domenica 10 marzo 2013

Franca Alaimo, "Su 'Falò de' rosarî' di Neil Novello"




La forza dei testi poetici che compongono il Falò dei rosarî di Neil Novello (Aragno editore) si origina sia da un’infiammata ed ancora urgente sostanza memoriale, sia da una polarizzazione dello stile verso l’alto, di carattere colto ed intellettuale, attraverso il quale l’autore realizza un singolare impasto drammatico dell’evento presente ancora turbato e doloroso e del passato ricordato e rivissuto per deflagrazioni percettive che scompongono la continuità e leggibilità del dettato, avviandolo verso una sorta di trobar clus, alla maniera della lirica occitanica. Quest’ultima, infatti, costituisce un punto di riferimento molto forte per l’autore, sia sul piano linguistico, orientato e verso una dinamica interna spesso tesa all’invenzione di nuove parole e ad un insospettabile accostamento di lemmi e sintagmi, sia, soprattutto, sul piano di certi topoi compositivi, come rivela l’uso del senhal, ossia del nome-schermo fittizio e simbolico riferito alla donna amata, che, però, qui non è la dama da corteggiare - magari lontana e rarefatta - con raffinate armi retoriche (queste, sì, rimaste tali, ma per decantare e rendere docile il lutto), bensì la stessa madre del poeta, strappata al suo amore filiale dalla crudeltà della morte.

La novità del soggetto e dell’accadimento rispetto al modello provenzale capovolge la percezione della distanza da un vagheggiamento amoroso struggente e spesso squisitamente letterario, concentrato nell’esplorazione di uno spazio incolmabile, in una terribile consapevolezza del “mai più” (che riguarda soprattutto il luogo-tempo vissuto in presenza della madre), spesso ripetuto nei testi (con un qualche riferimento, casomai, alle luttuose onomatopee del Pascoli); consegnando l’uso stesso del senhal, in questo caso Rosa, ad una tradizione diversa, di stampo cristiano, costituitasi, a sua volta, dall’elaborazione in senso mistico di un’ampia simbologia originaria attribuita fin dall’antichità a questo fiore.

Neil Novello dissemina nei suoi testi tutte le possibili significanze simboliche attribuibili alla rosa, attraversando secoli e ambiti diversi, così che vi si trovano molti e spesso sovrapposti riferimenti: all’iconografia ecclesiastica che fece della rosa il simbolo di Maria e, dunque, della verginità, alimentando l’ossimoro del dogma cattolico della “vergine e madre” ( “ora veglia tu la vergine / e libera l’ora sorvolante / su noi” e “ti sale per bocca il petalo / e in ampolla di vergine / calice di sangue svetta in croce”); e ancora una volta alla poesia trobadorica che vide in essa il simbolo stesso dell’amore terreno; e alla setta dei Rosacroce che scelse come simbolo una rosa a cinque petali posta al centro di una croce ( “E tu scoli dal ventre, / sei due rose crociate a fiorame” ); e a certi elementi architettonici degli edifici sacri; ma anche, più semplicemente, a figure emblematiche molto popolari, come il sangue di Cristo raccolto nella mitica coppa del Graal (“Bevi tu a pieni palmi / dal Graal miele d’ali e rugiada) o quello versato dagli uomini per i propri ideali e, ancora, l’amore, la regalità, la vita stessa.

Inoltre, il sehnal Rosa, che sostituisce il vero nome della madre, Clelia, rivelato nella sesta stanza della sezione Stasimo in petalo giallo, si amplia e si moltiplica fino ad originare un vasto campo semantico, che arricchisce di sfumature intellettuali ed emotive immagini e ricordi, collocando la figura materna in un aureola di santità, che le irraggia attorno aggettivi e formule di sapore liturgico, trasformandola in una sorta di vittima sacrificale offerta a Dio.

Dal repertorio della poesia provenzale proviene anche quell’indissolubile nodo fra la natura e la bellezza femminile suggerito da una molteplicità di sottilissimi quanto intuibili fili psicologici, visivo-emotivi, che ne hanno determinato una non scalfibile costante dell’immaginario poetico; così che in una sorta di edenicità pre-mortale la madre, “Rosa” mistica di Neil, abita come una “vestale di fiori” (iris, crochi, viole, gerani, genziane, bocche di leone, anemoni, cerfogli, lillà, asfodeli, alcuni dei quali carichi di reminiscenze letterarie o di sensi simbolici) un luogo rigoglioso, quasi sempre primaverile, brulicante di vita, spesso rugiadoso d’albe virginee o invaso dal biancore latteo della luna, la veste e la corona illuminate dallo splendore di pietre preziose come nei dipinti delle Madonne rinascimentali, ritratte con i loro bimbi sul grembo o ai piedi, o in atteggiamenti giocosi, pronte, come faceva un tempo la madre di Neil, all’apparire e disparire per celia dietro un albero o cespuglio per lanciare un divertito “cucù”. Ma la morte non è un gioco, ma la morte è il disapparire per sempre (“colma di nulla la bara santa”), come sa Neil, che a queste immagini di sacra beltà e serenità contrappone e sovrappone la consapevolezza dell’amaro presente, l’ineluttabilità delle croci nere, il consumarsi delle cose che tornano pietre, natura, lapidi sulla non-carne, testimoni e custodi di morte, (“Di notte, svapora il sangue / tra croci di camposanto”), lavorando con febbrile e dolente volontà a caricare i suoi testi di quella tensione e di quegli improvvisi trascoloramenti, di quell’impasto lessicale ora scuro ora chiaro che determinano una sottile e potente enigmaticità, la quale ritorna al lettore come una delle tante spine che sorreggono l’immagine della Materna Rosa disfatta e sempre viva.

E così, pur muovendosi il poeta in un terreno rischioso, ogni eccesso sentimentale viene evitato grazie ad un’originale tecnica versificatoria in cui il dolore, esploso in schegge sparse, viene quasi raccolto e travasato in una necessità linguistica, il cui effetto sonoro diventa una sorta di “e-stasi” dal senso comune, una puerile e ancestrale “ninnananna a Rosa, / con labbra tremanti” in cui la distanza fra l’altrove e il qui sembra annullarsi in favore di uno spazio–tempo di reciprocità, di dialogo, in cui la cata-strofé si appropria del suo etimo costituendo un’occasione di ribaltamento del processo cognitivo, una germinazione mistica di infiniti rosarî di preghiera e di bellezza, in cui l’iter interiore di salvezza “si alza dal buio / nel fondo della luce” , grazie a lei, la madre, “Ianua Rosa di luce”.



Franca Alaimo



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