i profili grafico e
strutturale, a uno sgretolamento comunque sotteso, ma non dato con
categorie retoriche o in misura particolarmente trasposta.
Ipotizzando, l’autrice vuole ostentare un vuoto di cognizioni nei
termini di una prolungata e aperta perplessità, orizzonte nel quale
l’ipotesi si dilata pervasivamente ai vari campi dell’esperienza.
E lo stato ipotetico della parziale conoscibilità delle cose («anche
tu / più o meno»; «è quasi tutto vero») perdura, giacché non ci
sono dimostrazioni della validità o al contrario della fallacia
delle nostre spiegazioni retrospettive.
Esperienza
e poesia.
Se ne trae un’idea positiva, “adulta” nella integra coscienza
della propria persona,
del consummatum
est,
esperibile da ciascuno anche a prescindere da una storia privata
– questa, che si scompone nelle varie fasi che compongono la vita
–, la prospettiva del residuo acquisito delle figure
incompiute, impure e falsate, della vita trascorsa, come vedremo
nelle successive opere della Garofalo, dove il sentimento di perdita
verrà a caratterizzarsi alla stregua di un ingrediente essenziale
dell’esistenza. Con la differenza di una visione della poesia che
salva, purché la vita non si risolva interamente nella letteratura.
Dell’atto creativo come “memoria salvata”, come uscita da un
silenzio che subirà un ampliamento terminologico teso a connotare un
maximum
di negatività, dato e reso inoltre da un sensibile difetto di
presenze oggettuali, un silenzio ridondante, che «stordisce», che
«tace» e che induce finanche ad «ascoltare il colore», semiotica
di una ricerca di qualcosa più in là: nelle opere che seguiranno,
infatti, questa tensione a un oltre sarà resa sulla pagina
attraverso una maggiore torsione cui viene sottoposto un nominare
tutt’altro che incline all’astrattezza, quasi un evento singolare
che implichi un plus
semantico volto a esistenziare, e che fonde in sé solenne e
quotidiano, anima e corpo – canone costante della poesia della
Garofalo. Qui, per il momento, il linguaggio poetico si oppone
quale linguaggio autenticamente vero a una comunicazione
tra gli esseri elusa, «evitata», assuefatta, di per sé
«mistificazione», tanto che talora la risposta è già data per la
prevedibilità dei termini di una interlocuzione, peraltro spesso
interrotta, con un “tu” mutevole, indefinito, a sé stante. E
nella misura in cui si apre alla ricezione degli altri, l’espressione
verbale, se non ha ancora proprietà di riscattare dall’insensatezza,
si apre in Ipotesi
di donna
a una inchiesta condivisa che esorcizzi almeno la solitudine della
scrittura.
Tempo.
Resta
il tempo cui l’essere si correla, salvo abbandonarsi a
quel nichilismo paralizzante che non rientra nell’orizzonte di
questa visione del mondo. «Il tempo raccoglie / un’ipotesi di
donna» (proposizione centrale, dal valore non suppositivo ma
assertivo) nel darsi dell’essere nel tempo. Raccoglie (nella
fattispecie: identifica, sorprende), allora, non solo supposizioni,
ma referti concreti che convengono a definire una esperienza. E
tuttavia: a tratti il nesso causale che istituisce il raccordo tra i
referti memoriali sembra venir meno in virtù dello sfalsamento dei
livelli temporali. L’oltranza dell’ipotizzare si svolge in una
vaga ambivalenza temporale: ha decorrenza lontana e sembra differirsi
(«consideratemi pure un periodo di / transizione»). Il tempo
sperpera e fa sperperare, ma chiarisce ciò che non trattiene. Del
resto, se «il mosaico non è mai un’opera / finita», ogni ipotesi
resta condizionale, e ciò non tanto per l’insufficienza o per
l’approssimazione dei dati sui quali l’ipotizzare si fonda. Con
questo verso la Garofalo vuole anzitutto dirci che la vita è una
realizzazione e una rivelazione costanti incomparabili con le nostre
cognizioni, e che ogni conclusione ipotizzabile può valere solo
temporaneamente.
Elisabetta
Brizio
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domenica 10 marzo 2013
Franca Alaimo, "Su 'Falò de' rosarî' di Neil Novello"
La
forza dei testi poetici che compongono il Falò
dei rosarî di Neil Novello (Aragno editore) si origina sia da un’infiammata ed ancora urgente
sostanza memoriale, sia da una polarizzazione dello stile verso
l’alto, di carattere colto ed intellettuale, attraverso il quale
l’autore realizza un singolare impasto drammatico dell’evento
presente ancora turbato e doloroso e del passato ricordato e
rivissuto per deflagrazioni percettive che scompongono la
continuità e leggibilità del dettato, avviandolo verso una sorta
di trobar
clus,
alla maniera della lirica occitanica. Quest’ultima, infatti,
costituisce un punto di riferimento molto forte per l’autore, sia
sul piano linguistico, orientato e verso una dinamica interna spesso
tesa all’invenzione di nuove parole e ad un insospettabile
accostamento di lemmi e sintagmi, sia, soprattutto, sul piano di
certi topoi
compositivi, come rivela l’uso del senhal,
ossia
del nome-schermo fittizio e simbolico riferito alla donna amata, che,
però, qui non è la dama da corteggiare - magari lontana e rarefatta
- con raffinate armi retoriche (queste,
sì, rimaste tali, ma per decantare e rendere docile il lutto), bensì
la stessa madre del poeta, strappata al suo amore filiale dalla
crudeltà della morte.
La
novità del soggetto e dell’accadimento rispetto al modello
provenzale capovolge la percezione della distanza da un
vagheggiamento amoroso struggente e spesso squisitamente letterario,
concentrato nell’esplorazione di uno spazio incolmabile, in una
terribile consapevolezza del “mai
più”
(che riguarda soprattutto il luogo-tempo vissuto in presenza della
madre), spesso ripetuto nei testi (con un qualche riferimento,
casomai, alle luttuose onomatopee del Pascoli); consegnando l’uso
stesso del senhal,
in questo caso Rosa, ad una tradizione diversa, di stampo cristiano,
costituitasi, a sua volta, dall’elaborazione in senso mistico di
un’ampia simbologia originaria attribuita fin dall’antichità a
questo fiore.
Neil
Novello dissemina nei suoi testi tutte le possibili significanze
simboliche attribuibili alla rosa, attraversando secoli e ambiti
diversi, così che vi si trovano molti e spesso sovrapposti
riferimenti: all’iconografia ecclesiastica che fece della rosa il
simbolo di Maria e, dunque, della verginità, alimentando l’ossimoro
del dogma cattolico della “vergine e madre” ( “ora
veglia tu la vergine / e libera l’ora sorvolante / su noi” e “ti
sale per bocca il petalo / e in ampolla di vergine / calice di sangue
svetta in croce”);
e ancora una volta alla poesia trobadorica che vide in essa il
simbolo stesso dell’amore terreno; e alla setta dei Rosacroce che
scelse come simbolo una rosa a cinque petali posta al centro di una
croce ( “E
tu scoli dal ventre, / sei due rose crociate a fiorame” );
e a
certi elementi architettonici degli edifici sacri; ma anche, più
semplicemente, a figure emblematiche molto popolari, come il sangue
di Cristo raccolto nella mitica coppa del Graal (“Bevi
tu a pieni palmi / dal Graal miele d’ali e rugiada) o
quello versato
dagli
uomini per i propri ideali e, ancora, l’amore, la regalità, la
vita stessa.
Inoltre,
il sehnal
Rosa, che sostituisce il vero nome della madre, Clelia, rivelato
nella sesta stanza della sezione Stasimo
in petalo giallo,
si amplia e si moltiplica fino ad originare un vasto campo semantico,
che arricchisce di sfumature intellettuali ed emotive immagini e
ricordi, collocando la figura materna in un aureola di santità, che
le irraggia attorno aggettivi e formule di sapore liturgico,
trasformandola in una sorta di vittima sacrificale offerta a Dio.
Dal
repertorio della poesia provenzale proviene anche quell’indissolubile
nodo fra la natura e la bellezza femminile suggerito da una
molteplicità di sottilissimi quanto intuibili fili psicologici,
visivo-emotivi, che ne hanno determinato una non scalfibile costante
dell’immaginario poetico; così che in una sorta di edenicità
pre-mortale la madre, “Rosa” mistica di Neil, abita come una
“vestale
di
fiori”
(iris, crochi, viole, gerani, genziane, bocche di leone, anemoni,
cerfogli, lillà, asfodeli, alcuni dei quali carichi di reminiscenze
letterarie o di sensi simbolici) un luogo rigoglioso, quasi sempre
primaverile, brulicante di vita, spesso rugiadoso d’albe virginee o
invaso dal biancore latteo della luna, la veste e la corona
illuminate dallo splendore di pietre preziose come nei dipinti delle
Madonne rinascimentali, ritratte con i loro bimbi sul grembo o ai
piedi, o in atteggiamenti giocosi, pronte, come faceva un tempo la
madre di Neil, all’apparire e disparire per celia dietro un albero
o cespuglio per lanciare un divertito “cucù”. Ma la morte non è
un gioco, ma la morte è il disapparire per sempre (“colma
di nulla la bara santa”),
come sa Neil, che a queste immagini di sacra beltà e serenità
contrappone e sovrappone la consapevolezza dell’amaro presente,
l’ineluttabilità delle croci nere, il consumarsi delle cose che
tornano pietre, natura, lapidi sulla non-carne, testimoni e custodi
di morte, (“Di
notte, svapora il sangue / tra croci di camposanto”),
lavorando con febbrile e dolente volontà a caricare i suoi testi di
quella tensione e di quegli improvvisi trascoloramenti, di
quell’impasto lessicale ora scuro ora chiaro che determinano una
sottile e potente enigmaticità, la quale ritorna al lettore come una
delle tante spine che sorreggono l’immagine della Materna Rosa
disfatta e sempre viva.
E
così, pur muovendosi il poeta in un terreno rischioso, ogni eccesso
sentimentale viene evitato grazie ad un’originale tecnica
versificatoria in cui il dolore, esploso in schegge sparse, viene
quasi raccolto e travasato in una necessità linguistica, il cui
effetto sonoro diventa una sorta di “e-stasi” dal senso comune,
una puerile e ancestrale “ninnananna
a Rosa, / con labbra tremanti”
in cui la distanza fra l’altrove e il qui sembra annullarsi in
favore di uno spazio–tempo di reciprocità, di dialogo, in cui la
cata-strofé si appropria del suo etimo costituendo un’occasione di
ribaltamento del processo cognitivo, una germinazione mistica di
infiniti rosarî di preghiera e di bellezza, in cui l’iter
interiore di salvezza
“si alza dal buio / nel fondo della luce” ,
grazie a lei, la madre, “Ianua
Rosa di luce”.
Franca
Alaimo
14
Agosto 2011
Per acquistare il libro:
http://www.ninoaragnoeditore.it/?mod=COLLANE&id_collana=49&op=visualizza_libro&id_opera=458
http://www.ibs.it/code/9788884194992/neil-novello/falo-rosari.html
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giovedì 7 marzo 2013
I sognatori diurni. Su "La grazia sufficiente" di Giancarlo Micheli
A distanza di anni dalla lettura di un
celebre libro di Roland Barthes, La
grazia sufficiente di
Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato,
venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei
segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma
senza interferenze con l’idea formale dell’essai
barthesiano riaccade come
narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku
narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e
(con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
Più che per ideale sovrapposizione
romanzesca all’Impero di
Barthes, La grazia
sufficiente,
autenticando un déjà–vu
critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella
volontarietà del memorabile), è saliente esemplare
nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia
è un film narrativo a
sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit
primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il
Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica)
ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki
di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella
stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker,
personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un
europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo
nipponico.
Ma La
grazia sufficiente, nei tre
secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone
l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti
di Barthes – il senso obtusus,
ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito
del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È
il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito
abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil
nell’Uomo senza qualità.
La grazia sufficiente sembra
collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della
civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale
del mondo nuovo e la grandeur,
espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco
del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra
nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare
dell’idea,
idea che nella Grazia
è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire
l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo
musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte
Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo
dell’Azione Parallela, Diotima.
Un romanzo dell’idea è quindi La
grazia sufficiente, un’idea
ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento
di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e
del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior
(Taisho) e storia minor
(Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di
Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale
camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch,
la sua storia di nipponizzazione
ontologica passa dalla
cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in
Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e
Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta
edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata
inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie
adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la
Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie
fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch
(che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla
Storia (il glorioso passato del Liefde).
Se i tasselli memoriali della Grazia
non segnalano presenze di
proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole
proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di
memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via
che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel
memorabile. Ma la storia (maior
e minor)
e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia
sembrano
salire a un’acme, poiché
condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso
della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior
e minor)
si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è
quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a
neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale,
l’immanente per l’idea trascendente.
Non a caso, appena il memorabile
scava nella memoria di una recherche
autobiografica (in Taisho e
in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi
confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res
gestae di Taisho, la violenza
(la faida religiosa nelle visioni,
la vita a Deshima per
Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte
della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la
tentazione del rivissuto
memorabile, e così
inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto
tragico dell’esperienza.
La grazia sufficiente vira
dunque altrove: il memorabile della
memoria si fa immemorabilità nella
violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il
militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà
di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne
prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in
cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea
del rifiuto.
All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la
vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la
speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla
«dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un
empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna
dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
Se Baruch sovverte l’idea di
predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della
felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile
nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno
dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane
l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della
vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il
tempo ritrovato di
Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho
nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica
(la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione
preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche
attraverso la più remota possibilità – che è parsa
un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante
di Jean Vigo –, l’esercizio
dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane
donna (déjà–vu
e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di
un’ennesima razos
visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per
ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la
madre perduta, la vita sognata.
Neil Novello
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venerdì 1 marzo 2013
In margine a un inedito di Paolo Ruffilli ripensando a Natura morta
Per
Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e
impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni
romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e
valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione,
assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete,
invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena»,
vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma
di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes
dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio
di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante
immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà»
permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente
difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità
conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del
mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei
referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio
essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il
corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo»,
in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di
sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori
della sfera dell’arte?
Si
stacca la parola
Ecco
che di colpo
riesco
a dare
corpo
all’ombra,
si
stacca la parola
dal
groviglio
e
dà forma al fantasma
figlio
del sogno
che
si sveglia
e
respira
il
respiro della vita
con
il suo peso
e
con la meraviglia
che
il carico deforma
e
che potenzia
mentre
lo assottiglia.
«Si
stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame
dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un
incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se
l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –,
volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica
ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del
retroscena». La madeleine
in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di
sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che
la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con
l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli
indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in
filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di
una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali
dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera
oscura)
non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità
del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile
anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione
che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono,
in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della
vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli
si flette in due modi: la distanza da noi è altamente
retrospettivante, viene detto nel Diario;
ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri
strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno
lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente
percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi
stessi divenienti.
A
cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti:
cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o
concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del
nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova
l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo
spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha
sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il
senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un
«eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo
strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle
stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza
nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa
vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica
costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso
profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che
prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e
affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro
identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro
quarti di luna
(1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio
per cercare» in Natura
morta
– viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente
prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice
scevro di sostanza vivente.
Conosco
le parole più squadrate,
battute
a fuoco lento
contro
muri spessi di cultura,
e
discorsi di logica
incatenati
all’astrazione,
ma
non persuadono più
neppure
un grumo del mio corpo
fradicio
di giovinezza.
Ora,
è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione
nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un
fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria
di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto,
dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una
nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha
sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di
difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli
«Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura
morta:
l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a
processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella
sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al
corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica,
dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti,
resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la
destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte
nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto
ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e
contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale
l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo
all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze
memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla
vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che
mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale
contiene la totalità ed è universalizzabile.
Il
vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende
il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe
replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto
umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i
paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità
fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove
sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità»,
abbiamo letto in Natura
morta.
«Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata»,
«immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un
titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità
anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua
opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della
generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il
fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si
accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita»,
«la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e
quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a
osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo
quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince –
perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di
voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza
rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il
riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata,
come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che
non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo;
per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello
stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che
abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli)
e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il
sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o
«all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero,
viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui
tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si
fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie
pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e
che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e
posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per
partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la
contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli
nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il
nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta
nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in
relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe
funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Ma
è più probabile che Ruffilli faccia totalmente astrazione
dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga
assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea
del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò
stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in
difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare
anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli
esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso
avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si
trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è
rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a
durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera
del 13 maggio):
«la
materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si
perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce».
«Peso»
e «meraviglia» della vita – in Si
stacca la parola
– sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche,
l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il
nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li
«deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla
liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto»,
vita che si rigenera dal vacuum
che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che
si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di
intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che
la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in
Affari
di cuore),
performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno
sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini»
all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola
poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente
costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di
Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di
frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da
un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e
reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che
adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle
cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata
immagine non sia mai finita.
La
metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico»
empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di
qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in
linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella
misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si
verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È
/ il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa /
presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola
colazione),
attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed
eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza
di Ruffilli fin da Quattro
quarti di luna.
Cogliere recto
e verso
di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente:
questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da
Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una
opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della
logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di
contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità.
Nella prospettiva della coniunctio
oppositorum,
«col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola
colazione),
è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e
«respira» al di sotto dell’evidenza.
Elisabetta
Brizio
Macerata,
25 febbraio 2013
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sabato 16 febbraio 2013
METAMORFOSI E STRANIAMENTO. PICCOLO POEMA CRITICO PER GAIA CARBONI (IMOLA, GALLERIA "IL POMO DA DAMO", 8 FEBBRAIO - 9 MARZO 2013)
Non si
può dire, invero, che questo sia, per l'arte contemporanea (spesso
divisa ed irrisolta fra l'elitarismo autoreferenziale di un
intellettualismo inesplicabile e il volgare, culturalmente vuoto
mercantilismo del grande mercimonio altoborghese), un momento facile
o favorevole.
Ma,
ancora una volta, proprio dalla provincia, dalle realtà in apparenza
defilate e silenziose (e nella fattispecie, peraltro, in una città
come Imola, ove la cultura gode ancora di appoggi istituzionali e di
contesti ufficiali e consolidati, sebbene spesso piegati, come
ovunque del resto, alle esigenze esteriori e rituali della mondanità,
della rappresentanza, della politica), possono sorgere, quasi in
segreto, quasi dal nulla, oasi di libertà creativa, di ricerca e di
sperimentazione non gratuitamente provocatorie, ma intrise di viva e
meditata consapevolezza.
È
questo il caso di Gaia Carboni, giovane ma già internazionalmente
riconosciuta artista ravennate (Un'anatomia
dell'inconcepibile, Il Pomo Da Damo, Via XX
Settembre 27, Imola, 8 febbraio-9 marzo 2013, www.ilpomodadamo.it).
Viene
in mente, d'istinto, di fronte alle sue figurazioni inquietanti,
sorprendenti, a volte così intense da arrecare all'osservatore un
dolore e un disagio quasi fisici, da togliere il fiato (ma resi più
profondi e significativi, e insieme filtrati, grazie alla
consapevolezza percettiva ed intellettuale assiduamente sollecitata
dall'atto stesso della visione), un passo dei Canti
di Maldoror di Lautréamont, il grande
precursore del Surrealismo, il geniale ed allucinato interprete della
“letteratura della crudeltà”: quello in cui egli parla di uno
spettacolo «bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli
rapaci; o ancora, come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle
pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; e,
soprattutto, come l'incontro fortuito, su un tavolo di dissezione, di
una macchina da cucire e di un ombrello». È
quella che André Breton chiamerà «bellezza compulsiva»: la quale
nasce dall'accostamento imprevedibile di forme disparate, e,
soprattutto, dall'inquietante ravvicinamento, dall'obliqua e
“perturbante” (in senso freudiano) contaminazione
dell'organico e dell'inorganico, dell'umano e dell'inumano.
Eppure,
nelle figurazioni della Carboni, nulla v'è di casuale, di totalmente
arbitrario, di gratuitamente forzato. Gli accostamenti più
stupefacenti sono garantiti e resi coesi da una sorta di improbabile,
sempre reinventata coerenza formale, da un globale equilibrio
strutturale fra le parti, che rende finanche le connessioni più
ardue quasi necessarie, nel cerchio magico dello spazio e dello
sguardo, sottratto ad ogni esteriore ed estranea legge logica o
naturale.
Così
(come in certi Capricci di Goya, o nei celebri Occhi di Odilon Redon,
o in certi abrupti accostamenti, da chambre
magique, di Magritte o di De Chirico ‒
o ancora, più vicino a noi nel tempo e nello spazio, come nelle
increspature e nelle ramificazioni materiche, nei vorticosi e
convulsi gorghi d'energia di Andrea Raccagni) il piano umano (nel suo
livello organico più crudo, anatomico, preciso, leonardesco o
aldrovandiano: alveoli, arterie, ventricoli, aorte, fasci muscolari,
mucose), quello meccanico, industriale o artigianale, da homo
faber (la gelida e geometrica esattezza degli
utensili metallici) e quello vegetale (rami germogli radici, aggetti
e virgulti affondati nel profondo o stagliati verso un'altezza
indefinita) si fondono, si intrecciano, si rincorrono, divengono
quasi indistinguibili, reciprocamente implicati e necessari, quasi
alla maniera di un nastro di Möbius,
o di un'illusione di Escher.
E,
nella spazialità della scultura, l'indistinto materico ed informale
delle masse indecifrate si associa e si giustappone alla precisione
squadrata, geometrica delle linee, degli spigoli, degli angoli. È
sempre lo spazio
(bidimensionale o tridimensionale, scultoreo o pittorico, reale o
illusivo) a conciliare ciò che è apparentemente inconciliabile, e
si rivela in realtà compresente e fuso nella totalità materica
dell'esistente, organico-inorganico, vivente-non-vivente: fino a
mettere quasi in discussione e in forse queste stesse rassicuranti
distinzioni, fin quasi a prospettare una alienazione e uno
straniamento della coscienza nell'atto della percezione ‒
ma, del pari, un ritorno e un richiamo della conoscenza e della
coscienza, rafforzate, a se stesse, come sempre dopo l'esperienza
artistica del sublime o dell'orrido nelle loro forme più icastiche e
devastanti.
Ma ciò
che l'artista riesce straordinariamente a fissare nella forma e nella
rappresentazione è l'istante della metamorfosi: un divenire fatto
presente, un mutare còlto e fissato per sempre nell'attimo della
figurazione. Come nelle rappresentazioni barocche di Apollo e Dafne.
O come nella magia della parola poetica, ferma pur nel trascorrere,
eterna nel tempo: «Come
procede innanzi dall'ardore / Per lo papiro suso un color bruno, /
Che non è
nero ancora,
e 'l bianco
muore»
‒
continuità nel mutamento,
prossimità dell'umano al vegetale, del vivente alla scoria,
dell'esistenza al suo dissolversi in aeternum.
Matteo
Veronesi
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straniamento
venerdì 15 febbraio 2013
CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA
Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto ‒ «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così
si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni,
fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il
discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente,
nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza
misteriosa, quasi ipnotica»,
come ha dichiarato in un'intervista ‒
ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino,
vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale
attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione
espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il
laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e
creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio
privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due
poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e
intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques
jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des
finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, /
Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai
numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo
assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso,
limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza
di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che
sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della
bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un
seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, /
Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo
sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal
mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale,
ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità
del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto,
circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è
Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale
separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con
parole remote
e Bosco
del tempo,
titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici
delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura,
hyle
physis arché ‒
bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio,
«verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale
traduttore di Eliot: un fondamento, un
a priori
essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola
riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale,
di matrici e di echi ‒
un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel
mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti,
nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in
qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa
e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come
scrive l'autore in Contro
il romanticismo,
uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è
cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere,
e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie
si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse,
anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza
culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la
persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le
metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione
essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché
naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della
parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in
caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della
devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo,
indiscriminate e cieche ‒
insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni
classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La
ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno
della Natura
e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e
inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il
ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un
fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle
colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie
delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno,
diviene imago aeternitatis.
Tempo
come archilocheo rhysmós,
come Arché,
Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒
come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di
Letteratura
come vita
contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito,
dell'umano accadere ‒ o come la storicità
che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non
è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve
letterarie,
affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del
quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De
coniuratione Catilinae.
Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze
estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che
investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le
superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua
soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico,
fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due
versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si
intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del
foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti
minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo
dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui
sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che
fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione».
Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è
evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa,
incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a
sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione,
esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri
del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus»
è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità
indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare»
è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso
esistenziale degli eventi.
Più
pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum
Iugurthinum,
tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti
spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono
pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e
tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con
parole remote.
«Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte,
luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente
contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e
il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla
«memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia,
che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto,
eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro
autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde
pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio
il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae,
I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai
rumores
della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e
tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion,
sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore
genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero
ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi
forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure
scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il
tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte
queste premesse, messi a fuoco questi
novantiqui,
classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di
Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa,
sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta
la sua luce.
Versi
fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto,
fra la luce e l'ombra, nella visione
come nel suono
(«Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro,
pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una
parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco
delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle
rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi»
a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve
nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella
sua ara
chiara,
/ in un rogo
devoto»:
dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di
chiaritate l'âre») al cupo
suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e,
piano, si estingue.
La parola conduce
dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri
che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa
primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili.
«Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto»
(Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che
risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più
remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della
memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche
ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il
passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa
fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco
della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione
estetica in Walter Pater.
Come
nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e
composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la
parola aspira a sprofondare
e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con
la Natura che è Forma e Principio.
Matteo Veronesi
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