martedì 16 settembre 2014

Jean Soldini, "A proposito di arte, mercato e anche di scuola"

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La tendenza a considerare l’arte una merce si è sviluppata rapidamente tra XIX e XX secolo. Attorno al 1960, gli artisti dell’area che possiamo genericamente chiamare concettuale hanno tentato di strapparla al mercato sottraendogli l’oggetto. Questo non c’era più – sostituito dall’happening – o si presentava in modo derisorio, difficilmente vendibile. Sappiamo che le cose sono andate diversamente. Limitiamoci a citare quanto è accaduto con la Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni al quale Milano dedica una mostra particolarmente riuscita, curata da Flaminio Gualdoni (Palazzo Reale, dal 26 marzo al 2 giugno 2014). L’artista aveva provocatoriamente stabilito una parità tra merda e oro che, a quel tempo, valeva circa 1,12 dollari al grammo. Ogni scatoletta dichiarava un contenuto netto di 30 grammi. Nel maggio del 2013 la scatoletta 51 è stata venduta da Sotheby’s per 109.500 euro (con commissione d’acquisto). All’opposto degli artisti d’area concettuale, sempre attorno al 1960, Andy Warhol registrava freddamente la società statunitense di quegli anni. Su questa strada dirà poi: «Ho iniziato da artista commerciale e voglio finire da artista degli affari. [...] fare soldi è arte, lavorare è arte e gli affari ben fatti sono l’arte migliore» (The Philosophy of Andy Warhol, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1975, p. 92). Tale atteggiamento è oggi molto più frequente tra gli artisti, che lo dichiarino apertamente oppure no.
Quanto ho cercato di riassumere succintamente è un epifenomeno, un aspetto accessorio di qualcosa che va al di là della semplice penetrazione che il mercato ha nella scelta degli artisti, degli indirizzi, dei valori culturali fin nelle istituzioni pubbliche che, contemporaneamente, vanno perdendo il senso del proprio ruolo. Qual è allora l’aspetto centrale? Attorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso Walter Benjamin osservava che, nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte grazie alla fotografia, ciò che faceva parte dell’ambito rituale e aveva un valore cultuale (Kultwert) era stato trasformato in oggetto culturale dotato di un valore espositivo (Ausstellungswert, cfr. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, p. 28). In seguito, aggiungiamo, il valore culturale espositivo e il mercato si sono sempre più strettamente intrecciati. Col tempo è rimasto solo uno dei due elementi: il mercato in grado di produrre – col suo fare totalmente sistema – immagini virtuali della cultura. È la situazione attuale. 
Significa che siamo pertanto nell’epoca dell’assenza di cultura? Jean Clair, storico dell’arte e accademico di Francia, è autore de L’Hiver de la culture (Paris, Flammarion, 2011) e di altri pamphlet molto critici nei confronti del mondo dell’arte contemporanea: «Dal culto ridotto a cultura, dalle sacre effigi degli dei ai simulacri dell’arte profana, dalle opere d’arte ai rifiuti delle avanguardie, in cinquant’anni siamo caduti nel “culturale”» (p. 10). Sta parlando del culto della cultura, dell’inflazione del “culturale” (cultura d’impresa, del management, di ogni e qualsiasi cosa) che finisce per coincidere con la scomparsa della cultura. «Nella veste di direttore di un museo, ogni anno mi veniva chiesto di definire il mio “PC”, vale a dire il mio “progetto culturale”. Leggevo con perplessità. Quale può essere il progetto di un museo custode di un patrimonio?» (ibidem, p. 11). Oggi, nell’epoca degli amministratori, dei direttori finanziari, il progetto di un museo consiste nello sfruttamento dei “depositi culturali” come se fossero giacimenti di carbone o di petrolio, ci dice Clair che indica problemi reali, gravi. Eppure, la sua posizione parte da presupposti assolutamente discutibili. Il rimpianto di un mondo scomparso: quello della cultura del culto. Non viene messo a fuoco che un culto è rimasto, uno solo: quello del mercato, che totalmente s’identifica con la quotidianità di ogni vita (penso ancora a Benjamin, Capitalismo e religione, in Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 284). Questo culto ha la sua cultura: il culto della cultura che gli si sovrappone pienamente come si sovrappongono valore cultuale ed esponibilità. È possibile ribellarsi a questo stato di cose senza essere velleitari o cadere nella posizione reazionaria che Clair rivendica volendo conservare il mondo com’è ancora, prima cioè che si trasformi ulteriormente?
Vediamo spesso solo i vapori prodotti dal mercato e ci sfugge il resto che però esiste – contraddittorio – ai margini o anche al centro di quegli stessi vapori da cui nessuno è immune. Il resto, il residuo è dettato dalla capacità, che non si decide a priori, di lasciarsi permeare creativamente dall’“intelligenza” dei materiali più diversi che il mondo ti mette a disposizione (oggetti, sostanze fisiche, idee, dispositivi). I materiali del proprio tempo e quelli di ogni tempo declinati nel presente. Gli stessi usati anche per produrre le nebbie mercantili. È inutile gettare il sospetto su grandi artisti come Joseph Beuys o Andres Serrano perché giustamente non ci piace la virtualità culturale prodotta attorno a loro e da loro stessi eventualmente suscitata o, perlomeno, incoraggiata. Ci vuole invece la lucidità implacabile che ci fa cercare tutto ciò che è entusiasmante, significativo, fossero anche pochissime opere nel corpus di un artista. Penso per esempio a Damien Hirst, a Jeff Koons nei confronti dei quali sono abbondantemente critico. Prima ancora penso al loro maestro sul piano manageriale, cioè a Salvador Dalí. Quest’ultimo è interessante per dieci anni, dal 1930 al 1940; dopo possiamo gradualmente dimenticarlo, ma saremmo stolti a non guardare con attenzione a quei dieci anni in cui ha tra l’altro dipinto alcuni splendidi quadri piccoli e molto piccoli. Oppure consideriamo Warhol che ci ha consegnato un’opera notevole nonostante pensieri di per sé privi d’interesse, detti da una persona priva d’interesse. Scimmiottando a prima vista la comunicazione di massa, ha in realtà dipinto i dispositivi che stanno alla base di quest’ultima, della trasformazione di attrici e oggetti in superfici desiderabili. Le sue opere sono contenitori per quei dispositivi, icone senza effetti, macchine celibi che, quindi, non suscitano voglie. La Marilyn Monroe di Warhol non è desiderabile; è l’iperaccentuazione di ciò che di lei veniva evidenziato per renderla ancora più desiderabile: labbra, capelli, ciglia, palpebre. Come mai, in assenza di qualità apparenti da parte dell’artista, il suo lavoro è invece rilevante? Possiamo rispondere riprendendo le parole dette prima: serve la capacità, che non si decide a tavolino, di lasciarsi attraversare creativamente dall’“intelligenza” dei materiali (gli stessi usati per produrre anche i vapori culturali mercantili) che diventano così se stessi e altro, in un processo di trasformazione del generico in universale e singolare potentemente associati, rifondando sensibile e intelligibile nell’universalità-singolarità del senso.
Cercare tutto ciò che è entusiasmante e che può favorire la letizia – descritta da Spinoza (Etica, parte III, Definizione degli affetti 2) come «il passaggio dell’uomo da una minore a una maggiore perfezione» – richiede lo studio fatto di rigore e intuizione. Lo studio che è strumento della transitio, del muoversi verso il piacere, dello smuoversi dall’edonismo con la sua ombra di morte in direzione di quanto dà la forza di resistere non ingenuamente, ma gioiosamente ed eticamente negli interstizi di una situazione in cui vi sono oggettivamente sempre meno spazi liberi. Qui l’insegnamento della storia dell’arte potrebbe essere essenziale se non fosse una materia ben poco considerata nelle stesse scuole d’arte. Salvatore Settis, già Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, così si esprimeva nel 2011: «La storia dell’arte è in grado di dare un senso al divenire collettivo, di ridare prospettiva al caos del mondo o più precisamente al caos nato dalla moltiplicazione di simulacri di ogni genere» («La storia dell’arte aiuta a vivere», Il Sole24 ore, 19 giugno). 
La storia dell’arte con la disciplina del guardare lungamente contro la fretta, contro l’attivismo che ci viene ordinato, costruendo, limando, smontando in parte il già costruito per ricostruirlo meglio il giorno dopo, coltivando il gusto delle differenze, delle sfumature. Davanti al “culturale”, alla cultura del culto mercantile, una via esiste: quella del costruire e ricostruire associando precisione ed ebbrezza come auspicava Vladimir Nabokov, scrittore ed entomologo nel Museo di zoologia comparata dell’Università di Harvard (Strong Opinions, New York, McGraw-Hill, 1973, p. 10). Precisione ed ebbrezza per custodire e per cambiare.

Jean Soldini

(articolo già a stampa sulla rivista "Verifiche")


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