venerdì 15 febbraio 2013

CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA



Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni, fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente, nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza misteriosa, quasi ipnotica», come ha dichiarato in un'intervista ‒ ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino, vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, / Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso, limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, / Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale, ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto, circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con parole remote e Bosco del tempo, titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura, hyle physis arché ‒ bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio, «verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale traduttore di Eliot: un fondamento, un a priori essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale, di matrici e di echi ‒ un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti, nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come scrive l'autore in Contro il romanticismo, uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere, e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse, anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo, indiscriminate e cieche ‒ insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno della Natura e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno, diviene imago aeternitatis.
Tempo come archilocheo rhysmós, come Arché, Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒ come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di Letteratura come vita contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito, dell'umano accadere ‒ o come la storicità che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve letterarie, affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De coniuratione Catilinae. Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico, fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione». Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa, incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione, esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus» è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare» è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso esistenziale degli eventi.
Più pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum Iugurthinum, tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con parole remote. «Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte, luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla «memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia, che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto, eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae, I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai rumores della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion, sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte queste premesse, messi a fuoco questi novantiqui, classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa, sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta la sua luce.
Versi fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto, fra la luce e l'ombra, nella visione come nel suono («Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro, pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi» a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella sua ara chiara, / in un rogo devoto»: dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di chiaritate l'âre») al cupo suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e, piano, si estingue.
La parola conduce dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili. «Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto» (Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione estetica in Walter Pater.
Come nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la parola aspira a sprofondare e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con la Natura che è Forma e Principio.


Matteo Veronesi



 

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