A distanza di anni dalla lettura di un
celebre libro di Roland Barthes, La
grazia sufficiente di
Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato,
venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei
segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma
senza interferenze con l’idea formale dell’essai
barthesiano riaccade come
narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku
narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e
(con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
Più che per ideale sovrapposizione
romanzesca all’Impero di
Barthes, La grazia
sufficiente,
autenticando un déjà–vu
critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella
volontarietà del memorabile), è saliente esemplare
nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia
è un film narrativo a
sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit
primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il
Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica)
ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki
di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella
stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker,
personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un
europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo
nipponico.
Ma La
grazia sufficiente, nei tre
secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone
l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti
di Barthes – il senso obtusus,
ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito
del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È
il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito
abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil
nell’Uomo senza qualità.
La grazia sufficiente sembra
collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della
civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale
del mondo nuovo e la grandeur,
espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco
del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra
nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare
dell’idea,
idea che nella Grazia
è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire
l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo
musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte
Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo
dell’Azione Parallela, Diotima.
Un romanzo dell’idea è quindi La
grazia sufficiente, un’idea
ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento
di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e
del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior
(Taisho) e storia minor
(Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di
Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale
camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch,
la sua storia di nipponizzazione
ontologica passa dalla
cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in
Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e
Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta
edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata
inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie
adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la
Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie
fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch
(che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla
Storia (il glorioso passato del Liefde).
Se i tasselli memoriali della Grazia
non segnalano presenze di
proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole
proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di
memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via
che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel
memorabile. Ma la storia (maior
e minor)
e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia
sembrano
salire a un’acme, poiché
condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso
della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior
e minor)
si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è
quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a
neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale,
l’immanente per l’idea trascendente.
Non a caso, appena il memorabile
scava nella memoria di una recherche
autobiografica (in Taisho e
in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi
confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res
gestae di Taisho, la violenza
(la faida religiosa nelle visioni,
la vita a Deshima per
Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte
della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la
tentazione del rivissuto
memorabile, e così
inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto
tragico dell’esperienza.
La grazia sufficiente vira
dunque altrove: il memorabile della
memoria si fa immemorabilità nella
violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il
militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà
di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne
prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in
cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea
del rifiuto.
All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la
vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la
speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla
«dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un
empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna
dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
Se Baruch sovverte l’idea di
predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della
felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile
nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno
dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane
l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della
vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il
tempo ritrovato di
Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho
nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica
(la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione
preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche
attraverso la più remota possibilità – che è parsa
un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante
di Jean Vigo –, l’esercizio
dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane
donna (déjà–vu
e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di
un’ennesima razos
visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per
ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la
madre perduta, la vita sognata.
Neil Novello
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