mercoledì 10 settembre 2014

Antonio Castronuovo, "Quanti 'Orfici' restano?"


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Questo scritto di Antonio Castronuovo, che ho il piacere di pubblicare in anteprima, ritrae, invero, una realtà non infrequente, e anzi comune alla maggior parte dell'editoria di poesia, almeno nel Novecento.
Il libro di poesia è davvero un libro che "nasce per essere bruciato", che esiste contro tutti e nonostante tutto; un libro per tutti e per nessuno, destinato ad essere rigettato, ignorato, dimenticato, abbandonato ad una sopravvivenza tanto più preziosa in quanto precaria. Un tempo, a questa difficoltà cercava di ovviare la scuola; oggi sempre meno, soprattutto per l'ottusità e il disprezzo manifestati, anzi ostentati, dai giovani.
I "bruciamenti delle vanità", fra cui le opere dei classici, ispirati, in passato, dal fanatismo religioso, o i roghi totalitari (di destra e di sinistra) dell'arte "degenerata", "borghese" o "socialmente malsana" non erano troppo diversi, e anzi erano storicamente e culturalmente più meditati e motivati, a paragone dell'odierno, vergognoso scempio delle centinaia di migliaia di libri spediti ogni anno al macero: non solo per assurde esigenze economiche, ma, credo, per un latente, forse in parte inconscio, odio, fastidio, sospetto o superstizioso, irrazionale timore, o stizzito senso d'inferiorità, nei confronti della civiltà della parola e del testo - quella civiltà che stiamo perdendo, che molti si gloriano quasi di aver perso, nell'illusione che ciò costituisca un progresso.
Se non altro, fu per il freddo, per l'incolpevole ignoranza, per l'urgere di pericoli più immediati, e non per odio antiumanistico, che i soldati indiani bruciarono le copie superstiti degli Orfici. Non c'è da stupirsi, se pensiamo che l'opera di Shakespeare rischiò di andare perduta, se solo una ventina di lungimiranti lettori non avesse comprato qualche esemplare dell'editio princeps, che, abbadonata in un sottoscala, andò distrutta in un incendio.
Ed è lecito domandarsi, se mai oggi apparisse un grande poeta, in quanti saprebbero riconoscerlo. (M. V.)

La storia materiale dei Canti orfici (e non solo) è prova rigorosa del fatto che l’oscura provincia italiana è stata all’origine di alcune grandi opere della nostra letteratura. Indubbiamente, a Marradi non sono certo contenti se diciamo che è un luogo della “oscura provincia”. Beh, non se la prendano, non lo è di certo, ma per il fatto appunto che là sono stati stampati i Canti orfici.
Per chi oggi ci arriva, l’aroma del passato vagola ancora: il nucleo antico conserva un solido aspetto storico e il fiume Lamone si snoda tranquillo tagliando in due proprio i luoghi campaniani: da una parte la casa di via Pescetti 1 in cui Campana visse e riordinò i Canti, dall’altra parte la larga via Fabroni dove, sulla facciata dell’edificio al n. 16, leggiamo una targa in pietra che ricorda la tipografia Ravagli, che qui ebbe sede e dai cui torchi uscì l’opera del poeta. Collocata il 7 giugno 2010 col patrocinio dell’Amministrazione Comunale e del Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini”, la targa è così incisa:

In questo edificio ebbe sede la tipografia Ravagli dove nell’estate del 1914 furono stampati i Canti orfici di Dino Campana con il contributo di 44 sottoscrittori marradesi a cui va la nostra gratitudine.

Mi soffermo su questo numero, che mi pare molto interessante: l’opera il cui valore sarebbe stato riconosciuto soltanto vari anni dopo fu pubblicata grazie al contributo di 44 persone che anticiparono il danaro sufficiente per partire con la stampa. In un bel libro di “bibliofilia militante”, Giampiero Mughini afferma che i sottoscrittori erano amici del tempo universitario; si trattò invece – come appunto suona la targa – di marradesi. Lo provano i ricordi che l’amico Luigi Bandini (uno dei pochi che a Marradi tentò di comprendere il poeta) pubblicò il 17 aprile 1938 sul “Meridiano di Roma” col titolo Con me e con Campana:

Un giorno mi disse: «Non hai detto sempre che le mie cose ti piacciono? Dunque, se sei meno fetido filisteo di quello che in verità sembri, mi devi tu stesso aiutare per farle pubblicare. Lo stampatore Ravagli si contenta di duecento lire di anticipo. Non ti allarmare: non voglio che tu sborsi nulla». L’idea era questa. Si sarebbe fatta una sottoscrizione in paese a quota fissa di due lire e cinquanta, con diritto ad una copia del libro una volta stampato. Io dovevo aiutare nella colletta, e – questo era l’importante – essere il cassiere, «perché – disse Dino – a me nessuno dei tuoi compaesani affiderebbe di certo due lire: nemmeno cinque soldi. Tu sei come loro (vigoroso sputo in terra) e ti stimano». Così fu fatto. Ma duecento lire, a due cinquanta per ciascuno, voleva dire trovare ottanta sottoscrittori. Troppi. Si arrivò infatti appena a poco più della metà: 44. Sospirando, il povero stampatore si prese quello che s’era potuto cavar fuori coi mezzi più originali di propaganda ad personam: centodieci lire!

La riconoscenza di Campana si manifestò con una nota sull’ultima pagina del libro: «Ringrazio i signori sottoscrittori, gli amici che mi hanno incoraggiato ed anche last not least, il coscienzioso coraggioso e paziente stampatore sig. Bruno Ravagli». Trovò insomma 44 persone di buon cuore (che tale fu la ragione della loro sottoscrizione, non certo la preveggenza del capolavoro) che si presero la briga di sostenere il desiderio de “e mat”, come Dino era sostanzialmente riguardato in paese. Fu in certo modo un successo: se oggi un poeta di quartiere venisse a bussarci alla porta per chiedere di sottoscrivere la stampa dei suoi versi in quanti aderiremmo alla richiesta? Non certo in 44.
Se poi ci chiedessimo come mai la tipografia si trovava in quel luogo, la risposta sarebbe ancora una volta nella tempra della provincia oscura. Non avremmo infatti il nostro libro “maudit” se a Marradi non fosse nato uno di quegli eruditi locali che giudichiamo polverosi ma senza i quali non sapremmo nulla dei nostri luoghi di vita. Si tratta di Francesco Ravagli, la cui figura è stata studiata da Giancarlo Susini. Nato a Marradi nel 1853, volle a un certo punto lanciare la pubblicazione di una rivista mensile intitolata “Erudizione e belle arti” che, nata nel 1893, restò in vita fino alla morte del fondatore nel 1910. Ora, oltre a lanciare la rivista, il Ravagli aveva un sogno: stamparsela da sé. Laureato in lettere e nominato professore al Ginnasio di Cortona, egli si rivolse dapprima alla tipografia cortonese Bimbi, ma già l’anno seguente appagò il proprio sogno di possedere una propria tipografia, che aprì con macchine moderne sempre a Cortona, in vicolo Sant’Agostino. Trasferito al Ginnasio di Carpi, la tipografia lo seguì, e qui la sua rivista uscì dal 1903 al 1908.
Alla sua morte, la tipografia carpigiana fu rilevata dal fratello Bruno, che vivendo a Marradi fece di tutto per trasferirla in paese, cosa che accadde alla fine del 1912. La sede fu subito quella di via Fabroni, e funzionò per una decina di anni (nonostante l’esistenza di un agguerrito concorrente: la tipografia Forzano): verso il 1922-1923 Bruno Ravagli chiuse i battenti, ma intanto la sua tipografia era entrata – senza che se ne fosse reso conto – nella storia.
I torchi di Ravagli erano da poco a Marradi quando accade l’irreparabile. Come è noto, Campana aveva affidato il manoscritto della sua opera (che all’inizio si chiamava Il più lungo giorno) a Papini, e da questo era passato a Soffici, che l’aveva perduto. Nella primavera del 1914 Campana lo richiese, e Soffici confessò candidamente di non trovarlo più. Nelle settimane seguenti Campana ricostruì a memoria il testo e, per una ben comprensibile ansia, volle subito stamparlo. Forse si era rivolto a entrambi i tipografi di Marradi, ma ottenne le condizioni migliori da Ravagli, che gli fece firmare questo contratto:

Io sottoscritto mi impegno di stampare mille copie del libro Canti orfici del Sign. Dino Campana entro il mese di Luglio p.v. alle seguenti condizioni:

Primo: il prezzo combinato è di Lire quaranta al foglio di sedici pagine ciascuna delle quali avrà un formato di stampa di centimetri sedici per sette in carattere corpo dieci. La copertina dovrà essere in carta a mano grigia con titolo in rosso. Il libro sarà legato e pronto per vendere.

Secondo: all’atto del contratto mi vengono versate Lire centodieci (110) e per garanzia del restante mio avere il Signor Campana mi lascia in deposito le copie stampate che io conserverò sino a che non mi sia ricoperto del mio avere mediante la vendita.

M’impegno però a far pervenire appena stampate venti copie all’autore e di consegnare ai componenti la nota dei sottoscrittori consegnatami e da me e dai Signori Campana e Bandini firmata le quaranta-quattro copie già pagate.

Terzo: Il prezzo del libro è di lire due e cinquanta. Ai rivenditori solamente concederò lo sconto in uso però se entro il 1914 non mi sarò interamente ricoperto del mio avere avrò piena libertà di vendita a qualunque prezzo.

Data del presente contratto

Sette Giugno Millenovecentoquattordici, sottoscritto in Marradi.

Bruno Ravagli

Accettato in ogni sua parte da me Dino Campana

Luigi Bandini testimonio

Fabroni Camillo teste

Era dunque il 7 giugno: il giorno dopo il Bandini consegnò a Ravagli le 110 lire raccolte dai sottoscrittori. I libri dovevano essere pronti a luglio, ma il processo di stampa fu tribolato, con Campana che stazionava ossessivamente in tipografia a controllare e contestare, con inevitabili ed estenuanti discussioni tra poeta e tipografo. Il prodotto finale fu un libro di 176 pagine stampato su diversi tipi di carta, con diverse gradazioni di inchiostro, col titolo nero e non rosso come suonava il contratto, con l’ultima riga della pagina 151 mancante e riportata su un errata corrige a pagina 174. Volendo Ravagli risparmiare su carta, tempo e materiali, non poche furono le copie che nacquero “fallate”, cioè con pagine in confusione di sequenza, ma ugualmente rilegate e messe in circolazione. Se oggi una di queste copie appare nel mercato antiquario si scatena la gioia del bibliofilo vizioso (è accaduto nel marzo 2013 alla fiera milanese Libri antichi e di pregio, dove al n. 14 del catalogo del fiorentino Gonnelli ne appariva una “fallata” offerta al prezzo di 8.000 euro).
Rileviamo anche, per ora, che l’impegno era quello di stampare 1000 copie; che a Campana ne furono consegnate 20; che quelle dei 44 sottoscrittori furono recapitate a loro (la lista dei 44 nomi fu trasmessa al tipografo: averla oggi...!); che le restanti copie furono lasciate in deposito presso il tipografo.
Dopo aver ricevuto il fascicolo, Campana si recò a più riprese a Bologna e a Firenze, per vendere copie nei caffè e per le strade. Si trattò all’inizio delle sue 20 copie, ma poi, versando danaro a Ravagli, altre ne ritirava e vendeva. Alcune copie erano vendute a Firenze anche tramite la Libreria Gonnelli e la Libreria della “Voce”, dove erano depositate. Sul numero del 15 novembre 1914 di “Lacerba” apparve nell’ultima pagina l’annuncio che il libro era disponibile presso le due librerie, e “Lacerba” era all’epoca rivista assai venduta. Gonnelli annunciò l’uscita del libro anche nel suo catalogo di fine anno (addirittura, per fare più presa, Campana giunse a tracciare un frego in copertina sul nome di Ravagli e scrivere a mano che il libro era uscito dal più noto libraio Gonnelli). Si calcola che tutta questa attività possa aver portato alla vendita di circa 300-400 copie. È un numero aleatorio, di cui nessuno ha certezza, ma quando tireremo le somme non ci suonerà così peregrino.
La questione delle copie residue dei Canti è infatti una delle più spassose della bibliofilia italiana. La notizia più chiara emerge quando Vallecchi decise di ristampare i Canti – e siamo all’inizio del 1927 – con premessa di Bino Binazzi. Dal momento in cui Vallecchi avesse posto in commercio l’edizione, le copie di Ravagli non avrebbero avuto più alcun valore, e lui lo capì. Cosa fece allora il tipografo di Marradi? Prese carta e penna e scrisse a Binazzi il 27 marzo 1927:

Egregio Signore,

Nello sgomberare una soffitta piena zeppa di rimasugli di carta, cartoni, libri, ecc. ho ritrovato 210 copie dei Canti Orfici del povero grande Campana, mio paesano e amico, rimasti lì fin ad ora dimenticati. [...] Le condizioni di vendita sono queste: Chi desidera una copia dei Canti Orfici spedisca all’editore Bruno Ravagli a Marradi, £. 5,00, il quale a sua volta gliela spedirà subito raccomandata e franca di Porto. Chi poi le prendesse tutte le riceverà franche di porto e di imballaggio a £. 3,00 la copia.

Binazzi non rispose e l’edizione Vallecchi procedette. Ma noi intanto sappiamo che nel 1927 le copie residue presso Ravagli erano 210. Il dato è molto importante per quel che accadde dopo. Ricoverato al manicomio di Castel Pulci, Campana scrisse al fratello Manlio il 2 giugno 1930 pregandolo di recuperare le copie giacenti nella tipografia («Ti pregherei ricercare l’edizione di Marradi, per conservarla per ricordo»). Manlio procedette e si portò nella casa di via Pescetti, depositandole in un ammezzato, le copie, che presumiamo siano state proprio quelle 210. Vi restarono una dozzina d’anni, fin quando truppe anglo-indiane della seconda guerra mondiale, entrate in quella casa, e non potendone più del freddo, le bruciarono per scaldarsi. Io sono convinto che ci siano ancora dei viventi tra quelle truppe, e che almeno qualcuno si stia rosicchiando le unghie: visto che oggi una copia dei Canti vale dagli 8.000 ai 10.000 euro, i militari bruciarono – al valore odierno – circa due milioni di euro.
Campana però pensava a quantità diverse. Il 25 marzo 1916, aveva scritto a Mario Novaro offrendogli «100, 200, anche 300 copie in blocco a lire zerocinquanta il volume». Mentre l’11 aprile 1930 scrisse a Binazzi una lettera in cui leggiamo: «A Marradi presso l’editore Ravagli si devono trovare ancora almeno cinquecento copie». Perché Campana pensava a questi numeri? Presto detto: se consideriamo che le copie iniziali consegnate a Campana e sottoscrittori furono 64 e che quelle poi vendute si aggirarono su 300-400, il poeta – convinto della stampa di 1000 copie – poteva ben reputare che da Ravagli ne restassero circa 500, o comunque non meno di 300. Poiché nel 1927 ce n’erano certamente 210, allora prende corpo il sospetto di Mughini, secondo cui Ravagli nel 1914 aveva fiutato che Campana era inaffidabile e non aveva stampato le 1000 copie previste dal contratto ma al massimo 600-700. E se davvero (e credibilmente) Ravagli stampò 600-700 copie, consegnando le ultime 210 a Manlio nel 1930, allora le copie vendute erano state da 400 a 500.
Ciò non significa che abbiamo in giro per l’Italia 400-500 copie dei Canti orfici. Un censimento del 1996 sulle copie possedute da biblioteche e collezionisti portò alla somma di poco più di 50. Dobbiamo ovviamente ritenere che varie copie siano andate distrutte o perdute nel tempo. Ma se anche così fosse, è ragionevole stimare che almeno 200-250 siano ancora in mani private. C’è insomma una certa dovizia di copie plausibilmente esistenti, e infatti i Canti orfici non sono considerati libro raro: ogni tanto una copia emerge nell’antiquariato librario e sarebbe sufficiente sborsare i 10.000 euro per portarcela a casa (ecco il problema).
In tutta questa storia, il solo lampante errore è contenuto nell’ultima lettera nota di Campana, quella scritta al fratello Manlio dal manicomio di Castel Pulci il 9 marzo 1931, un anno esatto prima di morire: «La mia vita scorre monotona e tranquilla. Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere». Ecco l’errore inconsapevole: Campana non poteva sapere che oggi un poeta – e solo se è famoso – vende 200 copie se va bene. Lui ne aveva vendute circa 500. I «successi pratici ottenuti» non erano stati affatto «nulli», se non altro per tutti i batticuore che si scatenano quando, su un qualche catalogo, appare una copia dei dolenti Canti orfici.

Nota bibliografica

Giampiero Mughini parla dei Canti orfici nel capitolo Un libro fatto per essere bruciato, ne La collezione. Un bibliofolle racconta i più bei libri italiani del Novecento, Torino, Einaudi, 2009, pp. 54-68.

Lo studio di Giancarlo Susini è “Erudizione e belle arti”. La rivista di Francesco Ravagli, “Studi Romagnoli”, vol. XV (1964), Faenza, Fratelli Lega, 1966, pp. 399-405.

Le lettere campaniane sono citate dalla più recente edizione curata da Gabriel Cacho Millet: Lettere di un povero diavolo. Carteggio (1903-1931), Firenze, Polistampa, 2011. Il testo del contratto tra Ravagli e Campana si legge, tra l’altro, in Dino Campana sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di G. Cacho Millet, Firenze, Olschki, 2000, p. 226.

Il censimento delle copie esistenti, realizzato dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze, è stato pubblicato da Roberto Maini e Piero Scapecchi, «Ho bisogno di essere stampato». Un incunabolo del Novecento: i Canti Orfici di Dino Campana, “Rara volumina. Rivista di studi sui libri di pregio e il libro illustrato”, 1995/2, pp. 49-58 e 1996/2, pp. 55-73.

Antonio Castronuovo

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