La tendenza a considerare l’arte una merce si è sviluppata
rapidamente tra XIX e XX secolo. Attorno al 1960, gli artisti
dell’area che possiamo genericamente chiamare concettuale hanno
tentato di strapparla al mercato sottraendogli l’oggetto. Questo
non c’era più – sostituito dall’happening – o si presentava
in modo derisorio, difficilmente vendibile. Sappiamo che le cose sono
andate diversamente. Limitiamoci a citare quanto è accaduto con la
Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni al quale Milano dedica
una mostra particolarmente riuscita, curata da Flaminio Gualdoni
(Palazzo Reale, dal 26 marzo al 2 giugno 2014). L’artista aveva
provocatoriamente stabilito una parità tra merda e oro che, a quel
tempo, valeva circa 1,12 dollari al grammo. Ogni scatoletta
dichiarava un contenuto netto di 30 grammi. Nel maggio del 2013 la
scatoletta 51 è stata venduta da Sotheby’s per 109.500 euro (con
commissione d’acquisto). All’opposto degli artisti d’area
concettuale, sempre attorno al 1960, Andy Warhol registrava
freddamente la società statunitense di quegli anni. Su questa strada
dirà poi: «Ho iniziato da artista commerciale e voglio finire da
artista degli affari. [...] fare soldi è arte, lavorare è arte e
gli affari ben fatti sono l’arte migliore» (The Philosophy of
Andy Warhol, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1975, p. 92).
Tale atteggiamento è oggi molto più frequente tra gli artisti, che
lo dichiarino apertamente oppure no.
Quanto ho cercato di riassumere succintamente è un epifenomeno, un
aspetto accessorio di qualcosa che va al di là della semplice
penetrazione che il mercato ha nella scelta degli artisti, degli
indirizzi, dei valori culturali fin nelle istituzioni pubbliche che,
contemporaneamente, vanno perdendo il senso del proprio ruolo. Qual è
allora l’aspetto centrale? Attorno alla metà degli anni Trenta del
secolo scorso Walter Benjamin osservava che, nell’epoca della
riproducibilità tecnica dell’opera d’arte grazie alla
fotografia, ciò che faceva parte dell’ambito rituale e aveva un
valore cultuale (Kultwert) era stato trasformato in oggetto
culturale dotato di un valore espositivo (Ausstellungswert,
cfr. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Torino, Einaudi, 1966, p. 28). In seguito, aggiungiamo,
il valore culturale espositivo e il mercato si sono sempre più strettamente intrecciati. Col tempo è rimasto solo uno dei due elementi: il
mercato in grado di produrre – col suo fare totalmente sistema –
immagini virtuali della cultura. È la situazione attuale.
Significa
che siamo pertanto nell’epoca dell’assenza di cultura? Jean
Clair, storico dell’arte e accademico di Francia, è autore de
L’Hiver de la culture (Paris, Flammarion, 2011) e di
altri pamphlet molto critici nei confronti del mondo dell’arte
contemporanea: «Dal culto ridotto a cultura, dalle sacre effigi
degli dei ai simulacri dell’arte profana, dalle opere d’arte ai
rifiuti delle avanguardie, in cinquant’anni siamo caduti nel
“culturale”» (p. 10). Sta parlando del culto della cultura,
dell’inflazione del “culturale” (cultura d’impresa, del
management, di ogni e qualsiasi cosa) che finisce per coincidere con
la scomparsa della cultura. «Nella veste di direttore di un museo,
ogni anno mi veniva chiesto di definire il mio “PC”, vale a dire
il mio “progetto culturale”. Leggevo con perplessità. Quale può
essere il progetto di un museo custode di un patrimonio?» (ibidem,
p. 11). Oggi, nell’epoca degli amministratori, dei direttori
finanziari, il progetto di un museo consiste nello sfruttamento dei
“depositi culturali” come se fossero giacimenti di carbone o di
petrolio, ci dice Clair che indica problemi reali, gravi. Eppure, la
sua posizione parte da presupposti assolutamente discutibili. Il
rimpianto di un mondo scomparso: quello della cultura del culto. Non
viene messo a fuoco che un culto è rimasto, uno solo: quello del
mercato, che totalmente s’identifica con la quotidianità di ogni
vita (penso ancora a Benjamin, Capitalismo e religione, in Sul
concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi,
Torino 1997, p. 284). Questo culto ha la sua cultura: il culto della
cultura che gli si sovrappone pienamente come si sovrappongono valore
cultuale ed esponibilità. È possibile ribellarsi a questo stato di
cose senza essere velleitari o cadere nella posizione reazionaria che
Clair rivendica volendo conservare il mondo com’è ancora, prima
cioè che si trasformi ulteriormente?
Vediamo spesso solo i vapori prodotti dal mercato e ci sfugge il
resto che però esiste – contraddittorio – ai margini o anche al
centro di quegli stessi vapori da cui nessuno è immune. Il resto, il
residuo è dettato dalla capacità, che non si decide a
priori, di lasciarsi permeare creativamente dall’“intelligenza”
dei materiali più diversi che il mondo ti mette a disposizione
(oggetti, sostanze fisiche, idee, dispositivi). I materiali del
proprio tempo e quelli di ogni tempo declinati nel presente. Gli
stessi usati anche per produrre le nebbie mercantili. È inutile
gettare il sospetto su grandi artisti come Joseph Beuys o Andres
Serrano perché giustamente non ci piace la virtualità culturale
prodotta attorno a loro e da loro stessi eventualmente suscitata o,
perlomeno, incoraggiata. Ci vuole invece la lucidità implacabile che
ci fa cercare tutto ciò che è entusiasmante, significativo, fossero
anche pochissime opere nel corpus di un artista. Penso per
esempio a Damien Hirst, a Jeff Koons nei confronti dei quali sono
abbondantemente critico. Prima ancora penso al loro maestro sul piano
manageriale, cioè a Salvador Dalí. Quest’ultimo è interessante
per dieci anni, dal 1930 al 1940; dopo possiamo gradualmente
dimenticarlo, ma saremmo stolti a non guardare con attenzione a quei
dieci anni in cui ha tra l’altro dipinto alcuni splendidi quadri
piccoli e molto piccoli. Oppure consideriamo Warhol che ci ha
consegnato un’opera notevole nonostante pensieri di per sé privi
d’interesse, detti da una persona priva d’interesse.
Scimmiottando a prima vista la comunicazione di massa, ha in realtà
dipinto i dispositivi che stanno alla base di quest’ultima, della
trasformazione di attrici e oggetti in superfici desiderabili. Le sue
opere sono contenitori per quei dispositivi, icone senza effetti,
macchine celibi che, quindi, non suscitano voglie. La Marilyn Monroe
di Warhol non è desiderabile; è l’iperaccentuazione di ciò che
di lei veniva evidenziato per renderla ancora più desiderabile:
labbra, capelli, ciglia, palpebre. Come mai, in assenza di qualità
apparenti da parte dell’artista, il suo lavoro è invece rilevante?
Possiamo rispondere riprendendo le parole dette prima: serve la
capacità, che non si decide a tavolino, di lasciarsi attraversare
creativamente dall’“intelligenza” dei materiali (gli stessi
usati per produrre anche i vapori culturali mercantili) che diventano
così se stessi e altro, in un processo di trasformazione del
generico in universale e singolare potentemente associati, rifondando
sensibile e intelligibile nell’universalità-singolarità del
senso.
Cercare tutto ciò che è entusiasmante e che può favorire la
letizia – descritta da Spinoza (Etica, parte III,
Definizione degli affetti 2) come «il passaggio dell’uomo da una
minore a una maggiore perfezione» – richiede lo studio fatto di
rigore e intuizione. Lo studio che è strumento della transitio,
del muoversi verso il piacere, dello smuoversi dall’edonismo con la
sua ombra di morte in direzione di quanto dà la forza di resistere
non ingenuamente, ma gioiosamente ed eticamente negli interstizi di
una situazione in cui vi sono oggettivamente sempre meno spazi
liberi. Qui l’insegnamento della storia dell’arte potrebbe essere
essenziale se non fosse una materia ben poco considerata nelle stesse
scuole d’arte. Salvatore Settis, già Direttore della Scuola
Normale Superiore di Pisa, così si esprimeva nel 2011: «La storia
dell’arte è in grado di dare un senso al divenire collettivo, di
ridare prospettiva al caos del mondo o più precisamente al caos nato
dalla moltiplicazione di simulacri di ogni genere» («La storia
dell’arte aiuta a vivere», Il Sole24 ore, 19 giugno).
La
storia dell’arte con la disciplina del guardare lungamente contro
la fretta, contro l’attivismo che ci viene ordinato, costruendo,
limando, smontando in parte il già costruito per ricostruirlo meglio
il giorno dopo, coltivando il gusto delle differenze, delle
sfumature. Davanti al “culturale”, alla cultura del culto
mercantile, una via esiste: quella del costruire e ricostruire
associando precisione ed ebbrezza come auspicava Vladimir Nabokov,
scrittore ed entomologo nel Museo di zoologia comparata
dell’Università di Harvard (Strong Opinions, New York,
McGraw-Hill, 1973, p. 10). Precisione ed ebbrezza per custodire e per
cambiare.
Jean Soldini
(articolo già a stampa sulla rivista "Verifiche")
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