venerdì 1 marzo 2013

In margine a un inedito di Paolo Ruffilli ripensando a Natura morta



Per Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà» permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte?

Si stacca la parola

Ecco che di colpo
riesco a dare
corpo all’ombra,
si stacca la parola
dal groviglio
e dà forma al fantasma
figlio del sogno
che si sveglia
e respira
il respiro della vita
con il suo peso
e con la meraviglia
che il carico deforma
e che potenzia
mentre lo assottiglia.

«Si stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». La madeleine in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera oscura) non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in due modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto nel Diario; ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti.
A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un «eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro quarti di luna (1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente.

Conosco le parole più squadrate,
battute a fuoco lento
contro muri spessi di cultura,
e discorsi di logica
incatenati all’astrazione,
ma non persuadono più
neppure un grumo del mio corpo
fradicio di giovinezza.

Ora, è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura morta: l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica, dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti, resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità ed è universalizzabile.
Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. «Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata», «immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince – perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo; per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero, viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Ma è più probabile che Ruffilli faccia totalmente astrazione dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce».
«Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in Affari di cuore), performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata immagine non sia mai finita.
La metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.



Elisabetta Brizio

Macerata, 25 febbraio 2013

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