Non si
può dire, invero, che questo sia, per l'arte contemporanea (spesso
divisa ed irrisolta fra l'elitarismo autoreferenziale di un
intellettualismo inesplicabile e il volgare, culturalmente vuoto
mercantilismo del grande mercimonio altoborghese), un momento facile
o favorevole.
Ma,
ancora una volta, proprio dalla provincia, dalle realtà in apparenza
defilate e silenziose (e nella fattispecie, peraltro, in una città
come Imola, ove la cultura gode ancora di appoggi istituzionali e di
contesti ufficiali e consolidati, sebbene spesso piegati, come
ovunque del resto, alle esigenze esteriori e rituali della mondanità,
della rappresentanza, della politica), possono sorgere, quasi in
segreto, quasi dal nulla, oasi di libertà creativa, di ricerca e di
sperimentazione non gratuitamente provocatorie, ma intrise di viva e
meditata consapevolezza.
È
questo il caso di Gaia Carboni, giovane ma già internazionalmente
riconosciuta artista ravennate (Un'anatomia
dell'inconcepibile, Il Pomo Da Damo, Via XX
Settembre 27, Imola, 8 febbraio-9 marzo 2013, www.ilpomodadamo.it).
Viene
in mente, d'istinto, di fronte alle sue figurazioni inquietanti,
sorprendenti, a volte così intense da arrecare all'osservatore un
dolore e un disagio quasi fisici, da togliere il fiato (ma resi più
profondi e significativi, e insieme filtrati, grazie alla
consapevolezza percettiva ed intellettuale assiduamente sollecitata
dall'atto stesso della visione), un passo dei Canti
di Maldoror di Lautréamont, il grande
precursore del Surrealismo, il geniale ed allucinato interprete della
“letteratura della crudeltà”: quello in cui egli parla di uno
spettacolo «bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli
rapaci; o ancora, come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle
pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; e,
soprattutto, come l'incontro fortuito, su un tavolo di dissezione, di
una macchina da cucire e di un ombrello». È
quella che André Breton chiamerà «bellezza compulsiva»: la quale
nasce dall'accostamento imprevedibile di forme disparate, e,
soprattutto, dall'inquietante ravvicinamento, dall'obliqua e
“perturbante” (in senso freudiano) contaminazione
dell'organico e dell'inorganico, dell'umano e dell'inumano.
Eppure,
nelle figurazioni della Carboni, nulla v'è di casuale, di totalmente
arbitrario, di gratuitamente forzato. Gli accostamenti più
stupefacenti sono garantiti e resi coesi da una sorta di improbabile,
sempre reinventata coerenza formale, da un globale equilibrio
strutturale fra le parti, che rende finanche le connessioni più
ardue quasi necessarie, nel cerchio magico dello spazio e dello
sguardo, sottratto ad ogni esteriore ed estranea legge logica o
naturale.
Così
(come in certi Capricci di Goya, o nei celebri Occhi di Odilon Redon,
o in certi abrupti accostamenti, da chambre
magique, di Magritte o di De Chirico ‒
o ancora, più vicino a noi nel tempo e nello spazio, come nelle
increspature e nelle ramificazioni materiche, nei vorticosi e
convulsi gorghi d'energia di Andrea Raccagni) il piano umano (nel suo
livello organico più crudo, anatomico, preciso, leonardesco o
aldrovandiano: alveoli, arterie, ventricoli, aorte, fasci muscolari,
mucose), quello meccanico, industriale o artigianale, da homo
faber (la gelida e geometrica esattezza degli
utensili metallici) e quello vegetale (rami germogli radici, aggetti
e virgulti affondati nel profondo o stagliati verso un'altezza
indefinita) si fondono, si intrecciano, si rincorrono, divengono
quasi indistinguibili, reciprocamente implicati e necessari, quasi
alla maniera di un nastro di Möbius,
o di un'illusione di Escher.
E,
nella spazialità della scultura, l'indistinto materico ed informale
delle masse indecifrate si associa e si giustappone alla precisione
squadrata, geometrica delle linee, degli spigoli, degli angoli. È
sempre lo spazio
(bidimensionale o tridimensionale, scultoreo o pittorico, reale o
illusivo) a conciliare ciò che è apparentemente inconciliabile, e
si rivela in realtà compresente e fuso nella totalità materica
dell'esistente, organico-inorganico, vivente-non-vivente: fino a
mettere quasi in discussione e in forse queste stesse rassicuranti
distinzioni, fin quasi a prospettare una alienazione e uno
straniamento della coscienza nell'atto della percezione ‒
ma, del pari, un ritorno e un richiamo della conoscenza e della
coscienza, rafforzate, a se stesse, come sempre dopo l'esperienza
artistica del sublime o dell'orrido nelle loro forme più icastiche e
devastanti.
Ma ciò
che l'artista riesce straordinariamente a fissare nella forma e nella
rappresentazione è l'istante della metamorfosi: un divenire fatto
presente, un mutare còlto e fissato per sempre nell'attimo della
figurazione. Come nelle rappresentazioni barocche di Apollo e Dafne.
O come nella magia della parola poetica, ferma pur nel trascorrere,
eterna nel tempo: «Come
procede innanzi dall'ardore / Per lo papiro suso un color bruno, /
Che non è
nero ancora,
e 'l bianco
muore»
‒
continuità nel mutamento,
prossimità dell'umano al vegetale, del vivente alla scoria,
dell'esistenza al suo dissolversi in aeternum.
Matteo
Veronesi
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