Giorgio
Caproni non amava le prefazioni. Gli apparivano, come scrive in una
delle sue rarissime, quella ad Ipotesi di donna di Patrizia
Garofalo, la raccolta cui fa riferimento questa lucida lettura di
Elisabetta Brizio, simili a «maschere»
che incardinano, incasellano, e finiscono per nascondere e reprimere,
il vero volto di un poeta (come mostra Quando si è Qualcuno
di Pirandello, dove il ruolo, l'etichetta sociale di «scrittore»,
anzi di «grande scrittore», bloccano e gelano la fluidità della
corrente vitale, che può rianimarsi e ricominciare a trascorrere
solo al contatto della fresca ed innocente sensualità di una giovane
fanciulla).
Non
volle mai prefazioni per i suoi libri, e molto raramente ne concesse
ad altri poeti. Ci si può chiedere, allora, che cosa, quale segreta
e sottile affinità spirituale, lo portasse ad accostarsi proprio ai
versi della poetessa. Erano, forse, proprio la molteplicità
fascinosa, la proteiforme mutevolezza, la polivalenza danzante, di
questa “ipotesi di donna”: ipotesi, direi, proprio nel senso
etimologico, o pseudo-etimologico, di hypò-thésis, di
sub-stantia, di sostrato nascosto, latente, ma fondante, della
personalità; fondo fluttuante, traslucido e trascorrente, forse non
del tutto chiaro, evidente e perspicuo neppure all'occhio interiore
del soggetto stesso che lo racchiude in sé, ma proprio per questo
ricco di sfumature, chiaroscuri, risonanze.
«Ti
acceca un'asciutta luminosità stellare», recita il verso che più
di ogni altro affascinò il poeta ‒
«balena vivo», annotava, il «lampo» di quel verso, «di una
incisività (di una necessità) sorprendente». Meno felice gli
appariva «I corpi brillano affatto luminosi» ‒
e, non a caso, nel testo a stampa quel verso compare ritoccato ed
ampliato, in una efficace immagine: «I corpi brillano lacrimosi dopo
un incendio a fatica / spento che ha bruciato tutti in un giorno»
(con intensa eco, forse, della simbologia, cara agli ermetici,
dell'esistenza come fuoco, arsione, consunzione subitanea, «rogo»,
«alta, cupa fiamma»).
Evidentemente,
il poeta che nel Conte
di Kevenhüller
inseguiva vanamente la Bestia-Parola, l'Onoma inafferrabile, il
dantesco linguaggio-pantera di cui si coglie il profumo fuggevole, ma
di cui non si riesce ad avere pieno e perpetuo possesso ‒ il poeta
che traduceva questa sua quête
balenante e corrusca («Nel sole s'erano visti lampi / fuggenti») in
una cantabilità mossa, nervosa, complessa, ondivaga, ambigua
(tutt'altro
che “sabiana”, tutt'altro che pianamente e pacificamente
discorsiva e comunicativa, come vorrebbe certa critica) ‒ non
poteva restare insensibile ai versi di una poetessa che sentiva in sé
‒ nel suo Sé
‒ nel suo stesso corpo lacerato e scosso ‒ l'impronta e la
ferita dell'Aleph,
della lettera primigenia, del nucleo originario che di ogni cosa è
principio e fine, contenente e contenuto, dispiegamento e
ripiegamento degli orizzonti dell'Essere: «Fu allora che mi
regalarono l'Aleph; / mi dissi di averlo visto, tempo prima sul cavo
del mio tronco». (M. V.)
Preliminarmente.
Da un’esigenza del cuore, dal desiderio di un riscatto dalle
“lineae” che “desiderantur”, dà l’impressione di esser
stata concepita l’opera prima di Patrizia Garofalo, Ipotesi
di donna,
ove confluiscono testi poetici che tracciano i lineamenti essenziali
di anni che vanno dall’adolescenza all’età matura e pienamente
consapevole. Seppure risalenti a tempi diversi, i testi qui riuniti
non denotano sensibili salti di registro, se si eccettuano quello
d’esordio, dove il verso si allunga e si alterna a incisi di prosa
poetica, le sezioni contraddistinte da una partitura strofica
maggiormente estesa e flessibile, e l’epilogo (Dalle
pagine di un diario),
in cui la condizione di possibilità dei nessi tra premesse e
derivazioni viene sottoscritta dall’autrice come qualcosa da
condividere con un lettore che si sintonizzi sulla medesima onda del
condizionale. Come quanto detto, tra le altre cose, da Giorgio
Caproni in prefazione, e cioè della maniera di «rasciugare il
sentimento privato non appena minacci di trasformarsi in
sentimentalismo», la Garofalo rientra nei ranghi del suo lucido
ipotizzare tra illuminazioni, smentite e pause mediante gli asserti
più o meno lievemente marcati di ironia che immediatamente succedono
alla confessione, e, si potrebbe seguitare, con le frequenti sequenze
che enumerano – istituendo talora un climax
che incorpora l’arco discendente – e che paiono neutralizzare il
sentimentalismo fin dal suo nascere: se infatti esse focalizzano,
perlomeno discriminano, evitando la sovrimpressione di piani
differenti benché correlati, costituiscono al contempo un fattore di
sviamento dell’attenzione, nella misura in cui promuovono il
trapassare da una immagine all’altra, da un rilevamento all’altro.
Ed è significativo come questo prender le distanze ricorrendo agli
strumenti dell’ironia costituisca una chiara allusione alla
dimensione della «paura» (connotatore che ritorna spesso nel
libro), un segno, insomma, di incertezza, della problematicità nel
dare un senso univoco ai gesti e ai moti dell’esistenza. Cosa che
inibisce l’assimilazione dei «fantasmi antichi» a una simbologia
del regressivo, anzi, favorisce il suo rovesciamento, vale a dire il
progressivo approssimarsi a delle cognizioni in vista di una
reidentificazione votata tuttavia a rimanere provvisoria.
Per
ipotesi, al plurale.
«Proposizione immaginata, supposta, da cui si traggono conseguenze»,
dice la definizione della parola (http://www.etimo.it/).
Oppure, «congettura o supposizione che tende a spiegare fatti di cui
non si ha perfetta conoscenza» (DELI, Zanichelli). “Ipotesi”, in
Ipotesi
di donna,
si espone quale terminus
ad quem,
superficie temporale entro cui verificare e verificarsi. Stagione –
eminentemente, antecedenza –, allora, prorogabile, e in parte
ancora da scrivere. Da parte di una donna, le cui affermazioni
acquisiscono un duplice carattere: sono tesi, assunzioni, postulati –
anche in virtù dell’assenza di congiunzioni condizionali –
mentre lasciano un vasto margine alla fallibilità, all’idea di un
assunto presuntivo soggettivo, e come tale fallibilissimo. Da parte
di una donna che muove da antecedenze certe e nebulose («cifre
irrisolte / gesti mancati»), l’ipotesi è qui causale e si dispone
ad accertare le condizioni per le quali qualcosa è stato, divenendo
la linea-guida per una verifica delle premesse – anziché per una
glossa di carattere emotivo – in quest’arco di vita disseminate.
Di «tutte le mie ipotesi», al plurale, scrive l’autrice.
Essere
ed essere stato.
Ora, come anzidetto, “ipotesi” designa soprattutto qualcosa da
riconoscere e mettere in chiaro, e l’accertamento della eventualità
o meno di un fatto si svolge qui mediatamente e a partire dagli
effetti del tempo: sarà l’esperienza a selezionare e a stabilire
se ciò che è stato sia unicamente supposizione o previsione fondata
che ci autorizzi a dire: «– Io lo sapevo – / Oggi posso
riderne». La nozione di ipotesi viene qui a configurarsi anzitutto
nell’accezione di ipotesi dell’essere: «non individuo cosa sia
la spaccatura in cui i miei / occhi sono da tanto tempo fissi».
L’anomalia – la sfasatura – è nel mondo del poeta oppure nel
mondo? È l’esito «del male essere stata o dell’essere stata?».
L’ipotesi dell’essere si specifica allora in ipotesi dell’esser
stato, se le «carte stracciate / cercano il gesto / che le compose».
Per avere qualche riscontro a questo nodo la cosa minima, inferiore
all’apparenza, e quella somma vengono ad assumere il medesimo
rilievo, in una prospettiva in cui «si fonde l’importanza di Dio
con quella di una foglia» – là dove “Dio”, quando non è
pathos
di trascendere la drammatica
insensatezza della storia,
è indeterminata e non accessibile forza vitale. L’ipotesi di
possibilità è il metodo di sondare il già vissuto mentre, per
certi versi, esso sembra giudicarci, il che instilla in noi la
sensazione di esser destinati alla permanenza nello stato ipotetico.
Ciò sebbene lo sguardo retrospettivo della Garofalo si esima dal
porre l’enfasi sul senso dell’impermanenza («al nostro dolore è
scampo solo / la nostra presenza»), e si predisponga a pensare
l’assente come a qualcosa di non estinto. Tutto passa senza che di
esso tutto si perda: dal «silenzio limpido di un’estate» allo
«sbadiglio di un bambino», dai balli adolescenziali dei quali
restano gesti quasi rituali con la terra, «per profondo e pauroso
senso di fertilità» – e un siffatto legame con gli elementi di
una natura magica, alma
mater
e benigna sarà una dominante nella sua produzione successiva.
Essere
e coesistere.
Malgrado i contenuti veri dell’esperienza restino privatissimi, si
susseguono nell’opera – talora sovrapponendosi – alterni e
differenziali argomenti nel bisogno di un recupero cosciente del dato
pregresso. Recupero dell’assenza, in sommo grado (nelle accezioni
di estraneità, «torpore», di distratta presenza, di lontananza, di
omissione, della dimensione dei desiderata
in quanto mancanti), della incomunicabilità tra gli esseri
(«destinatario sconosciuto / rimandato al mittente»; «nessuno di
noi c’è / eppure nessuno manca / all’appuntamento»), del
passato che si è fatto consapevolezza, dell’inerte in attesa che
qualcosa di vitale promuova una reazione, dello specchio esso stesso
menzognero, «opaco», che invita a ricercare a partire dalla
«evanescenza di un’immagine», e che indica il vero spettro
nell’anonimato, nell’indifferenziato. Non unicamente nei termini
di una indifferenza tra gli esseri, ma peculiarmente in quelli di
allegoria dell’assenza di margini, la vera deriva, il disgregarsi
del soggetto convertito in una somma di automatismi in sconnessione.
Inserti vissuti si alternano a rapide evocazioni di esterni che, non
banalmente, designano l’indeterminarsi, l’inoggettivabile
non estrinseco a noi, alla maniera in cui la vita cosmica pare talora
intonarsi alla nostra. A questi motivi speculare è la struttura
dell’opera, non alludente, sotto i profili grafico e
strutturale, a uno sgretolamento comunque sotteso, ma non dato con
categorie retoriche o in misura particolarmente trasposta.
Ipotizzando, l’autrice vuole ostentare un vuoto di cognizioni nei
termini di una prolungata e aperta perplessità, orizzonte nel quale
l’ipotesi si dilata pervasivamente ai vari campi dell’esperienza.
E lo stato ipotetico della parziale conoscibilità delle cose («anche
tu / più o meno»; «è quasi tutto vero») perdura, giacché non ci
sono dimostrazioni della validità o al contrario della fallacia
delle nostre spiegazioni retrospettive.
Esperienza
e poesia.
Se ne trae un’idea positiva, “adulta” nella integra coscienza
della propria persona,
del consummatum
est,
esperibile da ciascuno anche a prescindere da una storia privata
– questa, che si scompone nelle varie fasi che compongono la vita
–, la prospettiva del residuo acquisito delle figure
incompiute, impure e falsate, della vita trascorsa, come vedremo
nelle successive opere della Garofalo, dove il sentimento di perdita
verrà a caratterizzarsi alla stregua di un ingrediente essenziale
dell’esistenza. Con la differenza di una visione della poesia che
salva, purché la vita non si risolva interamente nella letteratura.
Dell’atto creativo come “memoria salvata”, come uscita da un
silenzio che subirà un ampliamento terminologico teso a connotare un
maximum
di negatività, dato e reso inoltre da un sensibile difetto di
presenze oggettuali, un silenzio ridondante, che «stordisce», che
«tace» e che induce finanche ad «ascoltare il colore», semiotica
di una ricerca di qualcosa più in là: nelle opere che seguiranno,
infatti, questa tensione a un oltre sarà resa sulla pagina
attraverso una maggiore torsione cui viene sottoposto un nominare
tutt’altro che incline all’astrattezza, quasi un evento singolare
che implichi un plus
semantico volto a esistenziare, e che fonde in sé solenne e
quotidiano, anima e corpo – canone costante della poesia della
Garofalo. Qui, per il momento, il linguaggio poetico si oppone
quale linguaggio autenticamente vero a una comunicazione
tra gli esseri elusa, «evitata», assuefatta, di per sé
«mistificazione», tanto che talora la risposta è già data per la
prevedibilità dei termini di una interlocuzione, peraltro spesso
interrotta, con un “tu” mutevole, indefinito, a sé stante. E
nella misura in cui si apre alla ricezione degli altri, l’espressione
verbale, se non ha ancora proprietà di riscattare dall’insensatezza,
si apre in Ipotesi
di donna
a una inchiesta condivisa che esorcizzi almeno la solitudine della
scrittura.
Tempo.
Resta
il tempo cui l’essere si correla, salvo abbandonarsi a
quel nichilismo paralizzante che non rientra nell’orizzonte di
questa visione del mondo. «Il tempo raccoglie / un’ipotesi di
donna» (proposizione centrale, dal valore non suppositivo ma
assertivo) nel darsi dell’essere nel tempo. Raccoglie (nella
fattispecie: identifica, sorprende), allora, non solo supposizioni,
ma referti concreti che convengono a definire una esperienza. E
tuttavia: a tratti il nesso causale che istituisce il raccordo tra i
referti memoriali sembra venir meno in virtù dello sfalsamento dei
livelli temporali. L’oltranza dell’ipotizzare si svolge in una
vaga ambivalenza temporale: ha decorrenza lontana e sembra differirsi
(«consideratemi pure un periodo di / transizione»). Il tempo
sperpera e fa sperperare, ma chiarisce ciò che non trattiene. Del
resto, se «il mosaico non è mai un’opera / finita», ogni ipotesi
resta condizionale, e ciò non tanto per l’insufficienza o per
l’approssimazione dei dati sui quali l’ipotizzare si fonda. Con
questo verso la Garofalo vuole anzitutto dirci che la vita è una
realizzazione e una rivelazione costanti incomparabili con le nostre
cognizioni, e che ogni conclusione ipotizzabile può valere solo
temporaneamente.
Elisabetta
Brizio
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