Propedeutica
a una riconsiderazione di Nietzsche che voglia prescindere da luoghi
comuni, questa storia comincia con una lapide commemorativa datata
«15 ottobre 1944», cioè con una anticipazione, relativa agli anni
della perdita della rispettabilità, quelli di Torino cui la scritta
sulla lapide si riferisce, e dove Nietzsche scrisse Ecce
homo,
gli anni della follia, della infermità e della morte. Si procede da
qui controcorrente al fine di identificare le ragioni di un destino
che diventa collettivo in quanto permeato di una tragica e unanime
«volontà del nulla» quale stigma di un’epoca che ebbe in sorte
l’assistere all’attualizzarsi del nome «dionisiaco». In seguito
al cedimento della promessa di Dio, l’immotivazione a una vita
priva di nuove fondazioni diviene generalizzata: «non solo –
Ferraris scrive – un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di
senso, ma la stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente.
L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio,
moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il nulla
come lemming». È l’alternativa alla noia, leopardiana e
baudelairiana, alla chandra
degli uomini superflui o del sottosuolo, alla melancolia di Freud, è
l’orrore autodistruttivo che aleggia in Lenzerheide da Nietzsche
impresso nel Nichilismo
europeo,
«una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di qualsiasi
messianismo o anche più modestamente di qualsiasi speranza».
Spettri
di Nietzsche
(Guanda 2014) è una anamnesi individuale e storica sulla quale regna
una suspense
reatroattiva che coinvolge sia Ferraris che il suo lettore: sulle
acque plumbee del Congo di Cuore
di tenebra
che metaforizzano la vita di Nietzsche, e sulle tracce di Kurtz –
di Nietzsche omologo, son
semblable,
son
frère
– si consuma la diffrazione dell’orrore nietzschiano. Il soggetto
di questo libro è allora plurale: l’autore, che ricorda o ripete
le vie percorse dal filosofo di Zarathustra, il suo oggetto (un uomo
dapprima caduto al rango di un discriminato, poi salito a quello di
profeta o precursore, il suo sogno inappagato di gloria e
l’intempestivo e sconfinato riconoscimento), il pensiero
dell’essere, la storia, e noi che viviamo ancora nella sua eco.
La
forza dei luoghi (il libro è scandito da capitoli che assumono
ognuno una città come riferimento, e il dramma lì depositato misto
ai temi filosofici che vi si generarono) interferisce con la
direzione degli avvenimenti. Geografia, biografia, biologia e storia
vengono fatti interagire non soltanto per rendere l’intreccio o
l’incontro tra privato e avvenimenti pubblici, visto che i dati
biografici e quelli storici, malgrado il pressoché costante
sfalsamento degli strati temporali, a un certo punto si divaricano, e
più ci si inoltra retrospettivamente nella vita di Nietzsche più
recenti sono le testimonianze addotte, puntualissime, indiscrete,
compassionevoli, sconcertanti. Su tutte, la drammatica descrizione di
Nietzsche da parte di Franz Overbeck nella lettera a Peter Gast. Se
gli anacronismi possono anche rispondere a una strategia narrativa
che si proponga di istituire intermezzi di racconto nel racconto ‒
una mise
en abîme
che renda tangibilmente la profondità di questa riscrittura di
Nietzsche ‒, la loro funzione primaria resta quella di procurare un
complesso di coreferenze volte a illuminare le ombre e le
implicazioni tragiche di una esperienza individuale marcata da un
coefficiente di orrore ancora riecheggiante nella storia in corso, in
esiti meno drammaticamente clamorosi, ma in misura maggiore
onnipervasivi: in due parole, il postmoderno filosofico con le sue
conseguenze.
Conosciamo
a grandi linee la biografia di Nietzsche, ma ci sorprende come nella
trama di Ferraris appaia talora significativamente diversa – ad
esempio, si chiarisce nel dettaglio come Elisabeth Förster non
potesse nazificare proprio nulla dell’opera del fratello,
contrariamente a quanto dicono non soltanto i manuali. Seguiamo
l’avvicendarsi dei fatti e delle loro connessioni essenziali con i
più capillari aspetti della cultura del tempo, parafrasati
dall’esubero calcolatissimo delle testimonianze, dall’analisi
focale e disincantata degli argomenti nodali della filosofia di
Nietzsche riscontrati con le confessioni tratte dal suo epistolario.
Ma sul momento non siamo troppo inclini a soffermarci sulle
riflessioni di carattere strettamente filosofico, tanto questo
inseguimento di un orrore e di un abisso via via sempre più definiti
ci coinvolge con i suoi revenants
e
le sue sottoscritture, con l’inserzione dei numerosissimi appelli
ai referti storici, all’arte, al cinema, alla musica, alle scienze
della natura, ai corrispettivi lirici ogni volta delegati ad
attestare – d’Annunzio su tutti – o a documentare una peculiare
Stimmung.
Sappiamo di dover tornare sulle pagine lucidissime relative al
nichilismo, alla volontà di potenza, all’eterno ritorno, al
dionisiaco, scoprendo che in fondo sono concetti coessenziali e
aventi una origine comune, nel nome di una volontà che ha smarrito
il suo spessore. Come il celebre frammento «non ci sono fatti, solo
interpretazioni», il «progetto di Zarathustra – Ferraris osserva
– rientra pienamente in questo clima: una religione per il mondo
secolarizzato, un mito qualunque, quasi un pretesto per predicare, di
certo un gesto per scacciare l’orrore un po’ più in là».
Anche
per questa loro prossimità Ferraris contestualizza i grandi temi
della filosofia nietzschiana in una struttura, per così dire,
ritmica, espansiva, recuperandoli in successive riprese, dove variano
di natura e quindi di tono, pervenendo a un livello secondo o terzo o
ulteriore di visione e di incidenza, come in un climax che con
progressione inversa ci trascini verso il fondo del fiume a
soddisfare «una voglia di naufragio e di nulla», per poi affondare
in un abisso («disperdersi, negarsi, annegarsi») infine sgravato
nel compimento del «vieni, dolce morte» come nel corale di Bach, e
ricomparire nel profilo spettrale in larga parte già distribuito
lungo i capitoli del libro. Tutto si gioca in uno sfondo che sembra
avere assorbito il potenziale sovversivo dell’eredità ideologica
di Nietzsche, quasi la rovina fosse l’incarnazione della sua
sensibilità malata che gli aveva ispirato l’iperbole: «io sono
tutti i nomi della storia». «C’è chi è nato postumo»,
Nietzsche aveva scritto nella prefazione a L’anticristo.
Tuttavia, se in quella sede la percezione della sua inattualità
assumeva gli indeterminati contorni di un destino, di una fatalità,
nelle successive contingenze storiche quel destino finì per
dimostrarsi vero, a partire dalla ricezione e dalla decodifica
alterna delle sue opere. Ma Nietzsche è responsabile degli esiti
fattuali dell’enfasi insita in certi suoi aforismi o apologhi? E
per quale motivo la sua dottrina è stata strumentalizzata ‒
assunta o biffata all’occorrenza ‒ sia dalla destra che dalla
sinistra? Unicamente per la sua duttilità? Vale allora la pena di
ritornare su alcune parti del libro (la suspense
resta comunque, il perché ce lo ha spiegato Carola Barbero nel
recente suo Filosofia
della
letteratura,
benché Spettri
di Nietzsche
sia un libro di filosofia, ma non per
canonem),
di questa rifigurazione dalla struttura accumulatoria e oscillante
tra un tempo senza fedi e scenari desolanti.
Una
precisazione, fatta da Ferraris al termine di una presentazione di
Spettri
di
Nietzsche:
ciò che di Nietzsche ci affascina e ci appassiona è proprio questo
tratto di anomalia, l’idea di un’esistenza fuori dell’ordinario
e una dottrina talora inconclusiva che sfida il metodo della
trattazione sistematica, l’extrametodica vocazione alla iperbole
inesauribile e verbosa (una saturazione compensatoria delle mancanze
di una vita possibile che Nietzsche ha visto solo tramontare?
Ferraris non banalmente si chiede), l’aspirazione all’eclatante e
insieme alla marginalità e al silenzio.
Enunciato
e motivato nella postilla «L’imitazione dell’Anticristo», il
modus
operandi
di Ferraris risponde alla sua disposizione a non deviare dalla
historia,
dal
«contingente», dal «particolare», anziché tentarne una
rielaborazione mitizzante. Interviene anche qui il realismo che
trasferisce ad altro segno una mitologia esistenziale fin troppo
lungamente esposta a simbolizzazioni, quel Nuovo Realismo che
preliminarmente predica la letteralità e la partecipabilità di ogni
argomentare. E volendo chiamare in causa una circolarità quasi
necessaria che da Ecce
homo
ci riporta agli esordi (a uno spostamento circolare che investe anche
i luoghi si fa riferimento nel paragrafo «Torino, 1888» dell’ultimo
capitolo del libro, «Röcken, 1884-1900. Geologia della morale»),
essa potrebbe inoltre risolversi in questa ostinata volontà di
senso. Se «filologo», è stato detto, vuol dire «amico della
parola portatrice di senso», e se filologici furono i primi studi
nietzschiani (cui presto seguirono il distacco e una critica
articolata), anche in questi termini la fine potrebbe saldarsi a un
inizio già diffuso di fine. Come in queste parole di Jim Morrison,
nelle quali Ferraris intercetta la zarathustriana «volontà di
tramontare»: «This is the end, beautiful friend / this is the end
my only friend...».
Elisabetta
Brizio
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