Per
Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e
impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni
romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e
valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione,
assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete,
invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena»,
vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma
di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes
dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio
di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante
immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà»
permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente
difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità
conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del
mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei
referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio
essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il
corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo»,
in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di
sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori
della sfera dell’arte?
Si
stacca la parola
Ecco
che di colpo
riesco
a dare
corpo
all’ombra,
si
stacca la parola
dal
groviglio
e
dà forma al fantasma
figlio
del sogno
che
si sveglia
e
respira
il
respiro della vita
con
il suo peso
e
con la meraviglia
che
il carico deforma
e
che potenzia
mentre
lo assottiglia.
«Si
stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame
dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un
incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se
l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –,
volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica
ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del
retroscena». La madeleine
in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di
sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che
la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con
l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli
indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in
filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di
una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali
dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera
oscura)
non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità
del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile
anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione
che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono,
in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della
vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli
si flette in due modi: la distanza da noi è altamente
retrospettivante, viene detto nel Diario;
ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri
strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno
lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente
percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi
stessi divenienti.
A
cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti:
cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o
concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del
nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova
l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo
spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha
sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il
senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un
«eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo
strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle
stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza
nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa
vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica
costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso
profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che
prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e
affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro
identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro
quarti di luna
(1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio
per cercare» in Natura
morta
– viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente
prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice
scevro di sostanza vivente.
Conosco
le parole più squadrate,
battute
a fuoco lento
contro
muri spessi di cultura,
e
discorsi di logica
incatenati
all’astrazione,
ma
non persuadono più
neppure
un grumo del mio corpo
fradicio
di giovinezza.
Ora,
è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione
nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un
fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria
di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto,
dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una
nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha
sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di
difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli
«Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura
morta:
l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a
processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella
sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al
corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica,
dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti,
resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la
destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte
nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto
ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e
contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale
l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo
all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze
memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla
vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che
mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale
contiene la totalità ed è universalizzabile.
Il
vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende
il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe
replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto
umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i
paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità
fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove
sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità»,
abbiamo letto in Natura
morta.
«Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata»,
«immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un
titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità
anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua
opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della
generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il
fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si
accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita»,
«la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e
quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a
osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo
quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince –
perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di
voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza
rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il
riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata,
come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che
non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo;
per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello
stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che
abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli)
e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il
sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o
«all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero,
viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui
tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si
fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie
pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e
che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e
posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per
partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la
contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli
nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il
nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta
nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in
relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe
funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Ma
è più probabile che Ruffilli faccia totalmente astrazione
dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga
assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea
del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò
stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in
difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare
anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli
esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso
avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si
trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è
rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a
durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera
del 13 maggio):
«la
materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si
perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce».
«Peso»
e «meraviglia» della vita – in Si
stacca la parola
– sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche,
l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il
nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li
«deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla
liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto»,
vita che si rigenera dal vacuum
che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che
si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di
intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che
la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in
Affari
di cuore),
performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno
sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini»
all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola
poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente
costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di
Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di
frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da
un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e
reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che
adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle
cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata
immagine non sia mai finita.
La
metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico»
empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di
qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in
linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella
misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si
verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È
/ il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa /
presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola
colazione),
attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed
eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza
di Ruffilli fin da Quattro
quarti di luna.
Cogliere recto
e verso
di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente:
questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da
Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una
opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della
logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di
contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità.
Nella prospettiva della coniunctio
oppositorum,
«col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola
colazione),
è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e
«respira» al di sotto dell’evidenza.
Elisabetta
Brizio
Macerata,
25 febbraio 2013
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.