venerdì 29 marzo 2013

Elisabetta Brizio, "Ipotizzando, in sei gradi. Su 'Ipotesi di donna' di Patrizia Garofalo (Corbo Editore, Ferrara 1986, prefazione di Giorgio Carproni)"


Giorgio Caproni non amava le prefazioni. Gli apparivano, come scrive in una delle sue rarissime, quella ad Ipotesi di donna di Patrizia Garofalo, la raccolta cui fa riferimento questa lucida lettura di Elisabetta Brizio, simili a «maschere» che incardinano, incasellano, e finiscono per nascondere e reprimere, il vero volto di un poeta (come mostra Quando si è Qualcuno di Pirandello, dove il ruolo, l'etichetta sociale di «scrittore», anzi di «grande scrittore», bloccano e gelano la fluidità della corrente vitale, che può rianimarsi e ricominciare a trascorrere solo al contatto della fresca ed innocente sensualità di una giovane fanciulla).
Non volle mai prefazioni per i suoi libri, e molto raramente ne concesse ad altri poeti. Ci si può chiedere, allora, che cosa, quale segreta e sottile affinità spirituale, lo portasse ad accostarsi proprio ai versi della poetessa. Erano, forse, proprio la molteplicità fascinosa, la proteiforme mutevolezza, la polivalenza danzante, di questa “ipotesi di donna”: ipotesi, direi, proprio nel senso etimologico, o pseudo-etimologico, di hypò-thésis, di sub-stantia, di sostrato nascosto, latente, ma fondante, della personalità; fondo fluttuante, traslucido e trascorrente, forse non del tutto chiaro, evidente e perspicuo neppure all'occhio interiore del soggetto stesso che lo racchiude in sé, ma proprio per questo ricco di sfumature, chiaroscuri, risonanze.
«Ti acceca un'asciutta luminosità stellare», recita il verso che più di ogni altro affascinò il poeta «balena vivo», annotava, il «lampo» di quel verso, «di una incisività (di una necessità) sorprendente». Meno felice gli appariva «I corpi brillano affatto luminosi» ‒ e, non a caso, nel testo a stampa quel verso compare ritoccato ed ampliato, in una efficace immagine: «I corpi brillano lacrimosi dopo un incendio a fatica / spento che ha bruciato tutti in un giorno» (con intensa eco, forse, della simbologia, cara agli ermetici, dell'esistenza come fuoco, arsione, consunzione subitanea, «rogo», «alta, cupa fiamma»).
Evidentemente, il poeta che nel Conte di Kevenhüller inseguiva vanamente la Bestia-Parola, l'Onoma inafferrabile, il dantesco linguaggio-pantera di cui si coglie il profumo fuggevole, ma di cui non si riesce ad avere pieno e perpetuo possesso ‒ il poeta che traduceva questa sua quête balenante e corrusca («Nel sole s'erano visti lampi / fuggenti») in una cantabilità mossa, nervosa, complessa, ondivaga, ambigua (tutt'altro che “sabiana”, tutt'altro che pianamente e pacificamente discorsiva e comunicativa, come vorrebbe certa critica) ‒ non poteva restare insensibile ai versi di una poetessa che sentiva in sé ‒ nel suo ‒ nel suo stesso corpo lacerato e scosso ‒ l'impronta e la ferita dell'Aleph, della lettera primigenia, del nucleo originario che di ogni cosa è principio e fine, contenente e contenuto, dispiegamento e ripiegamento degli orizzonti dell'Essere: «Fu allora che mi regalarono l'Aleph; / mi dissi di averlo visto, tempo prima sul cavo del mio tronco». (M. V.)





Preliminarmente. Da un’esigenza del cuore, dal desiderio di un riscatto dalle “lineae” che “desiderantur”, dà l’impressione di esser stata concepita l’opera prima di Patrizia Garofalo, Ipotesi di donna, ove confluiscono testi poetici che tracciano i lineamenti essenziali di anni che vanno dall’adolescenza all’età matura e pienamente consapevole. Seppure risalenti a tempi diversi, i testi qui riuniti non denotano sensibili salti di registro, se si eccettuano quello d’esordio, dove il verso si allunga e si alterna a incisi di prosa poetica, le sezioni contraddistinte da una partitura strofica maggiormente estesa e flessibile, e l’epilogo (Dalle pagine di un diario), in cui la condizione di possibilità dei nessi tra premesse e derivazioni viene sottoscritta dall’autrice come qualcosa da condividere con un lettore che si sintonizzi sulla medesima onda del condizionale. Come quanto detto, tra le altre cose, da Giorgio Caproni in prefazione, e cioè della maniera di «rasciugare il sentimento privato non appena minacci di trasformarsi in sentimentalismo», la Garofalo rientra nei ranghi del suo lucido ipotizzare tra illuminazioni, smentite e pause mediante gli asserti più o meno lievemente marcati di ironia che immediatamente succedono alla confessione, e, si potrebbe seguitare, con le frequenti sequenze che enumerano – istituendo talora un climax che incorpora l’arco discendente – e che paiono neutralizzare il sentimentalismo fin dal suo nascere: se infatti esse focalizzano, perlomeno discriminano, evitando la sovrimpressione di piani differenti benché correlati, costituiscono al contempo un fattore di sviamento dell’attenzione, nella misura in cui promuovono il trapassare da una immagine all’altra, da un rilevamento all’altro. Ed è significativo come questo prender le distanze ricorrendo agli strumenti dell’ironia costituisca una chiara allusione alla dimensione della «paura» (connotatore che ritorna spesso nel libro), un segno, insomma, di incertezza, della problematicità nel dare un senso univoco ai gesti e ai moti dell’esistenza. Cosa che inibisce l’assimilazione dei «fantasmi antichi» a una simbologia del regressivo, anzi, favorisce il suo rovesciamento, vale a dire il progressivo approssimarsi a delle cognizioni in vista di una reidentificazione votata tuttavia a rimanere provvisoria.
Per ipotesi, al plurale. «Proposizione immaginata, supposta, da cui si traggono conseguenze», dice la definizione della parola (http://www.etimo.it/). Oppure, «congettura o supposizione che tende a spiegare fatti di cui non si ha perfetta conoscenza» (DELI, Zanichelli). “Ipotesi”, in Ipotesi di donna, si espone quale terminus ad quem, superficie temporale entro cui verificare e verificarsi. Stagione – eminentemente, antecedenza –, allora, prorogabile, e in parte ancora da scrivere. Da parte di una donna, le cui affermazioni acquisiscono un duplice carattere: sono tesi, assunzioni, postulati – anche in virtù dell’assenza di congiunzioni condizionali – mentre lasciano un vasto margine alla fallibilità, all’idea di un assunto presuntivo soggettivo, e come tale fallibilissimo. Da parte di una donna che muove da antecedenze certe e nebulose («cifre irrisolte / gesti mancati»), l’ipotesi è qui causale e si dispone ad accertare le condizioni per le quali qualcosa è stato, divenendo la linea-guida per una verifica delle premesse – anziché per una glossa di carattere emotivo – in quest’arco di vita disseminate. Di «tutte le mie ipotesi», al plurale, scrive l’autrice.
Essere ed essere stato. Ora, come anzidetto, “ipotesi” designa soprattutto qualcosa da riconoscere e mettere in chiaro, e l’accertamento della eventualità o meno di un fatto si svolge qui mediatamente e a partire dagli effetti del tempo: sarà l’esperienza a selezionare e a stabilire se ciò che è stato sia unicamente supposizione o previsione fondata che ci autorizzi a dire: «– Io lo sapevo – / Oggi posso riderne». La nozione di ipotesi viene qui a configurarsi anzitutto nell’accezione di ipotesi dell’essere: «non individuo cosa sia la spaccatura in cui i miei / occhi sono da tanto tempo fissi». L’anomalia – la sfasatura – è nel mondo del poeta oppure nel mondo? È l’esito «del male essere stata o dell’essere stata?». L’ipotesi dell’essere si specifica allora in ipotesi dell’esser stato, se le «carte stracciate / cercano il gesto / che le compose». Per avere qualche riscontro a questo nodo la cosa minima, inferiore all’apparenza, e quella somma vengono ad assumere il medesimo rilievo, in una prospettiva in cui «si fonde l’importanza di Dio con quella di una foglia» – là dove “Dio”, quando non è pathos di trascendere la drammatica insensatezza della storia, è indeterminata e non accessibile forza vitale. L’ipotesi di possibilità è il metodo di sondare il già vissuto mentre, per certi versi, esso sembra giudicarci, il che instilla in noi la sensazione di esser destinati alla permanenza nello stato ipotetico. Ciò sebbene lo sguardo retrospettivo della Garofalo si esima dal porre l’enfasi sul senso dell’impermanenza («al nostro dolore è scampo solo / la nostra presenza»), e si predisponga a pensare l’assente come a qualcosa di non estinto. Tutto passa senza che di esso tutto si perda: dal «silenzio limpido di un’estate» allo «sbadiglio di un bambino», dai balli adolescenziali dei quali restano gesti quasi rituali con la terra, «per profondo e pauroso senso di fertilità» – e un siffatto legame con gli elementi di una natura magica, alma mater e benigna sarà una dominante nella sua produzione successiva.
Essere e coesistere. Malgrado i contenuti veri dell’esperienza restino privatissimi, si susseguono nell’opera – talora sovrapponendosi – alterni e differenziali argomenti nel bisogno di un recupero cosciente del dato pregresso. Recupero dell’assenza, in sommo grado (nelle accezioni di estraneità, «torpore», di distratta presenza, di lontananza, di omissione, della dimensione dei desiderata in quanto mancanti), della incomunicabilità tra gli esseri («destinatario sconosciuto / rimandato al mittente»; «nessuno di noi c’è / eppure nessuno manca / all’appuntamento»), del passato che si è fatto consapevolezza, dell’inerte in attesa che qualcosa di vitale promuova una reazione, dello specchio esso stesso menzognero, «opaco», che invita a ricercare a partire dalla «evanescenza di un’immagine», e che indica il vero spettro nell’anonimato, nell’indifferenziato. Non unicamente nei termini di una indifferenza tra gli esseri, ma peculiarmente in quelli di allegoria dell’assenza di margini, la vera deriva, il disgregarsi del soggetto convertito in una somma di automatismi in sconnessione. Inserti vissuti si alternano a rapide evocazioni di esterni che, non banalmente,  designano l’indeterminarsi, l’inoggettivabile non estrinseco a noi, alla maniera in cui la vita cosmica pare talora intonarsi alla nostra. A questi motivi speculare è la struttura dell’opera, non alludente, sotto i profili grafico e strutturale, a uno sgretolamento comunque sotteso, ma non dato con categorie retoriche o in misura particolarmente trasposta. Ipotizzando, l’autrice vuole ostentare un vuoto di cognizioni nei termini di una prolungata e aperta perplessità, orizzonte nel quale l’ipotesi si dilata pervasivamente ai vari campi dell’esperienza. E lo stato ipotetico della parziale conoscibilità delle cose («anche tu / più o meno»; «è quasi tutto vero») perdura, giacché non ci sono dimostrazioni della validità o al contrario della fallacia delle nostre spiegazioni retrospettive.
Esperienza e poesia. Se ne trae un’idea positiva, “adulta” nella integra coscienza della propria persona, del consummatum est, esperibile da ciascuno anche a prescindere da una storia privata – questa, che si scompone nelle varie fasi che compongono la vita –, la prospettiva del residuo acquisito delle figure incompiute, impure e falsate, della vita trascorsa, come vedremo nelle successive opere della Garofalo, dove il sentimento di perdita verrà a caratterizzarsi alla stregua di un ingrediente essenziale dell’esistenza. Con la differenza di una visione della poesia che salva, purché la vita non si risolva interamente nella letteratura. Dell’atto creativo come “memoria salvata”, come uscita da un silenzio che subirà un ampliamento terminologico teso a connotare un maximum di negatività, dato e reso inoltre da un sensibile difetto di presenze oggettuali, un silenzio ridondante, che «stordisce», che «tace» e che induce finanche ad «ascoltare il colore», semiotica di una ricerca di qualcosa più in là: nelle opere che seguiranno, infatti, questa tensione a un oltre sarà resa sulla pagina attraverso una maggiore torsione cui viene sottoposto un nominare tutt’altro che incline all’astrattezza, quasi un evento singolare che implichi un plus semantico volto a esistenziare, e che fonde in sé solenne e quotidiano, anima e corpo – canone costante della poesia della Garofalo. Qui, per il momento, il linguaggio poetico si oppone quale linguaggio autenticamente vero a una comunicazione tra gli esseri elusa, «evitata», assuefatta, di per sé «mistificazione», tanto che talora la risposta è già data per la prevedibilità dei termini di una interlocuzione, peraltro spesso interrotta, con un “tu” mutevole, indefinito, a sé stante. E nella misura in cui si apre alla ricezione degli altri, l’espressione verbale, se non ha ancora proprietà di riscattare dall’insensatezza, si apre in Ipotesi di donna a una inchiesta condivisa che esorcizzi almeno la solitudine della scrittura.
Tempo. Resta il tempo cui l’essere si correla, salvo abbandonarsi a quel nichilismo paralizzante che non rientra nell’orizzonte di questa visione del mondo. «Il tempo raccoglie / un’ipotesi di donna» (proposizione centrale, dal valore non suppositivo ma assertivo) nel darsi dell’essere nel tempo. Raccoglie (nella fattispecie: identifica, sorprende), allora, non solo supposizioni, ma referti concreti che convengono a definire una esperienza. E tuttavia: a tratti il nesso causale che istituisce il raccordo tra i referti memoriali sembra venir meno in virtù dello sfalsamento dei livelli temporali. L’oltranza dell’ipotizzare si svolge in una vaga ambivalenza temporale: ha decorrenza lontana e sembra differirsi («consideratemi pure un periodo di / transizione»). Il tempo sperpera e fa sperperare, ma chiarisce ciò che non trattiene. Del resto, se «il mosaico non è mai un’opera / finita», ogni ipotesi resta condizionale, e ciò non tanto per l’insufficienza o per l’approssimazione dei dati sui quali l’ipotizzare si fonda. Con questo verso la Garofalo vuole anzitutto dirci che la vita è una realizzazione e una rivelazione costanti incomparabili con le nostre cognizioni, e che ogni conclusione ipotizzabile può valere solo temporaneamente.

Elisabetta Brizio






domenica 10 marzo 2013

Franca Alaimo, "Su 'Falò de' rosarî' di Neil Novello"




La forza dei testi poetici che compongono il Falò dei rosarî di Neil Novello (Aragno editore) si origina sia da un’infiammata ed ancora urgente sostanza memoriale, sia da una polarizzazione dello stile verso l’alto, di carattere colto ed intellettuale, attraverso il quale l’autore realizza un singolare impasto drammatico dell’evento presente ancora turbato e doloroso e del passato ricordato e rivissuto per deflagrazioni percettive che scompongono la continuità e leggibilità del dettato, avviandolo verso una sorta di trobar clus, alla maniera della lirica occitanica. Quest’ultima, infatti, costituisce un punto di riferimento molto forte per l’autore, sia sul piano linguistico, orientato e verso una dinamica interna spesso tesa all’invenzione di nuove parole e ad un insospettabile accostamento di lemmi e sintagmi, sia, soprattutto, sul piano di certi topoi compositivi, come rivela l’uso del senhal, ossia del nome-schermo fittizio e simbolico riferito alla donna amata, che, però, qui non è la dama da corteggiare - magari lontana e rarefatta - con raffinate armi retoriche (queste, sì, rimaste tali, ma per decantare e rendere docile il lutto), bensì la stessa madre del poeta, strappata al suo amore filiale dalla crudeltà della morte.

La novità del soggetto e dell’accadimento rispetto al modello provenzale capovolge la percezione della distanza da un vagheggiamento amoroso struggente e spesso squisitamente letterario, concentrato nell’esplorazione di uno spazio incolmabile, in una terribile consapevolezza del “mai più” (che riguarda soprattutto il luogo-tempo vissuto in presenza della madre), spesso ripetuto nei testi (con un qualche riferimento, casomai, alle luttuose onomatopee del Pascoli); consegnando l’uso stesso del senhal, in questo caso Rosa, ad una tradizione diversa, di stampo cristiano, costituitasi, a sua volta, dall’elaborazione in senso mistico di un’ampia simbologia originaria attribuita fin dall’antichità a questo fiore.

Neil Novello dissemina nei suoi testi tutte le possibili significanze simboliche attribuibili alla rosa, attraversando secoli e ambiti diversi, così che vi si trovano molti e spesso sovrapposti riferimenti: all’iconografia ecclesiastica che fece della rosa il simbolo di Maria e, dunque, della verginità, alimentando l’ossimoro del dogma cattolico della “vergine e madre” ( “ora veglia tu la vergine / e libera l’ora sorvolante / su noi” e “ti sale per bocca il petalo / e in ampolla di vergine / calice di sangue svetta in croce”); e ancora una volta alla poesia trobadorica che vide in essa il simbolo stesso dell’amore terreno; e alla setta dei Rosacroce che scelse come simbolo una rosa a cinque petali posta al centro di una croce ( “E tu scoli dal ventre, / sei due rose crociate a fiorame” ); e a certi elementi architettonici degli edifici sacri; ma anche, più semplicemente, a figure emblematiche molto popolari, come il sangue di Cristo raccolto nella mitica coppa del Graal (“Bevi tu a pieni palmi / dal Graal miele d’ali e rugiada) o quello versato dagli uomini per i propri ideali e, ancora, l’amore, la regalità, la vita stessa.

Inoltre, il sehnal Rosa, che sostituisce il vero nome della madre, Clelia, rivelato nella sesta stanza della sezione Stasimo in petalo giallo, si amplia e si moltiplica fino ad originare un vasto campo semantico, che arricchisce di sfumature intellettuali ed emotive immagini e ricordi, collocando la figura materna in un aureola di santità, che le irraggia attorno aggettivi e formule di sapore liturgico, trasformandola in una sorta di vittima sacrificale offerta a Dio.

Dal repertorio della poesia provenzale proviene anche quell’indissolubile nodo fra la natura e la bellezza femminile suggerito da una molteplicità di sottilissimi quanto intuibili fili psicologici, visivo-emotivi, che ne hanno determinato una non scalfibile costante dell’immaginario poetico; così che in una sorta di edenicità pre-mortale la madre, “Rosa” mistica di Neil, abita come una “vestale di fiori” (iris, crochi, viole, gerani, genziane, bocche di leone, anemoni, cerfogli, lillà, asfodeli, alcuni dei quali carichi di reminiscenze letterarie o di sensi simbolici) un luogo rigoglioso, quasi sempre primaverile, brulicante di vita, spesso rugiadoso d’albe virginee o invaso dal biancore latteo della luna, la veste e la corona illuminate dallo splendore di pietre preziose come nei dipinti delle Madonne rinascimentali, ritratte con i loro bimbi sul grembo o ai piedi, o in atteggiamenti giocosi, pronte, come faceva un tempo la madre di Neil, all’apparire e disparire per celia dietro un albero o cespuglio per lanciare un divertito “cucù”. Ma la morte non è un gioco, ma la morte è il disapparire per sempre (“colma di nulla la bara santa”), come sa Neil, che a queste immagini di sacra beltà e serenità contrappone e sovrappone la consapevolezza dell’amaro presente, l’ineluttabilità delle croci nere, il consumarsi delle cose che tornano pietre, natura, lapidi sulla non-carne, testimoni e custodi di morte, (“Di notte, svapora il sangue / tra croci di camposanto”), lavorando con febbrile e dolente volontà a caricare i suoi testi di quella tensione e di quegli improvvisi trascoloramenti, di quell’impasto lessicale ora scuro ora chiaro che determinano una sottile e potente enigmaticità, la quale ritorna al lettore come una delle tante spine che sorreggono l’immagine della Materna Rosa disfatta e sempre viva.

E così, pur muovendosi il poeta in un terreno rischioso, ogni eccesso sentimentale viene evitato grazie ad un’originale tecnica versificatoria in cui il dolore, esploso in schegge sparse, viene quasi raccolto e travasato in una necessità linguistica, il cui effetto sonoro diventa una sorta di “e-stasi” dal senso comune, una puerile e ancestrale “ninnananna a Rosa, / con labbra tremanti” in cui la distanza fra l’altrove e il qui sembra annullarsi in favore di uno spazio–tempo di reciprocità, di dialogo, in cui la cata-strofé si appropria del suo etimo costituendo un’occasione di ribaltamento del processo cognitivo, una germinazione mistica di infiniti rosarî di preghiera e di bellezza, in cui l’iter interiore di salvezza “si alza dal buio / nel fondo della luce” , grazie a lei, la madre, “Ianua Rosa di luce”.



Franca Alaimo



giovedì 7 marzo 2013

I sognatori diurni. Su "La grazia sufficiente" di Giancarlo Micheli

 


A distanza di anni dalla lettura di un celebre libro di Roland Barthes, La grazia sufficiente di Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato, venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma senza interferenze con l’idea formale dell’essai barthesiano riaccade come narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e (con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
Più che per ideale sovrapposizione romanzesca all’Impero di Barthes, La grazia sufficiente, autenticando un déjà–vu critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella volontarietà del memorabile), è saliente esemplare nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia è un film narrativo a sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica) ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker, personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo nipponico.
Ma La grazia sufficiente, nei tre secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti di Barthes – il senso obtusus, ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil nell’Uomo senza qualità. La grazia sufficiente sembra collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale del mondo nuovo e la grandeur, espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare dell’idea, idea che nella Grazia è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo dell’Azione Parallela, Diotima.
Un romanzo dell’idea è quindi La grazia sufficiente, un’idea ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior (Taisho) e storia minor (Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch, la sua storia di nipponizzazione ontologica passa dalla cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch (che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla Storia (il glorioso passato del Liefde).
Se i tasselli memoriali della Grazia non segnalano presenze di proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel memorabile. Ma la storia (maior e minor) e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia sembrano salire a un’acme, poiché condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior e minor) si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale, l’immanente per l’idea trascendente.
Non a caso, appena il memorabile scava nella memoria di una recherche autobiografica (in Taisho e in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res gestae di Taisho, la violenza (la faida religiosa nelle visioni, la vita a Deshima per Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la tentazione del rivissuto memorabile, e così inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto tragico dell’esperienza.
La grazia sufficiente vira dunque altrove: il memorabile della memoria si fa immemorabilità nella violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea del rifiuto. All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla «dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
Se Baruch sovverte l’idea di predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il tempo ritrovato di Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica (la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche attraverso la più remota possibilità – che è parsa un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante di Jean Vigo –, l’esercizio dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane donna (déjà–vu e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di un’ennesima razos visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la madre perduta, la vita sognata. 



                          Neil Novello 
 

venerdì 1 marzo 2013

In margine a un inedito di Paolo Ruffilli ripensando a Natura morta



Per Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà» permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte?

Si stacca la parola

Ecco che di colpo
riesco a dare
corpo all’ombra,
si stacca la parola
dal groviglio
e dà forma al fantasma
figlio del sogno
che si sveglia
e respira
il respiro della vita
con il suo peso
e con la meraviglia
che il carico deforma
e che potenzia
mentre lo assottiglia.

«Si stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». La madeleine in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera oscura) non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in due modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto nel Diario; ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti.
A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un «eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro quarti di luna (1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente.

Conosco le parole più squadrate,
battute a fuoco lento
contro muri spessi di cultura,
e discorsi di logica
incatenati all’astrazione,
ma non persuadono più
neppure un grumo del mio corpo
fradicio di giovinezza.

Ora, è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura morta: l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica, dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti, resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità ed è universalizzabile.
Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. «Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata», «immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince – perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo; per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero, viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Ma è più probabile che Ruffilli faccia totalmente astrazione dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce».
«Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in Affari di cuore), performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata immagine non sia mai finita.
La metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.



Elisabetta Brizio

Macerata, 25 febbraio 2013

sabato 16 febbraio 2013

METAMORFOSI E STRANIAMENTO. PICCOLO POEMA CRITICO PER GAIA CARBONI (IMOLA, GALLERIA "IL POMO DA DAMO", 8 FEBBRAIO - 9 MARZO 2013)




 



Non si può dire, invero, che questo sia, per l'arte contemporanea (spesso divisa ed irrisolta fra l'elitarismo autoreferenziale di un intellettualismo inesplicabile e il volgare, culturalmente vuoto mercantilismo del grande mercimonio altoborghese), un momento facile o favorevole.
Ma, ancora una volta, proprio dalla provincia, dalle realtà in apparenza defilate e silenziose (e nella fattispecie, peraltro, in una città come Imola, ove la cultura gode ancora di appoggi istituzionali e di contesti ufficiali e consolidati, sebbene spesso piegati, come ovunque del resto, alle esigenze esteriori e rituali della mondanità, della rappresentanza, della politica), possono sorgere, quasi in segreto, quasi dal nulla, oasi di libertà creativa, di ricerca e di sperimentazione non gratuitamente provocatorie, ma intrise di viva e meditata consapevolezza.
È questo il caso di Gaia Carboni, giovane ma già internazionalmente riconosciuta artista ravennate (Un'anatomia dell'inconcepibile, Il Pomo Da Damo, Via XX Settembre 27, Imola, 8 febbraio-9 marzo 2013, www.ilpomodadamo.it).
Viene in mente, d'istinto, di fronte alle sue figurazioni inquietanti, sorprendenti, a volte così intense da arrecare all'osservatore un dolore e un disagio quasi fisici, da togliere il fiato (ma resi più profondi e significativi, e insieme filtrati, grazie alla consapevolezza percettiva ed intellettuale assiduamente sollecitata dall'atto stesso della visione), un passo dei Canti di Maldoror di Lautréamont, il grande precursore del Surrealismo, il geniale ed allucinato interprete della “letteratura della crudeltà”: quello in cui egli parla di uno spettacolo «bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o ancora, come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; e, soprattutto, come l'incontro fortuito, su un tavolo di dissezione, di una macchina da cucire e di un ombrello». È quella che André Breton chiamerà «bellezza compulsiva»: la quale nasce dall'accostamento imprevedibile di forme disparate, e, soprattutto, dall'inquietante ravvicinamento, dall'obliqua e “perturbante” (in senso freudiano) contaminazione dell'organico e dell'inorganico, dell'umano e dell'inumano.
Eppure, nelle figurazioni della Carboni, nulla v'è di casuale, di totalmente arbitrario, di gratuitamente forzato. Gli accostamenti più stupefacenti sono garantiti e resi coesi da una sorta di improbabile, sempre reinventata coerenza formale, da un globale equilibrio strutturale fra le parti, che rende finanche le connessioni più ardue quasi necessarie, nel cerchio magico dello spazio e dello sguardo, sottratto ad ogni esteriore ed estranea legge logica o naturale.
Così (come in certi Capricci di Goya, o nei celebri Occhi di Odilon Redon, o in certi abrupti accostamenti, da chambre magique, di Magritte o di De Chirico o ancora, più vicino a noi nel tempo e nello spazio, come nelle increspature e nelle ramificazioni materiche, nei vorticosi e convulsi gorghi d'energia di Andrea Raccagni) il piano umano (nel suo livello organico più crudo, anatomico, preciso, leonardesco o aldrovandiano: alveoli, arterie, ventricoli, aorte, fasci muscolari, mucose), quello meccanico, industriale o artigianale, da homo faber (la gelida e geometrica esattezza degli utensili metallici) e quello vegetale (rami germogli radici, aggetti e virgulti affondati nel profondo o stagliati verso un'altezza indefinita) si fondono, si intrecciano, si rincorrono, divengono quasi indistinguibili, reciprocamente implicati e necessari, quasi alla maniera di un nastro di Möbius, o di un'illusione di Escher.
E, nella spazialità della scultura, l'indistinto materico ed informale delle masse indecifrate si associa e si giustappone alla precisione squadrata, geometrica delle linee, degli spigoli, degli angoli. È sempre lo spazio (bidimensionale o tridimensionale, scultoreo o pittorico, reale o illusivo) a conciliare ciò che è apparentemente inconciliabile, e si rivela in realtà compresente e fuso nella totalità materica dell'esistente, organico-inorganico, vivente-non-vivente: fino a mettere quasi in discussione e in forse queste stesse rassicuranti distinzioni, fin quasi a prospettare una alienazione e uno straniamento della coscienza nell'atto della percezione ma, del pari, un ritorno e un richiamo della conoscenza e della coscienza, rafforzate, a se stesse, come sempre dopo l'esperienza artistica del sublime o dell'orrido nelle loro forme più icastiche e devastanti.
Ma ciò che l'artista riesce straordinariamente a fissare nella forma e nella rappresentazione è l'istante della metamorfosi: un divenire fatto presente, un mutare còlto e fissato per sempre nell'attimo della figurazione. Come nelle rappresentazioni barocche di Apollo e Dafne. O come nella magia della parola poetica, ferma pur nel trascorrere, eterna nel tempo: «Come procede innanzi dall'ardore / Per lo papiro suso un color bruno, / Che non è nero ancora, e 'l bianco muore» continuità nel mutamento, prossimità dell'umano al vegetale, del vivente alla scoria, dell'esistenza al suo dissolversi in aeternum.


                                                                   Matteo Veronesi

venerdì 15 febbraio 2013

CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA



Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni, fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente, nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza misteriosa, quasi ipnotica», come ha dichiarato in un'intervista ‒ ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino, vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, / Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso, limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, / Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale, ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto, circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con parole remote e Bosco del tempo, titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura, hyle physis arché ‒ bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio, «verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale traduttore di Eliot: un fondamento, un a priori essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale, di matrici e di echi ‒ un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti, nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come scrive l'autore in Contro il romanticismo, uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere, e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse, anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo, indiscriminate e cieche ‒ insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno della Natura e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno, diviene imago aeternitatis.
Tempo come archilocheo rhysmós, come Arché, Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒ come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di Letteratura come vita contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito, dell'umano accadere ‒ o come la storicità che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve letterarie, affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De coniuratione Catilinae. Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico, fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione». Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa, incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione, esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus» è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare» è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso esistenziale degli eventi.
Più pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum Iugurthinum, tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con parole remote. «Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte, luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla «memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia, che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto, eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae, I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai rumores della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion, sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte queste premesse, messi a fuoco questi novantiqui, classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa, sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta la sua luce.
Versi fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto, fra la luce e l'ombra, nella visione come nel suono («Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro, pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi» a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella sua ara chiara, / in un rogo devoto»: dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di chiaritate l'âre») al cupo suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e, piano, si estingue.
La parola conduce dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili. «Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto» (Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione estetica in Walter Pater.
Come nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la parola aspira a sprofondare e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con la Natura che è Forma e Principio.


Matteo Veronesi